Nelle prime ore del mattino la nebbia di novembre non lascia ancora intravedere come sarà il giorno. Malgrado il traffico, l’autobus arriva in anticipo, portando con sé molti anziani e tanti immigrati da ogni continente. Avanza piano per i quattro chilometri di via Padova, il quartiere multietnico dove la “vecchia Milano” sta imparando a convivere con nuove popolazioni e culture.

Non a caso la Casa della Carità, guidata da Don Virginio Colmegna, è alle pendici di questa strada; un’ex scuola abbandonata, grande e gialla laddove comincia la periferia grigia, un tempo città di Crescenzago. Per volontà del Cardinale Carlo Maria Martini, per il quale i milanesi continuano a provare un’ammirazione nostalgica, è luogo di cura di molte persone ai margini della società, fra cui poveri, senza tetto, ex detenuti, malati psichici, madri sole, rom e sinti.

In sei anni Don Virginio, cui Martini stesso affidò l’incarico di presidente della Casa, l’ha fatta crescere con tantissimi progetti di ospitalità, ascolto, ambulatorio, tutela legale, ricerca del lavoro, salute mentale, abitare solidale e dibattito sulle nuove frontiere di accoglienza.

Cinquantasette persone vi lavorano come dipendenti e altrettante come volontari. Quando si entra, dei 150 ospiti non c’è quasi traccia: entro le 9.30 devono lasciare la loro stanza, secondo le regole di questa abitazione austera. Ogni corridoio è ampio e ogni stanza linda, essenziale, dipinta a fresco con colori pastello.

Don Virginio è già nel suo ufficio, indaffarato, mentre sfoglia i giornali del giorno. Si intuisce che ha fretta o, meglio, che ogni minuto per lui va impiegato in modo produttivo. Qui non c’è tempo per il riposo e forse neanche per lo sconforto quando emergono dei problemi. Come adesso, che lui è al centro delle cronache nazionali per la vicenda del campo rom di via Triboniano, in cui la Casa ha un presidio. Con grande determinazione era riuscito a mediare un piano complesso fra Comune, prefettura e ministero degli Interni affinché la baraccopoli fosse smantellata senza danno per i suoi abitanti e per chi vive nel quartiere. Venticinque famiglie dovevano entrare in abitazioni temporanee, altre sarebbero rientrate in Romania con alcune sovvenzioni, altre ancora avrebbero usufruito di borse lavoro, ma poi le autorità, con il ministro Maroni in prima linea, hanno fermato tutto.

Il prete, però, continua a sperare che si torni al dialogo, anche se in più occasioni ha dichiarato che siamo di fronte a una mossa elettorale, per ottenere consenso in vista delle comunali dell’anno prossimo. Ancora una volta si è strumentalizzata la questione di una piccola comunità, che di certo vive in condizioni di emergenza, per tenere alta la tensione, lasciando spazio a slogan razzisti e a un possibile scontro sociale. Solo in questo modo si può rilanciare il tema della sicurezza e far presa nelle paure della gente.

Ma Don Virginio, 65 anni, ex direttore della Caritas Ambrosiana, non si arrende: “Noi lavoriamo per prevenire le derive razziste. Vogliamo funzionare da deterrente, perché siamo ancora in tempo”.  E’ la visione di chi vuole una città più umana e vogliamo credere che abbia ragione lui, in questa Casa senza crocefissi in vista, che lascia lo spazio di esprimersi a tutte le fedi.

Otto anni fa era direttore della Caritas Ambrosiana, ma il cardinale Martini le affidò questo nuovo incarico di presidente della Casa della Carità. Come apprese questa notizia?
Fui contentissimo. Io stesso avevo scritto al Cardinale per condividere insieme questo percorso. Si trattava di avere un luogo in cui stare con le persone più deboli, a rischio di fragilità e di processi di esclusione sociale, italiani e stranieri, uomini e donne. Come? Attraverso gratuità, ospitalità e cultura. Martini voleva inventare un luogo dove la parola carità assumesse i volti delle storie delle persone, e che non fosse una realtà separata dal territorio o un mero dormitorio. Attraverso la condivisione, bisognava produrre capacità di ragionamento, ciò che lui chiama “sapienza della carità”. Questa è prima di tutto una casa o, come si legge nella parabola del buon samaritano, una di quelle locande che si trovano ai crocicchi delle strade dove ci si prende cura degli altri.

