Editoriale di Stefano D’Offizi
Ho la netta sensazione che in questi ultimi anni si stia giocando al gioco del terrore, solo che sta volta non ci sono di mezzo persone che si fanno esplodere o che aggrediscono in nome di una fede. Oggi assistiamo alla sistematica generazione di sentimenti di paura con i suoi ben noti effetti sulle masse. In particolare mi riferisco al fatto che quando il terrore si diffonde nella popolazione, questa diventa più docile, cieca per paura, passiva e capace di sottostare a ogni forma di rimedio in nome di una millantata “sicurezza” (penso alla salute, ai flussi migratori, al mondo delle sostanze, alle infrastrutture, agli eventi climatici). Questa atmosfera genera allarme sociale, emergenze, pressioni interventiste, spinte espulsive all’interno delle comunità che, ormai intolleranti al disordine, richiedono soluzioni veloci (efficaci, scientifiche) e un proliferare di luoghi specifici, solitamente adibiti alla reclusione, alla custodia, alla sorveglianza e alla cura di tutto ciò che mette in crisi la sicurezza sociale (così si giustificano i Cpr per i clandestini, gli istituti per gli anziani, le comunità per i tossicodipendenti, i “matti” o i disabili, ecc.). Come a dire che la sicurezza della comunità può essere ottenuta solo attraverso gli spazi chiusi, siano essi istituzionali, utili per il controllo del soggetto allarmante, o siano essi spazi privati, necessari a garantire la “libertà” e la quiete del cittadino.
La concomitanza di più eventi, come la crisi economica, la diffusione del virus, il cambiamento climatico, il crescere di nuove disuguaglianze e nuove povertà, che stiamo vivendo, con le rispettive limitazioni imposte, nel circoscrivere gli spazi di vita e molte delle nostre libertà quotidiane, sta facendo emergere molti aspetti critici e criticabili, mettendo così in scacco il sistema politico, sociale ed economico mondiale.
Anche dal punto di vista culturale il Covid ha avuto un impatto non banale, basti pensare alla paura della morte, della malattia, all’idea di essere fonte di rischio per i propri cari e all’angoscia che ne consegue, sono queste delle consapevolezze che solitamente teniamo lontane dalle nostre coscienze, e generalmente lasciamo che i nostri pensieri siano guidati da priorità edonistiche, quindi ben diverse dai bisogni di sopravvivenza, di salute, di protezione dell’altro.
Pensavamo che le persone non accettassero quanto imposto dai decreti e invece siamo qui a sorprenderci del contrario, perché quando si ha paura per la propria vita si affrontano le cose in modo diverso, si vive in modo diverso e si comunica in modo diverso.
Credo che questa sia una partita iniziata molto tempo fa, che piano piano ci ha portato lontano dalle strade, lontano dalle piazze, lontano dagli stadi, lontano dalle folle e dai luoghi pubblici di incontro in quanto considerati spazi di possibile pericolo o di violenza (come se nelle case non ce ne fosse). Già quando in TV sono apparsi i primi abbonamenti, si intuiva la comodità dello stare in casa (per chi ce l’ha!), poi con l’irruzione dei nuovi dispositivi tecnologici e dei social è apparso ancora più evidente il piacere di stare nelle mura domestiche, calde, sicure, e che nulla hanno da invidiare agli spazi pubblici; così si è progressivamente ricostruita la quotidianità delle persone anche grazie al parallelo dilagare di una cultura individualista.
In questa deriva, lo spazio pubblico sempre più ridotto e sempre più dimenticato non può minimamente reggere il confronto con la libertà domestica. Fino ad arrivare ad oggi, dove se tutti dopo le 18 siamo chiusi nelle nostre abitazioni, gli spazi pubblici allora rimangono abitati solo da persone “marginali” (in quanto prive di casa). È in questo sistema fatto di bolle esistenziali separate che ritrovo la dicotomia tra spazio pubblico e casa propria come il risultato di processi culturali centrati sull’individualismo e su sentimenti egoistici, selettivi.
