Un film noioso ma probabilmente necessario. A mostrare la noia di una cultura, diventata ormai una natura, una seconda pelle, che si sente forte nell’indebolimento della capacità di relazionarsi con l’altro, gli altri. Se dire amare fa specie. Fino a ibernarsi in questa idea, curiosa davvero e non meno pericolosa, che si è fatta di sé – la sola forse ancora degna di un qualche straccio di sentimento o di pallidissima empatia. Come succede allo scrittore James Miller, il protagonista maschile di “Copia conforme”, l’ultimo film dell’iraniano Abbas Kiarostami, interpretato non troppo felicemente dal celebre baritono inglese William Shimell al suo debutto cinematografico.
James è un uomo interessante, a tratti fascinoso, ma freddo. Di una freddezza rappresa, algida, che niente più può mordere o sciogliere. Neppure una donna come Elle, impersonata da una Juliette Binoche cangiante e raffinatissima (nonché Palma d’oro per la migliore attrice a Cannes 2010), che avrebbe tutte le carte in regola per riuscirci. Né la soccorre lo scenario di una Toscana ripresa al meglio delle sue doti affabulatorie, dove la vicenda ha luogo, o meglio non luogo.
Molto banalmente, come sempre banale è il disamore – nonostante tutte le spiegazioni sofisticate che se ne possano dare -, lui non vuole. Né dice perché non vuole, e del resto non serve: basta guardarlo negli occhi, e nemmeno troppo intensamente, per capire che sono spenti. Che «lui è fatto così», la copia conforme del proprio Ego, se mai fosse esistito l’originale.
Lei invece vorrebbe. Disposta a tutto, nel disperato tentativo di convincerlo. Ma convertire l’inconvertibile è da disperati. Non c’è peggior sordo di colui che non vuole sentire, né peggior cieco di chi non vuole vedere. Emblematica è la scena del ristorante. Scena peraltro familiare a un’infinità di donne. E, a ogni buon conto, ad altrettanti uomini, in un mondo grazie al cielo tuttora sufficientemente popolato da quello strano fenomeno che dicesi “coppia”, con due p, più o meno difforme. Lei dunque va alla toilette per farsi bella. Rossetto, orecchini (addirittura due paia, per sicurezza e come si conviene) e solito armamentario femminile. Ritorna, si siede a tavola, e aspetta la reazione. Se lui si accorgerà. Difficile che non si accorga, appesi ai lobi delle orecchie ha due lampadari, e il rossetto non è esattamente in tinta pastello. Lui non soltanto non la guarda e se la guarda non la vede, ma prende a litigare con il vino che sa di tappo, con il cameriere che è un figlio di… e via via con il mondo universo, piantando una scenata talmente finta da sembrare vera. Una copia conforme, di nuovo.
Non per questo Elle si arrenderà. È una donna, e sa bene che quando una donna vuole un uomo se lo prende. Impara le regole del gioco e gioca; improvvisa, calcola, bara, dispensa, mendica, colpisce, si ritira, si nega, si dà. Inventa l’increato e lo modella a sua immagine e somiglianza. Il problema è che James non è interessato a giocare. Forse non lo è stato mai. Poco cambia, la sua noia è dispotica, e finirà per contaminare ogni cosa. Persino il pittoresco scorcio di cielo con tetti che vedremo nell’ultima inquadratura apparirà come uno sbadiglio, persino le melodiose campane che sentiremo suonare in dissolvenza suoneranno alla noia. E chi canterà vittoria, ancora una volta sarà la nostra occidentale «inferiorità sociologica», come ebbe a definirla J. Rodolfo Wilcock, evocando Jacques Bacot nel rammentarci che «Neanche le più civili persone della nostra società potranno mai raggiungere la delicatezza di comportamento di un mulattiere tibetano».
A meno che la noia e i film noiosi non esistano proprio per farci capire che può benissimo non finire così. Perlomeno in quel cinema d’autore dove gli sceneggiatori, i registi e gli attori siamo noi.
Korallina
Trieste, 25 maggio 2010