[articolo pubblicato su LifeGate]
La legge Basaglia ha cambiato il modo di pensare al concetto di salute mentale. Un viaggio dentro e fuori gli ex manicomi lombardi di ieri, oggi riaperti per la cittadinanza
«Perché non andiamo più alla mutua?»
«Non esiste più la mutua. C’è il Servizio sanitario nazionale!»
«E che vuol dire?»
«Vuol dire che siamo tutti uguali!»
Questa è una frase comune che sarebbe potuta uscire dalle labbra di un bambino poco più di quarant’anni fa, quando la salute è diventata finalmente un diritto definito per legge.
La salute a livello normativo
C’era la Costituzione del 1948 che con l’articolo 32 dice che la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, ma non c’era una legge che dicesse esattamente come. Quella legge è arrivata nel dicembre del 1978. Lo scambio di battute ipotizzato accoglie e lascia germogliare lentamente questo termine: uguaglianza. La legge n. 833 del 1978 ha istituito il Servizio sanitario nazionale per cui si è tutti uguali quando ci si ammala. Un riconoscimento che ha avuto la forza di trasmettere un senso di rassicurazione: da lì in avanti lo Stato aveva il dovere di occuparsi della salute di ogni individuo.
Da oggetto a soggetto
Quella legge di fine 1978 ha esteso e dato solidarietà universale anche alla norma promulgata qualche mese prima, precisamente il 13 maggio: la legge n. 180. Quell’anno memorabile, grazie alle leggi n. 833 e n. 180, l’Italia è stata capace di dare dignità a tutti, anche ai malati mentali. Alla base del cambio radicale di paradigma con cui si guardava ai matti, ci fu un singolo concetto, all’epoca rivoluzionario, spiegato in una domanda e in una risposta nel documentario della Rai, I giardini di Abele, del 1968. Il giornalista Sergio Zavoli chiede: «È interessato più al malato o alla malattia?». Lo psichiatra Franco Basaglia risponde: «Decisamente al malato».
La legge 180 – nota come legge Basaglia – ha fatto proprio questo, ha dato dignità e diritti a chi soffre di gravi disturbi psichiatrici. Da oggetto incurabile, da rinchiudere in luoghi lontani dalla vista della collettività normale, nei manicomi, a soggetto attore della propria vita con i diritti di cittadinanza, compreso il diritto alla cura, con le quali si possono lenire le ferite della mente.
Il risultato più eclatante della legge è rappresentato dall’abolizione del manicomio, istituzione totale che annullava la persona e si rendeva un non-luogo, un deposito di stoccaggio di esseri difettosi agli occhi della collettività sana. Realtà segregante che arrivavano ad ospitare migliaia di internati, numeri, non persone.
Da manicomi invisibile a spazi collettivi
I manicomi sono l’epicentro del racconto, ieri come luogo di esilio e confino dei matti, dei diversi a qualunque titolo, oggi come luogo dove incontrarsi e scoprire se stessi e gli altri da vicino.
L’entrata è costeggiata da un muro di cinta in mattoni rossi lungo un centinaio di metri. Poi un cancello, oggi sempre aperto. L’ingresso è sormontato da una grande insegna che incornicia in un modo unico l’entrata: Da vicino nessuno è normale, è quello che c’è scritto sul portale dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, il manicomio cittadino.
Varcata la soglia oggi troviamo Olinda: un progetto collettivo che affonda le radici nel 1994, anche se nasce ufficialmente nel 1996, con l’obiettivo di de-istituzionalizzare la psichiatria dei manicomi, in quegli anni ancora in attività nonostante la legge 180. «Il punto di partenza» – spiega Thomas Emmenegger, psichiatra, fondatore e presidente di Olinda – «è stato quello di ricostruire contemporaneamente biografia delle persone che vivevano all’interno del Pini e riconvertire gli spazi chiusi in luoghi aperti. C’erano molte persone, entrate in manicomio anche durante gli anni 1990, e tanto spazio, ma sia le relazioni che lo spazio erano configurati in forma di distanza: reparti, corridoi, camerate, muri».
La realtà della cooperativa Olinda
Olinda oggi collabora con i vari servizi dei dipartimenti di salute mentale, con l’azienda ospedaliera Niguarda Ca’ Granda e con il comune di Milano, dopo che il manicomio milanese ha chiuso alla soglia degli anni Duemila.
«Abbiamo cominciato con delle cose semplici della vita quotidiana: mangiare, bere, trattarsi bene». È da queste piccole cose che è partita la trasformazione, il riutilizzo degli spazi sulla base della rivoluzione copernicana delineata tanti anni prima da Franco Basaglia: i matti non sono più gli oggetti della cura, ma diventano i soggetti della loro vita, gli abitanti dello spazio in cui vivono. «C’era un problema: nel Pini restavamo sempre tra di noi. Le paure di attraversare il portone del manicomio erano distribuite in forma uguale tra chi stava fuori e chi stava dentro. Rischiavamo di riprodurre il ghetto».
