A
ALIENAZIONE MENTALE
Termine con cui si è inteso definire la condizione dell’essere fuori di sé in un periodo storico in cui il soggetto di questa alienazione continuava a far parte del corpo sociale. Le interpretazioni demoniache o magiche della pazzia (vedere la relativa voce di questo dizionario) non sancivano la disumanità dell’alienato quanto la presenza del demoniaco e del disumano nell’uomo.
L’assorbimento dell’alienato nell’ambito della patologia generale segna l’inizio di una nuova scienza: la psichiatria (v.) costantemente alla ricerca del proprio oggetto, su un terreno e con strumenti inadeguati alla realtà che tenta di scoprire (v. Trentatré). L’alienato scompare cioè come problema contraddittorio dell’umano, per diventare agli occhi del medico il malato mentale e agli occhi della società quell’al di là dell’umano da cui ci si deve salvare. Per questo il problema dell’alienazione mentale è diventato un problema di difesa sociale, dove l’alienazione è ridotta a un fenomeno curabile soltanto con l’internamento. La psichiatria si configura a questo punto come la scienza della patologia della diversità. Con l’inserimento della dimensione sociale (v.) nella psichiatria sembra che tale scienza tenda a rivedere globalmente l’oggetto della propria ricerca, in rapporto all’ambiente familiare, lavorativo eccetera. La malattia mentale sta dunque rientrando nella comunità da cui era stata separata e la psichiatria sembra sempre più incline a occuparsi della patologia della totalità. Ma se il sociale non può essere inteso solo come un insieme di rapporti interpersonali, di relazioni e reazioni a livello sociologico e deve invece essere considerato anche un insieme di rapporti sociali di produzione, l’alienazione mentale torna a imporsi come un fenomeno che coinvolge l’uomo nella sua totalità. Cioè l’uomo contemporaneamente alienato dalla malattia e dalla paradossale logica del capitale, che fa passare per umano, naturale e irreversibile ciò che contribuisce al proprio sviluppo: l’alienazione mentale e la disumanizzazione dell’uomo.
ANTIPSICHIATRIA
Negli ultimi anni si sono sviluppati in diversi paesi movimenti psichiatrici tendenti a distruggere la vecchia immagine della malattia mentale. Pur partendo da questo denominatore comune e arrivando a una prassi professionale analoga, ciascun gruppo si fonda su presupposti teorici diversi.
l gruppo dell’antipsichiatria inglese, di cui Ronald Laing e David Cooper sono i principali rappresentanti, rifiuta l’idea tradizionale della follia. La follia viene anzi considerata un valore positivo, in quanto negazione esplicita dell’attuale società, ritenuta responsabile dell’instaurarsi di molte forme morbose. Per questa strada si tenta di spiegare la malattia mentale come il rifiuto di una vita non vivibile; e i sintomi della malattia, restando collegati al contesto in cui si manifestano, risultano meno incomprensibili di quanto la psichiatria tradizionale si ostini a ritenere. Meno politicizzato del movimento antipsichiatrico italiano, quello britannico opera soprattutto a Londra attraverso una trama capillare (network) extraistituzionale, nel tentativo di offrire un’alternativa al manicomio. Siamo tuttavia in una fase di capovolgimento: alla devianza si contrappone il suo rovescio, ossia la malattia intesa come un valore; la crisi psicotica viene interpretata come un segno di salute; la pazzia viene integrata nella società dopo una secolare segregazione; si convive con la follia dopo averla totalmente esclusa. Ma i limiti dell’antipsichiatria sono gli stessi contro cui cozza la psichiatria: la struttura della società e gli strumenti del potere sull’uomo, sano o malato.
C
CARTELLA CLINICA
Più che un documento in cui risulti la storia del paziente, sembra spesso una pezza giustificativa che l’ospedale prepara per motivarne il ricovero. La formulazione della diagnosi illumina di un colorito particolare ogni atto o avvenimento della vita del paziente, mettendo in evidenza soltanto gli aspetti che possono essere interpretati sotto questa luce. Nella cartella clinica non solo viene ricostruita (a posteriori) la malattia ma anche la storia del paziente, una storia che sembra sia stata vissuta soltanto in funzione di quella malattia e, soprattutto, in funzione del ricovero.
Come il malato costruisce la storia della propria vita selezionando gli avvenimenti più lusinghieri per presentare agli altri un’immagine di sé accettabile, così la cartella clinica sembra rivolta a individuare gli elementi più negativi, i fallimenti più nascosti, gli avvenimenti più vergognosi che abitualmente l’individuo riesce a celare; e ciò per costruire un quadro del malato perfettamente rispondente all’ipotesi diagnostica. Gli stessi elementi collezionati nella cartella clinica di un malato istituzionalizzato restano fatti privati personali per chiunque non entri in una istituzione psichiatrica. All’internato invece non resta più niente di personale e meno ancora di privato. E la cartella clinica, con l’elenco delle sue stranezze e dei suoi errori, diventa perciò un nuovo strumento antiterapeutico che si aggiunge agli altri, aiutando a fissarlo in quella sua immagine di pazzo, ormai pubblica e quindi irreversibile.
