Tutti, ma proprio tutti, possono avere il loro nome sul campanello di casa.
Trieste, parco di San Giovanni. Le palazzine “E”, “V” e “Z” erano diventate negli anni tre belle e ospitali comunità. Gli ospiti, tutti con molti anni di istituzione, erano arrivati in manicomio da bambini. Nel fuoco del cambiamento avevano trovato una impensata centralità. A tutti ora sembrava che ogni traguardo fosse stato raggiunto. Gli spazi riconquistati, la presenza di accompagnatori giovani e attenti e il parco ormai ricco di tante altre presenze davano forza a questa immagine. Gli operatori più volte nel corso degli ultimi anni si sono chiesti se non bisognava pensare a passi ulteriori. Se non dovessero rendere ancora più concreta e godibile la cittadinanza ormai riconquistata. Se non fosse il caso di andare oltre il “modello della comunità”. Se non era arrivato il momento di scommettere su un uso ancora più dinamico delle risorse. Se la presenza sulla scena di attori molteplici e diversi non potesse aprire a progetti e ingegnerie sociali ancora più impegnate al sostegno di singolarissime soggettività. E così nel corso degli ultimi anni una nuova grande sperimentazione ha cominciato a marciare. Operatori del Dsm, cooperatori sociali, istituzioni cittadine, comune, tribunale hanno costruito e amministrato percorsi che parlano chiarissimo: tutti, ma proprio tutti, possono avere il loro nome sul campanello di casa. Con costi ridotti e compatibili con gli sviluppi ulteriori
Il diritto alla libertà riconquistato dagli ultimi “ospiti” dell’ex Opp
di Benedetta Moro
“Gli ultimi saranno i primi”, diceva qualcuno. E forse questa massima evangelica risuona nel cuore degli ultimi 19 assistiti dal Dipartimento di salute mentale che, involontariamente, diventano oggi il simbolo di un momento epocale, anch’esso l’ultimo a consumarsi nel parco di San Giovanni, che da decenni ormai è l’ex Opp, un ex per eccellenza, “liberato” da Franco Basaglia e dalla sua legge 180.
Adesso l’Azienda sanitaria, grazie allo strumento del budget di salute, che corrisponde al 20% delle risorse del Dsm, ha aperto le ultime porte anche per loro, che hanno lasciato le casette-appartamento, la V, la Z e la E, e traslocato in nuove dimore, sparse per la città. Di queste abitazioni fa parte anche il progetto “abitare supportato” all’interno delle case Ater di via Negri, «nato dalla sperimentazione riuscita di villa Carsia», spiega Marina Barnabà, referente del progetto del Dsm, dove si è sviluppato un nucleo di abitazioni con una “casa madre” che ospita l’assistenza 24 su 24. Sulla stessa lunghezza d’onda la casa delle donne in centro città e quella della “recovery/ripresa”, un nuovo programma che offre un’esperienza di crescita a un piccolo gruppo di giovani, che per sei mesi compie un percorso assieme, con i propri famigliari, in un dialogo aperto.
Ma dove sta l’enorme differenza per le 19 persone che lasciano l’ex Opp? In una sorta di nuovo, riacquisito “stato di cittadinanza”. Le nuove dimore, infatti, non sono “muri” del Dsm, trasformazioni aggiornate del manicomio di ieri, ma luoghi dell’abitare che appartengono solo a loro.
«Questo successo è il risultato di un lavoro fatto a vari livelli con una rete ampia di attori – dice Carlotta Baldi, ex responsabile del Servizio abilitazione e residenzialità del Dsm, che comprende oggi circa 35 posti letto nel territorio -, tra cui il magistrato Paolo Vascotto, che è stato un facilitatore del processo di garanzia per i contratti d’affitto». Che ne sarà ora delle casette, ancora in dotazione al Dipartimento? «Le trasformeremo per altri progetti di partecipazione per giovani – annuncia Baldi -, per processi di recupero della persona e attività d’impresa sociale, che si avvalgano anche dei soggetti cittadini». In lavoro anche progetti di inserimento occupazionale, per il quale si batte molto il Dipartimento, che punta a per rendere lavoratori i propri utenti (oltre 200 progetti all’anno), in particolare grazie alle numerose cooperative sociali. Sulla stessa scia è stata sviluppata dai Distretti Sanitari anche la “domiciliarità innovativa”: non più case di riposo, ma appartamenti situati in città che ospitano come a casa propria le persone over 65. Dal verbo di Basaglia, de-istituzionalizzare, cioè concepire e trattare il disturbo mentale non solo come un’altra malattia da curare, e non solo con la medicina, ma anche con un’inedita alfabetizzazione sociale, i seguaci del papà della 180 e della “Scuola triestina” hanno portato a compimento un sistema che ha fatto grandi passi in avanti. Tanto che il mondo della psichiatria internazionale s’ispira al “modello Trieste”, totalmente a porte aperte, che non prevede più alcun mezzo di contenzione, perché «la libertà è terapeutica». Dai Centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, sette giorni su sette, capaci di intervenire anche sulla crisi, al servizio in ospedale generale che accoglie anche di notte, ma che subito si affida agli stessi centri e quindi a una cura nel territorio, fino alle nuove possibilità di inclusione sociale. Cinquemila persone vengono seguite ogni anno, soprattutto a domicilio. La metodologia del progetto personalizzato e del budget di salute per la singola persona garantisce quindi prestazioni flessibili, definite sulla base dei reali bisogni, anche i più complessi, e dei diritti di cittadinanza, verso un approccio alla vita nella sua globalità. Una progettualità di cura basagliana che prosegue, coinvolgendo circa duecento operatori, nonostante negli ultimi dieci anni abbia inciso un calo del personale del 20%. Resta un esempio che anche l’Organizzazione mondiale della sanità ha percepito, confermando al Dipartimento il ruolo di Centro collaboratore per il periodo 2014-2018, unica struttura per aiutare lo sviluppo di servizi di comunità e innovazione nel settore della salute mentale.