Lei è il locandiere?
Non solo io, tutti noi (dipendenti e volontari, ndr) ci sentiamo segnati dal compito della cura. Personalmente vivo la Casa come un grande regalo, perché qui la spiritualità, che non è intimismo, è fondamentale, seppur in una città che si fa spesso sorda e non ascolta le potenzialità di cambiamento e novità presenti nei percorsi di solidarietà.

Questa è una delle eredità che Martini ha lasciato a Milano. Ne sente la responsabilità?
Sì, certo. In questa stanza si trova il suo stemma, una sorta di presenza simbolica e fisica. Noi siamo solo una piccolissima parte della sua eredità, una parte quasi anonima, però qui c’è tutta la potenzialità del suo insegnamento, dei suoi cammini pastorali, della sua amicizia e compagnia.

Quante persone avete aiutato fino ad oggi?
Non parlerei di aiuto. Abbiamo ospitato migliaia di persone e condiviso con loro dei percorsi. Qualche volta ci sono stati dei fallimenti, anche se è sbagliato chiamarli così perché la prima caratteristica dell’ospitalità è lasciare la libertà. Col tempo le situazioni si sono appesantite: per esempio accogliere i migranti significa entrare nel sistema legislativo, nelle paure della gente, nei drammi e nelle difficoltà individuali. Per ogni storia c’è una lettura complessa; non a caso su cento persone accolte più di 40 sono passate dai servizi psichiatrici. La sofferenza mentale è trasversale, ma negli immigrati è legata in particolare all’esperienza di vita e di fuga, a clandestinità e irregolarità che significano timori, fantasmi, tracce destinate ad emergere.

Lei parla spesso di sofferenza urbana. Ci può spiegare meglio in che cosa consiste?
Con Benedetto Saraceno, per quindici anni responsabile dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, abbiamo constatato che il processo di urbanizzazione si sta espandendo ovunque. Nel 2050 la stragrande maggioranza dell’umanità vivrà nelle città con problemi di disagio, favelas, di non-luoghi fisici ed esistenziali. Il dramma della povertà si accumula dentro la metropoli. Il nostro centro studi (Accademia della Carità, ndr) è nato guardando ciò che succede in India, in Africa, a Birmingham, a Barcellona, in America Latina. Studiamo le strategie di salute mentale attuate con pochissime risorse economiche, ma trasformiamo tutto anche in riflessione teorica. Con questo non voglio dire che la salute mentale sia generata in modo deterministico dalle condizioni ambientali, ma queste ultime possono influire molto. Si pensi alle donne che sono state sulla strada o che hanno subito violenza. Queste esperienze lasciano segni che divorano la dignità. L’ansia accresce in chi vive in condizioni precarie, nei non-luoghi o nelle baraccopoli. La paura è dentro chi ha fatto viaggi terribili. Non lo dico da moralista, ma prendo atto di questi dati drammatici.

Milano è una di queste metropoli. Quanto bisogno c’è qui della Casa della Carità?
A Milano l’impatto assistenzialistico, pietistico, d’emergenza e di controllo sociale è così forte che l’intuizione di questa Casa rischia di essere rinchiusa in una logica di testimonianza e abbandono. Il nostro sforzo è di mostrare che da qui si sprigiona anche capacità economica, d’impresa, di riflessione. Ma questa città è piegata su se stessa, impaurita e divisa. La politica sta perdendo lo spazio che le compete di generare possibilità, futuro, mediazione sociale. E’ un’arena in cui si discute, si urla, non si risolvono i problemi per lucrare consenso da una parte e dall’altra.

Basta prendere un autobus per assistere a episodi di insofferenza o di attacco verso chi parla una lingua diversa dall’italiano o ha un altro colore di pelle. Una città impaurita è anche razzista?
Milano è piena di rancore. Naturalmente questo rancore può avere delle derive razziste, ma nutro ancora la fiducia che il razzismo non sia il sentimento prevalente. Bisogna, però, aumentare la vigilanza. Sentimenti da capro espiatorio, generalizzazione del rancore che poi si trasforma in odio, identità che nascono su inimicizie e non su apertura, dialogo e fatica, lanci di slogan pessimi per aumentare il consenso elettorale fanno crescere il senso di impotenza, la rabbia, le urla. La nevrosi da condominio, dove tutti litigano, finisce con l’essere scaricata da qualche parte. E la responsabilità non è solo politica, ma di tutte le istituzioni.

