[dalla prefazione al libro di Silvia D’Autilia, Dopo la 180. Critica della ragione Psichiatrica, Mimesis, 2020]
Questo libro di Silvia D’Autilia è semplicemente necessario. Chiarisce molti aspetti mai abbastanza chiariti sulle origini e le influenze filosofiche del pensiero di Franco Basaglia. È un libro necessario perché porta chiarezza nelle frequenti, confuse e superficiali letture del pensiero e dell’opera di Basaglia.
Questo è un libro che accompagna il lettore con semplicità ma senza semplificazioni attraverso le complesse interconnessioni fra la filosofia moderna e contemporanea, il pensiero di Basaglia e le pratiche da lui inventate, iniziate e proseguite negli anni anche con il contributo e la leadership di altri.
Innanzitutto Silvia D’Autilia offre un inquadramento del percorso filosofico di Basaglia che risulta ben più complesso e articolato di quello usualmente proposto da coloro (e sono molti) che si sono limitati a riconoscere a Basaglia un’ispirazione husserliana e un debito con la fenomenologia esistenziale di Jaspers, Binswanger, Minkowski, Merleau-Ponty e Sartre. Invece, a partire dalla Crisi delle scienze europee di Husserl, la questione della crisi della scienza e di un’idea di uomo non limitata e incarcerata dalla Weltanshauung positivista permea in modo complesso il pensiero basagliano.
Silvia D’Autilia ci accompagna in un viaggio attraverso le influenze dirette (grande quella di Michel Foucault oltreché quella dei fenomenologi-esistenzialisti) e indirette (ad esempio Thomas Kuhn o Georges Canguilhem), consapevoli e inconsapevoli sull’opera teorica e pratica di Basaglia. Il testo assume la psichiatria come paradigma ed espressione più leggibile e coerente della crisi generale delle scienze. Ne analizza le fragilità epistemologiche, le inossidabili certezze teoriche. Il Körper positivista è tutto quello che le scienze biomediche vedono e trattano come oggetto terzo, mentre il Leib rimane ignorato o sfuocato sullo sfondo di una generica (in)comprensione psicosociale dei fenomeni di malattia. Il social suffering evocato dall’antropologo americano Arthur Kleinman è escluso dallo sguardo della psichiatria concentrata sulla malattia e i suoi sintomi ma disattenta e disinteressata alla esperienza di sofferenza del malato. Ancora a tutt’oggi i determinanti sociali della malattia mentale sono sì riconosciuti come rilevanti nel modello teorico eziologico ma certamente la riduzione del loro impatto non fa parte delle pratiche usuali della psichiatria. La psichiatria non sembra capace e neppure desiderosa di mettersi in relazione con la complessità, illudendosi che il modello biomedico possa proteggerla dall’irruzione dei determinanti sociali, che non solo scombussolano le vite delle persone ma dovrebbero anche sfidare le certezze clinico-terapeutiche. Abbiamo vissuto una stagione (quella dalla metà degli anni ’80 in avanti) in cui la psichiatria è divenuta sempre più finemente specializzata a trattare patologie complesse (doppie e triple diagnosi), a formulare diagnosi sempre più sofisticate (DSM IV e poi DSM V in un crescendo cui però corrispondono sempre gli stessi pochi e poveri trattamenti), a impiegare farmaci sempre più mirati ma poi regolarmente sconfessati negli anni successivi, a specializzare operatori psicosociali che imparano a gestire traumi e post traumi, a trattare insuccessi scolastici e precoci accessi alla droga.
Dopo questa illusoria stagione di pseudofioritura delle conoscenze, gli psichiatri continuano tuttavia ad accettare ancora che i pazienti gravi e cronici non abbiano alternative decenti alle istituzioni e che siano seppelliti in residenze protette sempre più simili a manicomi oppure negli istituti privati religiosi; gli psichiatri accettano che i servizi di diagnosi e cura pratichino normalmente la contenzione fisica, che i servizi territoriali riproducano logiche asfittiche e ambulatoriali, che le case farmaceutiche occultino i dati sfavorevoli ai farmaci che vendono, che, infine, il rigore delle evidenze scientifiche sia invocato sì ma a giorni alterni, ossia quando conviene. Ancora una volta, ce lo ricorda bene questo libro, la sfida dell’operare nella complessità, all’incrocio e al confine delle discipline, è quella di promuovere senso e soggettività attraverso strategie e strumenti psicologici, sociali, organizzativi e istituzionali, di creare cioè vita e liberazione. In fondo quello che questo libro ci dice a proposito del monologo della ragione psichiatrica sulla malattia è che il linguaggio opera interamente nell’ambiguità, e la maggior parte del tempo non sapete assolutamente nulla di ciò che dite (Lacan citato da Silvia D’Autilia). Silvia D’Autilia ci aiuta a capire che Basaglia è ben altro e ben più del filantropo che mette scarpe e vestiti ai degenti scalzi e in pigiama.