L’orgoglio di un paziente nell’aprire agli ospiti le porte della sua nuova casa, i ritmi di vita. Ognuno può scegliere a che ora cenare e quando andare a letto
«Prima si guardava al gruppo, ora all’individualità», spiega Roberto Mezzina, direttore del Dipartimento di salute mentale. In quest’ottica s’inserisce l’abbandono del parco di San Giovanni e delle casette-appartamento da parte degli ultimi diciannove pazienti. Se prima i nuclei erano formati da cinque o più persone, ora si predilige un numero più piccolo. Un progetto del Dsm che inserisce quindi i propri utenti in mezzo alla gente, in dimore normali tra l’altipiano e il centro città. E di queste abitazioni gli utenti sono a tutti gli effetti i titolari. Fuori dalla porta i campanelli corrispondono ai loro cognomi. E com’è una delle nuove case dei diciannove pazienti? Come tutte le altre. Con un bel salotto accogliente che si affaccia su un patio, dove alcune sedie e un tavolino invogliano a trascorrere alcune ore sotto un sole caldo e un cielo silenzioso. I mobili, scelti assieme anche ai nuovi proprietari dell’appartamento, sono semplici, ma mirati ai bisogni delle persone. C’è una cameretta piccola, dove una delle utenti predilige spazi non grandi, con un ordine preciso delle cose che tiene con molta cura. Qualcun’altro invece ha la stanza piena di giochi. Alle pareti sono appesi i quadri realizzati durante le ore di pittura, e le foto delle gite quotidiane o più lunghe. «Qui faccio tante cose, annaffio per esempio l’orto» dice uno dei proprietari della casa. Perché sì, c’è anche un bell’orto con gli ortaggi. «La logica manicomiale – dice un operatore – è quella di “cena, a letto presto, sveglia all’alba”.
Ma grazie a questo piccolo nucleo, possono scegliere loro a che ora coricarsi, quando e cosa mangiare». «Anche se sono qui da poco – spiega un’altra operatrice -, tutti hanno avuto un’impennata nel miglioramento. C’è chi ora partecipa con voglia all’attività del cucinare, a fare la spesa, cose che non facevano a San Giovanni. E ascoltano molto anche quello che gli si dice. Abbiamo dato loro un forte messaggio: la casa è tua e puoi fare quello che vuoi». Questa casa, inaugurata poco tempo fa, continuerà ad ospitare anche l’assistenza h24. Una villetta a schiera, composta da tre piani, dove solo il primo è riservato al gruppo di tre persone. Circondata da un giardino e dai dirimpettai, che hanno festeggiato il nuovo arrivo con una bottiglia di champagne, nessuno è sorpreso, si tratta di una «riappropriazione degli spazi propri», spiega Carlotta Baldi, ex responsabile del Servizio abilitazione e residenze del Dsm. La festa d’inaugurazione ha visto la partecipazione anche di alcuni utenti del Centro diurno diffuso di Aurisina che, sul filone della micro-imprenditorialità, hanno realizzato il catering per l’occasione. Diventando dei veri e propri chef. Uno dei tanti modi del Dsm per aprire agli assistiti nuove prospettive di lavoro. Dietro ai Centri diurni nuovi e diffusi regnano le parole chiave formazione, terapia e inclusione, in cui si sviluppano ad esempio progetti come quello dedicato alla cultura del benessere. Cui si aggiunge anche un’apertura alla comunità. Quest’estate infatti la sede, che ha anche la funzione di Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, ovvero gli ex ospedali psichiatrici giudiziari, «perché si può affrontare lo stigma della pericolosità con le dovute valutazione dei rischi» dice Mezzina, «è stata aperta al pubblico – racconta Baldi – per fruire di concerti dell’orchestra Mitteleuropa, proiezioni di film, serate di ballo» .