In questa evoluzione economica, sociale e culturale (ma anche politica, esistenziale, ambientale, ecc.) è andata strutturandosi l’idea che si è sicuri solo in casa propria, mentre gli spazi pubblici, grazie anche ai media, vengono descritti come fonte di contatti pericolosi, considerati luoghi di spaccio, di clandestinità, di abbandono e fatiscenza. Così, abbiamo assistito alla lenta e graduale trasformazione delle comunità, dei territori, attraverso il progressivo disinvestimento di risorse e di attenzioni per gli spazi pubblici, non più pensati come un bene comune bensì pensati con fini commerciali privati. Ormai ben lontani dall’idea di borgo, di rione, di quartiere, anche l’immagine dell’Altro cambia: da vicino di casa, da risorsa, da fonte di sicurezza e di sostegno quotidiano, è divenuto un intruso, uno sconosciuto, un disturbo o meglio una possibile minaccia.
Questo processo nel tempo ha reso sempre più chiari i diversi livelli di scollamento nella società attuale, per esempio tra chi detiene le risorse economiche, chi organizza la produzione e chi produce; in particolare a quest’ultimo livello vedo un ulteriore scollamento tra chi è produttivo e chi non lo è (perché malato, perché disagiato o perché privo di opportunità), con il risultato complessivo di una frammentazione trasversale.
Forse, solo grazie a un maledetto virus che ci rendiamo ancora conto della necessità dell’altro, del valore che ha il territorio quando le cose si fanno tragiche e di quanto importante sia curare una comunità, coltivarla, sostenerla, ascoltarla. Questo va esplicitato perché le persone avranno bisogno di certezze alla fine di questa storia, perché alcuni più di prima saranno smarriti e in difficoltà e il rischio è che si cerchi per semplicità di tornare alla vita di prima, a tutti i costi. A mio avviso la vita di prima è il problema, la normalità a cui eravamo abituati è stata la causa di tutte queste criticità e di questi paradossi, e soprattutto è stata la causa della condizione sanitaria in cui siamo relegati.
In tutta la complessità dell’oggi, credo si stiano aprendo dei varchi per un possibile e profondo cambiamento. Alcune cose che fino a ieri erano quotidiane ora rischiano di scomparire, le giornate di domani potrebbero non essere più come prima, nel bene e nel male. In questo passaggio sento forte una responsabilità, che mi spinge a pensare che forse sta anche a noi fare in modo che questo sia un cambiamento guidato da principi diversi dal business, dalla produttività o dal successo e che forse ci sia lo spazio giusto per riportare l’attenzione verso lo sviluppo lungimirante e sostenibile, verso il rispetto dell’ambiente e dell’altro, verso la collettivizzazione e l’ottimizzazione delle risorse e altro ancora.
Quello che immagino è che alla fine di questa storia, grazie a eventi come il convegno sulla Salute 21, la Conferenza nazionale della salute mentale, o i numerosi altri momenti di confronto che si stanno susseguendo in questi mesi, dovremmo essere in grado di produrre la giusta pressione sociale capace di far nascere nelle istituzioni delle risposte più aderenti ai bisogni emersi in questa sorta di “ground zero”, cioè capaci di intercettare quei bisogni che solitamente vengono sovrastati dal frastuono di fondo. La stessa pressione, però, deve anche andare ad agire nella comunità, con l’ottica di ricostruire il tessuto di connessione tra le persone, riattivare così dei processi di riavvicinamento della cittadinanza rivolti al mutualismo e alla partecipazione attiva.
Nella mia testa una società può considerarsi civile solo se dimostra di saper accettare e integrare la diversità, mentre ahimè la società in cui viviamo è pensata e strutturata per persone produttive (meglio se “occidentali”) e normodotate in termini fisici, psichici, economici, anagrafici, sociali; una società pensata per pochi ma vissuta da moltissimi, che con grande difficoltà devono tentare in ogni modo di starci dentro. Pena? L’esclusione o l’istituzionalizzazione.