Ma cosa ha generato questo rancore?
I problemi sono reali. Il fenomeno migratorio ha sconvolto una certa serenità di vita. Gli anziani del quartiere che trascorrono qui i loro pomeriggi si sono sentiti travolti. Hanno avvertito un cambiamento strutturale, un abbandono di una Crescenzago che da città è diventata periferia, ma interagendo con il nostro volontario senegalese che li assiste o con i bambini rom che giocano intorno a loro, alleviano le paure. Una grande responsabilità, però, è di chi gestisce sentimenti e consensi.

L’insofferenza non c’è solo per lo straniero in quanto tale, ma anche per il povero.
E’ vero. Negli ultimi anni non è aumentata solo l’immigrazione, ma anche la povertà, l’abbandono, l’esclusione. La povertà ha preso il volto della normalità, del vicino della porta accanto. Ottenere un’abitazione è un dramma. Ci sono persone che hanno fatto un mutuo, ma non riescono ad arrivare a fine mese. Il divario fra ricchi e poveri aumenta sempre di più. E l’immigrazione si inserisce in questo contesto, dove c’è anche un vuoto culturale. Una superficialità nel non avvertire che certe campagne di odio lasciano segni pesanti.

Ovvero?
L’immigrazione non è stata governata. Anche la legislazione europea non è adeguata. Si è gridato solo “al lupo al lupo” e si sono utilizzati i migranti per il lavoro nero e il caporalato. Clandestinità è diventato sinonimo di reato, ma l’irregolarità è a volte l’unico modo per stare nel Paese. Allora bisogna raccontare gli aspetti positivi, che l’ accoglienza ha la grande potenzialità di generare coesione sociale.

Rispetto alla città della moda e del design, l’immagine che lei dipinge di Milano è molto diversa.
Non vogliamo una società fatta di separazioni. Nella Milano povera si può ragionare di design e fashion. Sono risorse economiche di sviluppo, delle eccellenze, ma vanno affrontate con un’etica. E dirò di più: non si può avere un’etica pubblica senza una coerenza personale. Con ciò, ripeto, non voglio essere moralista o bacchettone. Nella politica e nel bene comune il privato conta.

Si riferisce ai recenti fatti che coinvolgono Berlusconi e altri personaggi pubblici?
Certo! Come dice il padre del volontariato internazionale, monsignor Giovanni Nervo, c’è in gioco il senso della democrazia, della Costituzione, dei valori che permeano un territorio. C’è una banalizzazione di alcune questioni (giustizia sociale, democrazia partecipativa, diritto al lavoro e della persona) che vengono consegnate ai giovani facendoli crescere senza memoria.  Il 2 giugno scorso siamo andati in manifestazione e abbiamo letto la prima parte della Costituzione perché essa è straordinariamente in grado di mettere insieme culture diverse che hanno fatto la storia dell’Italia. C’è una concezione di democrazia aperta ad altre culture. La questione dei diritti è centrale e fa crescere quella dei doveri e della responsabilità del bene comune.

Responsabilità che si sta perdendo…
Non voglio essere polemico, ma mi preoccupano anche una serie di politici cattolici che un tempo erano per l’integrità, ma ora scoprono la laicità della politica nel senso che questa non deve toccare gli affari privati. C’è, invece, una connessione fra ispirazione di fondo della propria esistenza e capacità di dare valore alla politica. E non può crescere la solidarietà senza impegno, senza un’autodisciplina.

Il nazismo definiva “gli zingari criminali e asociali”. La Lega, ma anche la gente comune, parla in termini simili. Non è inquietante?
Sì, ma devo chiarire una cosa: noi della Casa non siamo del partito dei rom. Qualsiasi generalizzazione, “o tutti vittime o tutti buoni”, non favorisce nessun percorso d’uscita. Tra l’altro non esistono solo i rom, ma i sinti, gli italiani e gli stranieri; esiste un processo di sedentarizzazione che ha reso i nomadi stabili sul territorio; esiste la Romania con la sua storia e con Ceausescu che li ha discriminati creando situazioni di vita disumane. I rom sono la categoria più fragile e che più si presta a fare da capro espiatorio. A Milano, se sulla questione rom si sono fatti due vertici nazionali in prefettura, significa che il piccolo problema rende dal punto di vista del consenso. La paura dei rom è reale, attraversa anche noi in termini di diffidenza, ma quando la si generalizza e si canalizza in essa tutto l’odio si produce un clima che può diventare l’anticamera della camera a gas. Ma noi lottiamo affinché non si arrivi a questo punto, anche con gli stessi rom, facendone uscire le anime buone per evitare la degenerazione dell’illegalità e dello scontro, entrando in quei meccanismi folli che portano le ragazze a sposarsi a 15 anni, mandando i bambini a scuola, comunicando il tema dell’abitare in termini diversi. Confesso che a volte ci si sente soli perché nessuno in politica vuole impegnarsi su questi aspetti.