Dall’orfana dimenticata per anni nel reparto «donne agitate» all’ex ragazzo violento che ora ha il suo nome sul campanello: la rivoluzione epocale Dove prima c’era la malattia ora c’è la persona
In silenzio, a volte, li si vede per strada, sui bus, in città. Fino a ieri vivevano in casette-appartamento nel parco, ma un parco speciale, quello di San Giovanni. Erano gli ultimi abitanti dell’ex ospedale psichiatrico o provenienti da altri istituti pre-Basaglia. Solo 19 persone. Nei loro occhi, oggi che la loro vita ha una svolta storica, riecheggiano storie e immagini dure: padiglioni, soffitti alti, camerate, atmosfere assordanti, preceduti da orfanotrofi, viaggi tra altre strutture che negavano loro la libertà. Qualcuno ci era entrato da piccolo, qualcun altro da più adulto. Dopo i primi esperimenti dei gruppi-appartamento, i nuovi contesti socializzanti, che hanno coinvolto via via le 320 persone “esuli” dall’ex ospedale psichiatrico con Basaglia, oggi per loro si sono aperte ulteriori nuove porte. E si chiude, concretamente e simbolicamente, davvero un’epoca. Tra di loro c’è una “lei””. Abbandonata da piccola negli anni ’50 e mai riconosciuta dai genitori, finita poi in orfanotrofio e poi ancora nel cronicario, cioè il reparto di neuropsichiatria infantile, dell’istituto psicopedagogico per bambini. Nessun affetto, nessuna identità. Per finire nel padiglione O, quello di castigo per le donne agitate, dove rimarrà fino al 1973. “Lei”, sballottata di qua e di là, diventa anche una cavia di quei primi e ultimi esperimenti di lobotomia, alla sola età di 15 anni. Così come altre due sue compagne, che però hanno perso la scommessa a soli 40 anni. “Lei” invece sì, ce l’ha fatta. Continua il suo percorso di riabilitazione: da un’articolazione vocale quasi sussurrata, dal dondolio di ore e ore su se stessa, dall’auto-aggressività, è passata, grazie anche alla sua forza e all’efficacia dell’assistenza sanitaria, a una specie di equilibrio in una mente segnata da un passato così greve e drammatico. Resta intatta la paura. Che le venga espropriato, per l’ennesima volta, tutto ciò che ha guadagnato. E quanto fa «1527 diviso 2?». Un’operazione complicata. Eppure un altro utente del Dipartimento di Salute mentale questo calcolo lo sapeva fare senza difficoltà in un attimo. Ora “lui” e i numeri si fanno compagnia, non soffre più di quell’autismo «molto grave», come lo definivano all’epoca, che lo aveva portato a trascorrere 13 anni della sua vita, da piccolo, in giro per gli istituti. Alla fine degli anni ’70 Basaglia e il suo entourage, che con lui stava per accogliere la prima persona da fuori Trieste, rappresentavano una sfida, un’incognita da provare per la sua famiglia. Così, quella curiosità per i numeri e anche per le relazioni gli ha aperto la strada, gli ha consentito di dimostrare quanto poteva essere spiazzante nei suoi miglioramenti, nelle sue riflessioni sui tramonti, e nelle lettere che scrive dalla sua cameretta piena di giocattoli. Ma per quei padiglioni, in particolare per quello “C”, per i “semi-agitati”, passò anche un altro utente, forse il fiore di un autismo non riconosciuto. La violenza gli esplodeva tra le mani, sfogandosi contro i vetri e le tv, che rompeva regolarmente nei primi appartamenti organizzati in via Valussi, in una villa messa a disposizione per disabilità psichiche. Dopo aver raggiunto il Centro di igiene mentale di Barcola, come si chiamava allora, e una delle prime formule di gruppi-appartamento, ora siede tranquillo, ascolta gli invitati che partecipano alla festa d’inaugurazione della sua nuova casa.
Una casa fuori dal parco, dove sul campanello, per la prima volta, c’è un nome: ed è il suo. «Ecco il cambiamento: dove prima c’era la malattia ora c’è la persona – conclude Roberto Mezzina, direttore del Dsm -, dove si curava il sintomo, ora ci si occupa della vita. Dove c’era la remissione, ora c’è la ripresa di sé come soggetto attivo, cittadino con tutti i diritti. Dove c’era l’ospedale ora c’è la comunità».
(da Il Piccolo)