Sta per uscire nelle librerie e nelle edicole una piccola ma intensa pubblicazione sulle periferie triestine:
Giada Genzo e Piero Budinich
Arcobaleni di periferia.Le buone pratiche e quel che resta ancora da fare
Postfazione di Franco Rotelli
(formato 136 x 210, 36 pp.,ill., ISBN: 978-88-95324-29-6. Prezzo al pubblico euro 3,80)
Oltre che dei problemi generali della dimensione urbana e dell’edilizia residenziale, in questo terzo titolo della collana Beit MINImi si parla di sette quartieri di Trieste che offrirebbero abbondante materiale per altrettanti case studies sui risultati ottenuti da diverse forme di intervento dell’edilizia popolare e sulle loro ricadute per la vita degli abitanti. I quartieri esaminati sono Rozzol Melara, Borgo San Sergio (con le torri di via Grego), Altura, Poggi e piani S. Anna, Valmaura e Ponziana. In questo panorama (un panorama che per ora non si vede in nessuna cartolina di Trieste ma che qui è illustrato da 53 foto inedite di Giada Genzo, che ci presentano scorci di quartieri luminosi e vividi, ma sempre straniati, fra abbandono e nostalgia) si profila la particolare fisionomia di Trieste (una delle citta italiane in cui è più importante la presenza dell’edilizia popolare, fin dai primi anni del ’900) ed emerge l’esperienza del progetto Habitat-Microaree, frutto di una convenzione tra l’Ater, il Comune di Trieste e l’Azienda per i servizi sanitari. Un progetto che permette di intervenire nelle specifiche situazioni di bisogno con interventi mirati e dosati; interventi che in definitiva mostrano come il welfare nel territorio possa risultare – in determinate situazioni – ben più appropriato e sostenibile di alcune istituzioni tradizionali (come ospedali e case di riposo) e consentire maggiori risparmi e un utilizzo più efficiente delle risorse. Un’esperienza che rientra a buon diritto nel novero delle “buone pratiche”, concetto entrato in uso nel campo della medicina, ma ora impiegato anche nella gestione sostenibile del territorio e in molti altri ambiti, compreso quello sociale.
Città
postfazione di Franco Rotelli
“Il quotidiano della democrazia o, se si preferisce, la democrazia del quotidiano, vorrebbe che il governo e le buone pratiche nella vita della città fossero pieni di atti quotidiani e decisioni amministrative che determinino la qualità urbana. Si vorrebbe che ogni giorno Ater, Comune, Provincia, Ass, AcegAs eccetera ci dicessero cosa hanno fatto quel giorno lì per Ponziana, Vaticano, Melara, Gretta, Valmaura, Borgo eccetera: quei rioni della città che hanno bisogno di manutenzione civile continua, per dar corpo alla “coesione sociale”, per arricchirne gli anticorpi propri contro l’immanen-te deriva, l’eccesso di fragilità, l’accumulo di urbani guai. La città alcolica che si estende da piazza Volontari Giuliani fino a piazza Venezia come un lungo serpente, un torrente irrorato di tocai e chardonnay, puntigliosamente scelti da dubitabili competenti d’ogni età, sesso, professione o indefinibile identità, vive la sua vetrina più o meno qualificata o scalcinata nei suoi pavimenti sgretolati quand’anche nuovi, mentre città spente scendono sempre più nell’ombra, nell’anomia, nell’invisibile. Qualificazione e riqualificazione urbana richiederebbero politiche innovative e soprat-tutto strumenti amministrativi radicalmente nuovi di cui nessuno fa richiesta perchè la nazionale sfiducia da corruzione richiama sempre più nuove regole più ossessive e devastanti, invece del loro contrario fatto di condivisioni, consensi informati, collettive decisioni, omaggio al merito di chi fa bene, disprezzo per ogni amministratore inerziale. La città colta (peraltro sempre più esigua) vive sempre altrove, si occupa sempre d’altro, frequenta solo i simili. La ricchezza delle istituzioni pubbliche che solo ora, nella Crisi, scopriamo quanto in-gente e quanto a rischio, avrebbe ben potuto creare un tessuto connettivo di grande pregio, di enorme aiuto e di qualificazione della vita urbana in ogni microcontesto. Tremila dipendenti comunali diretti, diecimila addetti a servizi alle persone sono solo prime evidenze delle risorse che ci sono, che bisognava dislocare per moltiplicare pre-senze e protagonismi, civile società e qualità delle convivenze, del coabitare, del vivere da cittadini. Viviamo invece di sovraintendenze, di amministratori che spesso tutti giudicano inca-paci (ma che se ne stanno li fino a fine mandato, per lo meno), di un esercito di guardia-ni di ogni corpo militare e assimilato, di ispettori e revisori. La città dequalificata fuori scena,trova sempre qualche amministratore che lascia dietro di sè nuovi ghetti, nuovi muri, nuovo degrado organizzato, nuovi recinti dell’esclusione relativa: sacche. Dare voce, demolire muri, rimuovere isolamenti,decentrare servizi, recuperare, riqua-lificare, restaurare, riabilitare. Buttar via le regole che ci impediscono di fare ascensori ovunque servano, sostenere i piccoli commerci, alimentare una società cooperante dove la cooperazione tra individui non sia tassata ma sostenuta e l’economia sociale premia-ta, la cooperazione tra gli enti applaudita e il loro separato funzionamento disprezzato. Ma senza comunicazione pubblica nulla può vivere di tutto ciò. Per questo i quartieri qui in scena devono trovare spazio per restarci sulla scena, per esistere nel darsi voce. Una strana Azienda sanitaria, per alcuni anni (e per alcuni decenni per qualche “disciplina medica”), ha provato a essere coerente con quanto detto qui. Non sappiamo se il cammino riprenderà o si perderà. Un segno forte ha comunque marcato questa città. Ci sono donne e uomini che vogliono continuare. Se ne può fare a meno?“