Non è raro che i concetti di diversità e di improduttività coincidano e in questi casi l’unico modo di stare in società è attraverso un’etichetta, come a giustificare il difetto, come a garantire che qualcuno se ne sta occupando, ma bisogna fare attenzione perché ogni cittadino e cittadina può ritrovarsi improvvisamente in una condizione di fragilità, di necessità.
A mio avviso, stiamo vivendo uno stato di crisi da molti anni, ma solo ora ci rendiamo conto della realtà delle cose e del fatto che i nostri territori di vita sono traumatici e traumatizzanti. Per fare alcuni esempi: le violenze domestiche e di genere, la disomogenea accessibilità ai servizi, le diseguaglianze, le infrastrutture obsolete, l’inquinamento e le conseguenti malattie, gli eventi atmosferici e catastrofici, la sanità al collasso, l’economia insostenibile, la crisi del mondo del lavoro e dei contratti professionali, tutte cose che esistono da che io ne ho memoria.
La crisi delle istituzioni e della politica è iniziata ben prima del coronavirus, però solo ora ce ne rendiamo conto, come se tutti i nodi fossero arrivati al pettine contemporaneamente! Come se le distorsioni e le falsità della politica non reggessero più dinanzi una realtà così drammatica.
Da questi pensieri ancora poco strutturati, sto tentando di esprimere un punto di vista ottimistico relativo a questa fase storica, nella quale intravedo un momento di grandi opportunità. Una delle parole chiave del collettivo FabriQa23, di cui faccio parte, è “trasformazione” e ora come mai abbiamo davanti a noi la prospettiva di un radicale cambiamento. Quello che avremmo potuto ottenere in anni, forse abbiamo la possibilità di costruirlo ben prima, dato che le persone in questo momento hanno una diversa recettività, oltre ad avere le coscienze scosse e minate da domande che fino a ieri erano prerogativa di pochi.
È in questa possibile vicinanza, in questa sorta di inaspettata sintonia, che intravedo un margine per toccare la coscienza delle persone e trovare così nuovi interlocutori disposti ad ascoltare, nuove alleanze, per questo vale la pena tentare di valorizzare quei processi trasformativi di cui tanto abbiamo parlato, quelli centrati sull’inclusione, sulla riduzione delle diseguaglianze, sul rispetto ambientale. Mi sento di affermare che se dobbiamo immaginare una società diversa da quella in cui fino ad oggi abbiamo vissuto, forse vale la pena metterci un po’ di utopia che ci guidi verso una prospettiva diversa da quella degli ultimi decenni.
L’era del coronavirus potrebbe essere uno spartiacque tra un prima e un dopo, basti pensare agli spostamenti internazionali, ai modelli produttivi o sanitari, come possiamo immaginare che tutto rimarrà invariato?
Proprio in questa asimmetria tra la vita di ieri, quella di oggi e quella di domani che vedo numerose possibilità e la necessità di coagulare le energie residue, contro ogni frammentazione.
Penso a quante persone saranno disoccupate, quante saranno traumatizzate dall’accaduto, quante saranno di nuovo sole e quante ancora emarginate, ma quello che credo è che alcune di loro saranno più disposte di prima a immaginare una società diversa, alternativa a quella stessa società che li ha messi a rischio.
Allora mi viene da dire che in fin dei conti questo virus non ha portato solo il male, ma anche uno squarcio di verità, di autenticità, ha messo a nudo tutto quello che la politica e la società hanno nascosto sotto al tappeto e ora mi auguro che ci si prenda il tempo per riordinare tutto e resistere all’idea di trovare un tappeto più grande.
Stefano D’Offizi, psichiatra, Dsm Trieste e Gorizia