Come superare i pregiudizi sulla malattia mentale
Per infrangere i pregiudizi sulla malattia mentale, i cittadini di Milano devono entrare in manicomio, riappropriarsi anche loro di quello spazio. Olinda allora prova a dare appuntamento alla città, un motivo vero per venire a vedere il cambiamento. Ecco il primo progetto pubblico. «Fu un’invasione pacifica di quasi 20mila persone terminata con un Gran ballo, dove le persone che ballavano consideravano finalmente quella festa la loro festa: non eravamo più soli. Da allora il nostro bar Jodok è diventato un bar della città».
Olinda ha provato a confrontarsi anche con un altro tema, quello di creare i servizi necessari per accogliere i cittadini in questo luogo di doppia esclusione: manicomio e periferia. Quella a nord di Milano, del quartiere di Affori. «Chiudere l’ospedale psichiatrico per noi non ha significato solo ricostruire le biografie delle persone internate, ma capire come le persone con problemi di salute mentale potessero diventare protagonisti della riconversione del quartiere», spiega Thomas Emmenegger.
La natura e la cultura salveranno il mondo. Il caso del San Martino di Como
Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si legge che tutti gli uomini nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Ma gli uguali sono diversi, per definizione. La diversità di cultura, di carattere, di gusti, di attitudini e di ingegno sono l’espressione evidente della nostra uguaglianza. Sono il segno che l’uguaglianza vive nella diversità. La malattia mentale è difficile da concepire come diversità nell’uguaglianza. Fa parte di quei vocaboli che spaventano perché, nonostante gli anni e le leggi, costringono a rivedere i più consolidati paradigmi cognitivi ed etici.
«Prendersi cura delle persone significa anche prendersi cura degli spazi, dei nostri spazi. Spazio inteso come una configurazione ricca di risorse che permette di applicare le proprie capacità». Queste sono parole di Mauro Fogliaresi, poeta comasco che – come si definisce lui – è da vent’anni in esilio al San Martino di Como, l’ex ospedale psichiatrico. All’interno di questo luogo di confino, che ha chiuso nel 1999 dimettendo da un giorno con l’altro quasi quattrocento persone, Mauro Fogliaresi ha creato un luogo libero. Di fatto e nel nome: la Libera università del tempo ritrovato. Un’iniziativa, messa a punto sotto l’egida del dipartimento di Salute mentale del Sant’Anna e del centro diurno assegnato al disagio mentale che ha sede in alcuni spazi dell’ex ospedale psichiatrico, ma aperta anche alla cittadinanza, che è giunta al suo quinto anno accademico. Quest’anno il tema di fondo è dedicato all’ambiente e alla salute mentale. «Sarà un anno rivolto a lezioni di felicità, ma anche all’elogio della lentezza e alla pedagogia della lumaca. Siamo partiti a metà ottobre con le lezioni proprio sull’effetto terapeutico degli alberi».
Oltre il giardino
Ancora prima che il progetto della Libera università avesse la funzione di cannocchiale attraverso il quale guardare al proprio futuro, Mauro Fogliaresi, insieme al fotografo Gin Angri, intuisce che la maggiore sofferenza delle persone fuoriuscite dall’ex manicomio sembra essere legata alla difficoltà di dare forma a una narrazione orientata alla propria vita, di definire una storia, di riconoscere una sorta di trama nelle cose che fanno.
Nasce nel 2008 la rivista Oltre il giardino. «È un periodico senza periodicità che esce quando stiamo bene». Così definisce la rivista Fogliaresi. La redazione si trova in fondo al viale centrale dell’ex ospedale psichiatrico, dopo una ripida salita, e si riunisce negli spazi del San Martino ogni mercoledì. «Oltre il giardino è una rivista coraggiosa, e stravagante, si trova in un posto magico dove bellezza e creatività riconciliano con il dolore in leggerezza. I redattori della rivista sommano disagio loro a disagio degli utenti, si liberano da pesantezze e insieme, alleggeriti, s’inventano una rivista ariosa».
Per poter affrontare la malattia mentale bisogna incontrarla fuori dalle istituzioni
Il San Martino di Como, così come il Paolo Pini di Milano, non è solo un’immensa dote di spazi da riutilizzare. Gli ex manicomi sono segni che si fanno simboli, sono documentazione vivente della storia clinica di un’Italia che è stata all’avanguardia nel 1978 a dichiarare che siamo tutti uguali, anche se poi ci sta volendo molto tempo ad eliminare pregiudizi e a far concepire la malattia mentale come diversità nell’uguaglianza. Il matto resta l’altro per eccellenza.