Le autorità, intanto, continuano ad annunciare lo smantellamento del campo di Triboniano dove voi avete un presidio. Temete che accadrà presto?
Lo sgombero in realtà non si potrebbe fare perché è un campo regolare, assegnato dalla municipalità. Ma il problema di Triboniano, che era risolvibilissimo, è diventato una questione simbolica. Si era avviato un percorso molto positivo per 80 famiglie con assegnazioni di case e rientri volontari. Tutte le istituzioni l’avevano condiviso, ma poi l’hanno bloccato. Ora si rischia che i rom perdano fiducia nelle istituzioni, dopo che con loro avevamo fatto un lavoro affinché credessero in esse. Come facciamo adesso a convincerli, quando noi stessi non abbiamo certezze? Ciò che si rischia è drammatico: un irrigidimento della situazione e l’emergere di fatti che legittimino lo scontro. Le autorità vogliono abbandonare la questione per incattivirla, col rischio che degeneri in un conflitto fra gli abitanti del quartiere, che prima erano d’accordo su uno smantellamento graduale ma che ora vedono il campo deteriorarsi, e i rom. E’ un gioco al massacro che avrà come prezzo una conflittualità crescente da gestire con un appello alla sicurezza che fa campagna elettorale.

E per evitare questa guerra fra poveri lei si è detto pronto alle vie legali.
Non proprio. La realtà è più complessa. In Caritas ci sono i cosiddetti “Avvocati per niente” che si stanno occupando di questa vicenda. Un’altra causa poi è stata fatta da Valerio Onida (il giurista candidato nelle prossime primarie del Pd, ndr). In più, qualche giorno fa, e a ragione, dieci famiglie rom che avevano già firmato l’accordo di uscita dal campo entro il 15 ottobre e di ingresso in case temporanee Aler, hanno fatto ricorso al Tribunale di Milano.

Di fatto le autorità milanesi, che parlano di sicurezza e legalità, hanno violato la legge?
Si sono comportate in modo illegittimo. La verità è che malgrado gli annunci, non sgombereranno mai senza aggrapparsi a un motivo 102 famiglie, 600 persone tra cui 220 minori. Ora dicono che lì passerà una strada dell’Expo, ma avrebbero dovuto saperlo anche prima, quando hanno assegnato il campo in modo regolare. Se continuano a spostare la data dei lavori Expo, vuol dire che quel terreno non è già in gara d’appalto. Noi vogliamo superare la logica del campo nomadi. Da Triboniano si deve uscire perché così non si può vivere, ma con un piano condiviso.

Rom e sinti in Italia, secondo il ministero dell’Interno, sono  12.346. Perché ormai da qualche anno si parla di “emergenza rom” e in Lombardia esiste un commissario ad hoc, il prefetto di Milano Gianvalerio Lombardi?
Rom e sinti sono sempre un’emergenza per le condizioni in cui vivono. Ma il compito della politica non è di dichiarare l’emergenza, ma di risolverla e di abbassare l’intolleranza. Il prefetto dice di aver trovato delle case, ma in questo clima di tensione è logico che appena queste persone vi entreranno scatterà un’assemblea di condominio.

Il programma “La storia siamo noi” di Rai2 l’ha descritta come “un prete manager”. Si ritrova in questa definizione?
Mah. Certamente per fare una realtà d’impresa come questa, che fa bilancio sociale, c’è bisogno di una capacità di gestione. Ma io sono prima di tutto un prete, che tra l’altro prende 900 euro al mese. Certa stampa confonde il bilancio d’azienda con il guadagno personale. Tutta la storia della carità è una storia di capacità imprenditoriale. Don Bosco ne fu precursore. Ma alle doti manageriali bisogna aggiungere gratuità e coerenza. Se fossi stato solo un manager non mi sarei occupato dei rom. Dove sarebbe stata la solidarietà?

C’è anche chi lo ritiene un missionario in città.
No, sono un prete comune. E poi non sono solo io a fare questa realtà. Devo riconsegnare il valore della Casa a chi ci lavora ogni giorno.

Francesca Lancini

(da Inviato Speciale)

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