Di Giorgio Simon, pediatra, già direttore generale ASL Pordenone
Perché curare le persone e riportarle alle condizioni che le hanno fatte ammalare?
In questa frase di Michael Marmot, il maggiore studioso al mondo sul tema di salute ed equità, è riassunto il cuore del concetto che noi chiamiamo di volta in volta “integrazione socio-sanitaria”, “integrazione di servizi”, “continuità delle cure”, “budget di salute” e molto altro. Nello stessa pubblicazione Marmot, citando quanto si era sentito consigliare dal suo maestro di Berkeley Leonard Syme, dice: «Solo perché hai una laurea in Medicina non significa che puoi capire cosa è la salute. Se vuoi comprendere perché la salute è distribuita come lo è realmente, devi capire la società».
È impensabile curare, riabilitare e più semplicemente stare vicino a persone ammalate o con bisogni di cura se non si conoscono e si affrontano le loro storie, le loro relazioni e i luoghi sociali e fisici in cui vivono. Le organizzazioni sanitarie, riabilitative, assistenziali, sociali dovrebbero essere organizzate per saper fare questo. Anche dopo un episodio molto “bio-medico” come una frattura di femore in una persona anziana è indispensabile per la riabilitazione conoscere e valutare dove vive, con chi vive, come è fatta la sua casa, quali relazioni ha, che comunità ha attorno.
La domanda quindi è: stiamo lavorando in maniera integrata e la nostra organizzazione è costruita di conseguenza? In parte sì e in parte no. Nella mia lunga esperienza lavorativa ci sono alcuni ostacoli che ancora impediscono il pieno compimento del progetto. Questi ostacoli hanno un nome: diagnosi e destino.
La diagnosi
La diagnosi, ovvero “riconoscere attraverso”, è una forma di giudizio che consegue alla raccolta ragionata di informazioni. È uno strumento che serve a programmare la cura, a prevedere il futuro della malattia o del disturbo, a classificare, misurare, certificare, erogare contributi e anche a decidere chi (che servizio) paga. La diagnosi è sicuramente uno strumento utile ma anche molto pericoloso. Diventa pericoloso quando diventa solo un giudizio. Susan Sontag scriveva che «non c’è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è inevitabilmente moralistico» e Franco Basaglia diceva che «per poter veramente affrontale la malattia dovremmo poterla incontrare fuori dalla istituzioni la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono». Molte, troppe volte nella discussione tra servizi ho sentito chiedere con insistenza: «Ma qual è la diagnosi?».
È evidente che questa richiesta cerca la rassicurazione della classificazione, del congelamento, della casella in cui includere le persone. È il momento in cui si dice «questo caso è tuo e paghi tu», oppure «è da comunità, da centro diurno, da 24 ore». Una delle aberrazioni peggiori è quando si classifica una persona con “doppia diagnosi”, come se le persone fossero due e non una sola con un problema complesso. I veri schizofrenici siamo noi perché trasformiamo la nostra separazione di servizi (come salute mentale e dipendenze) in un problema della persona e certifichiamo che la persona è “doppia”.
Come insegna la lunga storia della salute mentale, il pericolo della diagnosi è che si trasformi in stigma, in pregiudizio, in semplificazione.
A molte diagnosi si associa sempre più spesso il concetto di “cronicità” o di malattia cronica. Termine infelice che spesso si associa alla resa, a qualcosa su cui si può fare poco, a un’etichetta indelebile per la persona. «Non bisogna mai arrendersi alla cura» dice Franco Rotelli, e non è un caso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità parli non di malattie croniche ma di “malattie non trasmissibili”.
L’espressione “epidemia della cronicità” è usata di volta in volta per dire che il servizio sanitario pubblico non sarà più sostenibile o che molte malattie sono dovute solo ai comportamenti dei singoli, trascurando così colpevolmente gli effetti delle differenze sociali per l’insorgenza e la gravità queste malattie.
Cosa fare quindi? Credo che ogni singolo operatore debba chiedersi sempre: «Perché ho fatto questa diagnosi? A cosa mi serve? Aiuta il processo di cura e riabilitazione di quella persona? Le provoca danni, stigma, emarginazione? C’è il rischio che sia usata per fini economici e non terapeutici?».
Il destino
Nel bellissimo libro autobiografico “Elegia americana”, J.D. Vance racconta la sua storia e quella dei ragazzi che vivevano dove abitava lui, negli USA tra i Monti Appalchi e i Grandi Laghi. Scrive Vance: «Le statistiche dicono che quelli come me avranno un futuro difficile, e nella migliore delle ipotesi riusciranno a cavarsela senza ricorrere ai sussidi statali; nella peggiore moriranno per un’overdose di eroina, come è capitato soltanto l’anno scorso a decine di ragazzi della cittadina dove sono nato. Io ero uno di quei ragazzi dal destino segnato».
Gli operatori e i servizi incontrano ogni giorno persone e le loro vite. Non sempre ci rendiamo conto che in quel momento diventiamo parte importante delle loro storie e dei loro destini. Tendenzialmente ci piacciono di più i casi semplici e le persone collaborative. I casi complicati ci affaticano, ci mettono in difficoltà, mettono anche in discussione la nostra autostima di buon operatore.
Sono i casi complessi, quelli che non collaborano, quelli che non ci rispettano su cui talvolta sentenziamo, come un chirurgo o un oncologo, «non c’è niente da fare», e li lasciamo al loro destino.
Marmot nel suo rapporto “Fair society Healty Lives” (società giuste, vite con più salute), dedicato alle politiche contro le diseguaglianze, cita uno studio condotto in Inghilterra. Nella ricerca si sono misurate le perfomance cognitive di quattro gruppi di ragazzi da 22 a 118 mesi (quasi 10 anni). Poveri e ricchi con performance di partenza bassa e poveri e ricchi con performance di partenza alta. Il risultato è drammatico. I “poveri bravi” peggiorano nel corso degli anni facendosi sorpassare dai “ricchi meno bravi”, i “ricchi bravi migliorano”, i “ricchi meno bravi migliorano” e “poveri meno bravi” peggiorano ulteriormente. In sostanza, il destino non era legato alle loro capacità ma alla classe sociale di appartenenza. Da questo nasce l’obiettivo che il programma di Marmot definisce come «dare a ogni bambino il miglior inizio di vita possibile» per poter massimizzare le loro capacità e avere il controllo delle loro vite. In sostanza, non rassegnarsi a un futuro senza speranza.
Quello che mi chiedo è quanto i servizi si arrendano davanti al destino delle persone, quanto si rassegnino soprattutto alle diseguaglianze. Ho il ricordo di troppi adolescenti “lasciati” in comunità fino alla maggiore età. Perché i muri e le istituzioni rassicurano e rilassano i servizi, ma distruggono il futuro.
È evidente che da solo nessun servizio può cambiare il corso della vita di persone, di gruppi o di comunità emarginate, ma è altrettanto vero che, se il tema del “destino” di J.D. Vance non è sempre presente, finiremo per essere solo un supporto di accompagnamento, di accompagnamento a un destino che non cambia. E io son convinto che nessuno di noi voglia esserlo, per questo bisogna ricordarci ogni giorno che «non bisogna mai arrendersi alla cura» come dice Rotelli e, come dice Pablo Neruda, non rassegnarti ma «insorgi con me contro l’organizzazione della miseria».