CASE DI CURA PRIVATE
Istituti previsti anche dalla legge (v .) sugli alienati, che consentono da un lato ai malati mentali abbienti o convenzionati con mutue privilegiate di sfuggire alla stigmatizzazione (v.) del ricovero manicomiale; e dall’altro ai proprietari e gestori di realizzare cospicui guadagni attraverso l’assorbimento del malato mentale nel ciclo produttivo.
Quando l’ospite di una casa di cura privata esaurisce le sue risorse economiche o supera il limite di 180 giorni di malattia riconosciuto dalla mutua, diventa automaticamente pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo e bisognoso di ricovero coatto in manicomio (v.).
COMPLESSO.
Termine d’uso corrente, derivato dal linguaggio analitico (avere un complesso, essere complessato eccetera) che è andato gradualmente perdendo valore presso gli psicanalisti (vedi psicanalisi), se si eccettuano le espressioni e i concetti di complesso di Edipo o di castrazione, ormai diffusi anche nell’uso quotidiano (con questo Edipo…, eccetera).
Si tratta comunque di un insieme organizzato di rappresentazioni e ricordi a forte colore affettivo, a livello – parzialmente o totalmente inconscio.
COMUNITÀ TERAPEUTICA.
Nata in Inghilterra, il paese che conta una lunga tradizione nei tentativi di rinnovamento delle istituzioni psichiatriche, si fonda essenzialmente, secondo i principii di Maxwell Jones, suo più autorevole rappresentante, sull’uso della interazione di gruppo come forma di apprendimento sociale. Con essa si tenta una cogestione comunitaria della malattia attraverso il reciproco sprigionarsi di valenze terapeutiche fra medico, malato e tutti gli altri componenti della comunità. L’accento viene posto qui sul momento pratico-organizzativo; quindi sulla gestione della vita istituzionale come messa in discussione pratica del sistema gerarchico, autoritario, custodialistico, tipico delle vecchie organizzazioni manicomiali.
Ma nel momento in cui la comunità terapeutica si costruisce in nuovi dogmi e nuovi miti, questo riconquistato margine di libertà viene da capo a mancare. La nuova istituzione cioè torna a chiedere al malato di identificarsi in una definizione della malattia diversa da quella precedente ma altrettanto vincolante e irreversibile. E anche qui ci si trova di fronte a un rovesciamento: fine della comunità terapeutica diviene l’adattamento del malato guarito alla stessa situazione sociale da cui era partito. Una volta smantellata la struttura manicomiale tradizionale e resa possibile la riabilitazione del malato nella istituzione, come non riconoscere nella istituzione buona la medesima funzione di controllo che caratterizzava l’altra?
In questo modo, la comunità terapeutica rischia di ridursi a un pur necessario strumento di umanizzazione del manicomio, il cui compito comunque seguiterebbe a essere quello di affermare la validità di una norma (v.) definita e imposta dall’esterno, oltre i confini di competenza tecnico-specialistica degli psichiatri e dei loro collaboratori.
CONFLITTO
Concetto derivato dalla psicanalisi (v.). Se ne parla quando in un soggetto si oppongono esigenze interne e contrarie. Il conflitto può essere manifesto (per esempio fra un desiderio e un’esigenza morale o fra due sentimenti contrastanti); o latente, nel qual caso si esprime in modo deformato e può manifestarsi attraverso sintomi, disturbi della condotta o turbe del carattere. Tuttavia il conflitto è costitutivo dell’essere umano, come espressione della contraddizione insita nell’uomo. La psicanalisi ha messo in evidenza e teorizzato il problema della contraddizione. Le successive varie scuole psicanalitiche invece hanno creato delle tecniche volte a risolvere il sintomo, come espressione del conflitto, non attraverso la presa di coscienza della contraddizione bensì attraverso l’eliminazione di uno dei poli di essa.
CONTENZIONE
Pratica manicomiale mediante la quale il malato agitato, furioso o incoerente viene assicurato e protetto al fine di prevenire gli eccessi della follia di cui soffre. La legge (v.) ne prevede l’applicazione secondo canoni rigidamente fissati dai diversi ruoli gerarchici che costituiscono la piramide manicomiale.
La contenzione crea qualche inconveniente. Recentemente si è venuti a conoscenza di casi di persone morte nel letto di contenzione a Varese e a Torino. Ma quando lo psichiatra ordina che un malato mentale venga contenuto, è la scienza che avalla e giustifica questo suo atto, anche se esso è esplicitamente una dichiarazione di impotenza.
I recenti progressi della psicofarmacologia hanno ovviato il fenomeno degli eccessi della follia e di conseguenza quello degli eccessi della contenzione. Tuttavia gli psicofarmaci (v.) da importanti mezzi terapeutici possono diventare, nelle nostre istituzioni, nuovi mezzi di contenzione chimica più che strumenti selettivi di cura, se sono usati solo come difesa e giustificazione dell’istituzione.
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