Mat (Modena 17/23 ottobre) è forse il più importante e costante (quinta edizione) festival dedicato alla salute mentale.
Ho partecipato all’anterprima. Un seminario dedicato alla “crisi dei DSM nella Sanità delle Regioni”.
Come si sa la sigla DSM identifica quell’insieme di operatori e servizi cui viene affidata la prevenzione, cura e riabilitazione della componente psichica della salute.
Una legge dello Stato, la legge 180, ne indicò la necessità nel momento in cui affermò che, chiusi i manicomi, la cura andava affidata a servizi extraospedalieri ad organizzazione dipartimentale.
Il distretto socio sanitario ed il dipartimento divennero modelli organizzativi della sanità che andava a dar vita al Servizio Sanitario Nazionale.
Poi la regionalizzazione della sanità, assieme a molte resistenze professionali, portò ad uno sviluppo difforme dei DSM, per cui si disse che la riforma era stata applicata sul territorio nazionale a macchia di leopardo.
Ora siamo giunti al punto che nemmeno quella metafora sembra più descrivere la diversità che caratterizza i DSM. Non bastano più il leopardo e le sue macchie ma serve un intero bestiario. Pochi felini, qualche leone, una tigre, qualche gatto selvatico, molti gatti domestici e per il resto i campioni del mimetismo animale dal camaleonte, alla rana, alla cavalletta. Quasi non li si vede.
Oggi, infatti, la sigla DSM rappresenta nelle diverse regioni organizzazioni del tutto differenti. Bacini d’utenza che possono andare da qualche decina di migliaia d persone, a più di un milione. DSM monospecialistici (psichiatria degli adulti) o plurisettoriali (dagli adulti ai bambini ed adolescenti, dai disturbi psichici alle dipendenze patologiche sino agli interventi psicologici). Con o senza operatori sociali. Alcuni con la resposabilità di gestire intere reti di servizi e l’insieme dei percorsi di cura, altri, all’opposto, pagati per le sole prestazioni direttamente erogate.
La vicenda degli OPG, con Regioni che li chiudono davvero, altre che li chiudono per finta, altre ancora che ci provano inventandosi soluzioni improbabili, e infine quelle che non ci provano nemmeno, è la prova di quanto l’attuale assetto sia inadeguato a farsi carico di sfide per la salute che hanno dimensione nazionale.
Parlare di crisi dei DSM è, dunque, corretto e necessario, anche se chi più ne è consapevole sembra essere proprio chi continua a dare le migliori risposte possibili ai bisogni delle persone. E vive, dunque, la contraddizione tra la qualità di quanto fa e la dichiarazione di crisi che viene proponendo.
Come si può allora far tornare la salute mentale ad essere una questione di interesse e priorità nazionale? Certamente è necessario rendere consapevoli i decisori politici di quanto sappiamo circa l’impatto che la scarsità di salute mentale ha con la mortalità e la disabilità delle persone.
Renderli consapevoli, del fatto che chi soffre di una malattia mentale ha una speranza di vita significativamente inferiore e che una buona parte del carico di disabilità ha un collegamento diretto o mediato con la sofferenza mentale, vuol dire mettere le premesse perchè si faccia.
Partendo da un dato di fatto e cioè che si possono fare cose che migliorino la salute tanto delle persone che dei conti economici pubblici.
Uno studio inglese ha dimostrato che una sterlina investita in salute mentale ne farà risparmiare 30.
Ecco la chiave considerare la salute mentale come un investimento piuttosto che come un costo.
La crisi dei DSM impatta con la crisi delle sanità regionali. Della cui colpa va fatto carico sia alle Regioni stesse che alle scelte del Governo di definanziare il servizio sanitario pubblico. Non sembrerebbe un buon momento per promuovere l’idea della salute mentale come investimento. A meno che non si capisca che si è toccato il fondo e non si ha altra possibilità che di invertire la direzione.
Cambiare direzione vuol dire, al posto dei tagli lineari, esplorare le opportunità che offre un approccio basato sul disinvestimento e la riallocazione di risorse. Per esempio quanta della spesa in residenze psichiatriche può essere riconvertita per finanziare progetti personalizzati di inclusione sociale?
Cambiare direzione significa affidare ad una cabina di regia (i DSM?) l’intero portafoglio della salute mentale, che oggi si disperde per canali non comunicanti. Si pensi ai contratti separati di molte residenze. Cambiare significa fare richiesta di nuovi investimenti di risorse, per esempio per contrastare quella particolare forma di spreco che è data dal sottoutilizzo di prestazioni efficaci. Perchè, non dimentichiamocelo mai, le persone che oggi si rivolgono ai servizi sono solo una parte di quelle che ne avrebbero bisogno.
Ma farlo solo dopo che si abbia davvero messo assieme e riallocato quanto già oggi si spende.
Gli esperti intervenuti all’anterprima di Mat sono rappresentativi di tutte le realtà regionali. Alcuni di loro animano movimenti che uniscono persone con il problema, familiari, operatori e cittadini. Essi affiancano all’attività diretta quella rivolta a rendere consapevoli i decisori politici. Promuovono dal basso e nel contempo ricercano una dimensione nazionale. Sono più piccoli e più grandi delle Regioni. C’è attesa. Sapranno produrre una proposta all’altezza della crisi dei DSM? Se son rose fioriranno.