E se quello che si sta facendo negli ex manicomi è l’epicentro della rivoluzione culturale, Franco Basaglia riteneva che «per poter veramente affrontare la malattia mentale, dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, e non solo quelle psichiatriche, ma fuori da ogni istituzione la cui funzione è quella di etichettare e fissare ruoli congelati».
Clarabella e la voglia di ridare dignità alle persone
Abilitare e fare riabilitazione di persone con problemi di salute mentale significa allora dar loro credito e investire nelle loro capacità: questa è stata la sfida che dal 2002 affronta la cooperativa sociale bresciana Clarabella agricola onlus. «La nostra filosofia storicamente è questa: dare dignità alla persona. E lo facciamo attraverso il lavoro che conferisce socialità e riconoscimento economico per le persone con disagi psichici». In questo modo Ramona Tocchella, responsabile del B&B e dell’inserimento lavorativo, presenta lo scopo e la missione della cooperativa.
La cooperativa fa parte del consorzio cascina Clarabella che mette in rete diverse cooperative che danno spazio e lavoro a chi soffre di disagi mentali. È un ente privato che collabora con l’azienda sociosanitaria territoriale, l’Asst Franciacorta, per i percorsi di cura. Clarabella lavora anche in sinergia con le istituzioni locali sia per superare gli stereotipi verso chi soffre di malattie mentali, considerate non-persone destinate al confino sociale e lavorativo, sia per riqualificare luoghi non più in uso restituendo loro produttività. «Un esempio è quello che abbiamo realizzato sulle pendici del monte Orfano. Abbiamo ridato vita ad un vigneto ma anche a una casa abbandonata dello storico Cesare Cantù. Tutto questo è stato possibile grazie alla collaborazione con le istituzioni locali». Ora, all’interno di questo edificio, la cooperativa ha realizzato un progetto che da un lato prevede la residenzialità leggera per le persone seguite da Clarabella e anche dal Dipartimento di salute mentale, mentre dall’altro, ci abitano persone in difficoltà individuate dalle realtà dei servizi locali.
«La cooperativa Clarabella» – spiega Ramona Tocchella – «gestisce un B&B che pratica il turismo sostenibile il quale è connesso con un agri-ristorante. Inoltre, abbiamo una fattoria didattica per scuole e gruppi, una cantina di vini con produzione di 70mila bottiglie all’anno Franciacorta biologici docg dai nostri undici ettari di vigneti. Produciamo olio d’oliva attraverso la gestione dei nostri oliveti e del frantoio Sapor d’olio a Rodengo Saiano, e miele grazie a circa venti arnie. Infine, abbiamo creato un orto sociale con verdure e piante aromatiche». Recentemente Clarabella ha anche aperto una bottega dov’è possibile gustare questi prodotti: i vini tra cui – non poteva che chiamarsi così – il 180, ma anche i prodotti di tutte le cooperative che fanno parte del consorzio, dal pesce alla pasta, dalle salse alle confetture.
«I nostri lavoratori sono ventidue, di cui undici con fragilità psichiche. Inoltre, ci sono i vari tirocini che offriamo, per avvicinare al lavoro, uomini e donne, ragazze e ragazzi con problemi mentali. In Clarabella non ci sono ruoli, ognuno è fondamentale. Noi però non vogliamo che le persone vengano al nostro B&B o acquistino i nostri prodotti solo perché vedono del buono nel progetto. Vogliamo che lo facciano perché sono buoni i vini e il cibo e intensa l’esperienza di turismo sostenibile che offriamo. E questo lo otteniamo essendo solidali, nel senso profondo del termine tra di noi: ciascuno si prende un pezzo del lavoro e del disagio dell’altro e ognuno ha un ruolo fluido. Tra malato e curante si è colleghi. Persone con fragilità collaborano gomito a gomito con professionisti dei settori della ristorazione, del turismo dell’enogastronomia».
Questa è la forza di Clarabella. Questa è la cura.
Da vicino nessuno è normale
Si può allora sostenere la tesi che il bar Jodok e i progetti di Olinda all’interno dell’ex manicomio Paolo Pini di Milano, la rivista Oltre il giardino e la Libera università del tempo ritrovato del San Martino di Como, ma anche il lavoro tra i vigneti e nel campo del turismo sostenibile di Clarabella, migliorano le condizioni di salute delle persone con malattie mentali. E lo fanno perché offrono loro l’opportunità di aspirare. Aspirare ad essere persone in grado di dare forma a una narrazione positiva rispetto alla propria esistenza. Donne e uomini in grado di definire la loro storia, di riconoscere una trama nelle cose che fanno, di superare i confini, di cambiare il quotidiano. Di essere diversamente uguali.