Delle parole di Basaglia spesso la letteratura internazionale (ma forse anche quella nazionale) ricorda più volentieri quelle legate al superamento dello scandalo del manicomio (edificio più che istituzione) ma non le parole legate alla critica dell’istituzione psichiatrica. La violenza del monologo della ragione sulla follia è invece l’oggetto principale della ricerca di Basaglia e il superamento del manicomio altro non è che la negazione della legittimità di tale monologo. Il Basaglia ingegnere istituzionale e filantropo è certamente rassicurante ma semplicemente non è mai esistito. «Continuare ad accettare la psichiatria e la definizione di malattia mentale significa accettare che il mondo disumanato in cui viviamo sia l’unico mondo umano, naturale, immodificabile, contro il quale gli uomini sono disarmati»: questo scrivevano Franco e Franca Basaglia quaranta anni fa.
Chissà se l’etichetta (ossia la piccola etica) del nuovo savoir-faire psichiatrico territoriale sottoscrive queste parole che enunciano invece una nuova Etica del fare psichiatria. Chissà se gli psichiatri hanno capito che il discorso di Basaglia non è un discorso soltanto sul manicomio ma sulla psichiatria. La questione posta da Basaglia sulla malattia psichiatrica è tutt’oggi centrale: la comprensione minima o parziale dei complessi meccanismi interattivi genetici, neurobiologici, psicologici e ambientali che possono determinare un quadro sintomatico (una sindrome dunque più che una malattia) può certamente accrescersi (e senz’altro si è accresciuta da quando Basaglia scriveva quaranta anni fa) ma non modifica la questione centrale della soggettività del malato e del rapporto che con lui tende a stabilire la psichiatria: rapporto di desogettivazione, di tipizzazione, di dominio. La indubbia maggiore articolazione della risposta psichiatrica oggi (in alcune pratiche per lo meno) certamente implica un minore grado di desogettivazione e dominio ma tuttavia non nega radicalmente la realtà della psichiatria, che consiste in una distanza fondata su quel differenziale di potere che connota più in generale l’ideologia medica che «assume per sé l’esperienza della malattia, neutralizzandola e negandola fino a ridurla a puro oggetto di sua competenza […] inducendo il malato a vivere la malattia come puro accidente oggettivabile dalla scienza e non come esperienza personale».
E, ancora, questo libro ci aiuta a capire che Basaglia non è un antipsichiatra ma uno psichiatra antistituzionale. Basaglia, in area anglosassone e con impropria semplificazione, viene spessissimo genericamente associato all’antipsichiatria inglese; tale semplificazione non coglie una differenza fondamentale: l’impresa di Laing e Cooper, pur nella sua radicalità, è rimasta essenzialmente una produzione alta di dissenso culturale, una sorta di avventura individuale disperata e tutto sommato deconnessa da una più collettiva prassi di liberazione. Al contrario, l’impresa basagliana sopravvive alla morte di Basaglia e prosegue in quanto prassi di trasformazione collettiva con decisive implicazioni sulle scelte di sanità pubblica.
Infine, questo libro ci aiuta a capire che in Basaglia il discorso quando non si accompagna ad una trasformazione instancabile della realtà ma invece si cristallizza in un modello operativo di semplice ingegneria istituzionale, perde ogni senso. E di questa instancabilità è fatta la pratica della psichiatria antistituzionale come rivoluzione che programmaticamente rinvia il suo compimento, pena la negazione del proprio potere liberatorio. Le parole di Basaglia sono progetto di una civitas (di una cittadinanza, di una civiltà) in costante mutazione. In assenza di tale progetto civile, l’efficienza organizzativa del modello, di qualsiasi modello, diviene allora antagonista ai bisogni del malato. Questa instancabile provvisorietà del modello se, per il suo ottimismo utopico, offende ogni ratio d’ordine (ratio borghese direbbe Foucault), al contrario assume di fatto la ratio del procedimento scientifico fondato sulla provvisorietà dei modelli e non sulla loro ideologizzazione. E non a caso è in questi tempi di una ideologia scientista profondamente antiscientifica che si è più spesso sentito definire Basaglia ideologico quando, al contrario, l’ipotesi di ricerca che si definisce con L’Istituzione negata è stata fra le più solide e coerenti e ha retto a molteplici verifiche. La teoria in Basaglia, come in Gramsci, è riflessione sulla realtà e intelligenza dei meccanismi della sua stessa trasformazione. Si definisce attraverso la cartografia storica antistituzionale quell’esistenzialismo gramsciano che fonda l’unicità del pensiero di Basaglia.
Un libro che va letto e riletto e che ci aiuterà a capire molto di quello che spesso non abbiamo capito della vicenda filosofica di Franco Basaglia e della sua esperienza pratica di liberazione.
È per questo che dobbiamo molto ringraziare Silvia D’Autilia.
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