Il letto in ospedale e il letto fuori dall’ospedale rappresentano l’unica risposta del sistema sanitario
[articolo uscito su ediesseonline.it]
La Pandemia del Covid ha mostrato a tutti i cittadini come i letti nei reparti di terapia intensiva e rianimazione siano stati e continueranno ad essere un presidio fondamentale per la cura di quei pazienti gravi bisognosi di interventi intensi e intensivi.
La ecatombe degli anziani nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) ha mostrato come persone in età avanzata e spesso non autosufficienti “abitano” fondamentalmente in un letto.
La questione che dobbiamo porci e con urgenza è quella del letto come unica e povera risposta del sistema sanitario, come se, prima e dopo il letto, non ci fossero fondamentali e spesso sufficienti risposte alla domanda di salute dei cittadini. Dobbiamo decostruire la nozione di letto come falso sinonimo di cura.
Durante la pandemia, gli ospedali si sono rapidamente saturati infatti non solo per l’incremento massiccio di casi gravissimi bisognosi di presidi di rianimazione, dunque di letti attrezzati come indispensabili presidi terapeutici, ma anche perché molti casi che non erano gravi non si sono saputi gestire a casa o in strutture meno medicalizzate di un ospedale. In altre parole, mancano la cultura, le organizzazioni e le infrastrutture per operare anche al di fuori dall’ospedale, anche al di là della dimensione ospedaliera del letto. Molti casi sono stati lasciati ad aggravarsi a casa senza la capacità di offrire alcun intervento di mitigazione che impedisse l’aggravamento; moltissimi anziani ospitati in residenze specializzate sono morti per l’incapacità di intervenire in strutture che non fossero ospedali ma che sono caratterizzate da una forte componente assistenziale sociale non medica.
Dunque il letto in ospedale è stata la sola risposta accanto alla indispensabile adozione di misure di distanziamento sociale. In sostanza, fra l’ospedalizzazione in urgenza e il senso civico individuale dei singoli che rispettano il confinamento non c’è stato nulla nel mezzo.
Ma quello su cui qui si vuole riflettere è il ruolo illusorio, concreto e simbolico, del letto come sinonimo di cura. Non c’è dubbio infatti che anche prima della pandemia il letto rappresentava e continua a rappresentare la risposta prevalente alle patologie di lunga durata, soprattutto quelle psichiatriche: il termine “residenzialità” è divenuto dominante in quasi tutti i sistemi sanitari regionali ove abbondano forme diverse di residenze, più o meno protette, più o meno manicomiali, pubbliche o private o private convenzionate. Ma la residenzialità non allude tanto a un luogo di vita integrata, sociale e socializzata, a un luogo che sia parte reale della comunità circostante, bensì allude alla presenza di letti utilizzati secondo la logica dell’ospedale. Letti per vecchi, letti per matti, letti per tossicodipendenti, letti per disabili fisici e psichici.
Il letto sembra essere l’unica risposta immaginata e resa disponibile anche a chi invece non ha bisogno di un letto se non per dormire e, in conseguenza, i cosiddetti “cronici” devono non solo dormire in un letto ma abitarvi come se il letto fosse la unica dimensione della cura e della riabilitazione.
Se riflettiamo attentamente, tutte le patologie croniche, indipendentemente dalle loro cause (infezioni trasmissibili o non), condividono alcune caratteristiche fondamentali: sono condizioni persistenti e richiedono trattamenti, assistenza e interventi protratti nel tempo e di durata indefinita. Dunque, è la dimensione della temporalità che definisce e accomuna le patologie croniche poiché sofferenza e disabilità sono di lunga durata e conseguentemente anche cura e assistenza devono perdurare.
Queste caratteristiche accomunano alcune malattie infettive che, oltre ad essere trasmissibili, sono anche persistenti come è il caso dell’AIDS e della tubercolosi alle malattie non-trasmissibili (dette NCDs) come i tumori, le patologie cardiovascolari, il diabete e la maggior parte dei disturbi mentali e del comportamento. A queste due categorie (trasmissibili persistenti e non trasmissibili) vanno aggiunte tutte le condizioni di disabilità dovuta a danni strutturali (cecità, sordità, amputazioni).
Le NCDs, le malattie mentali e più in generale tutte le malattie croniche (dunque anche quelle infettive come l’AIDS o la tubercolosi) sfidano il modello dominante di assistenza sanitaria e richiedono modelli altamente innovativi di assistenza capaci di coniugare interventi sanitari e interventi di sostegno psicosociale.
Come abbiamo già osservato precedentemente, le malattie croniche hanno un andamento temporale protratto (talvolta di durata indefinita) e la loro persistenza richiede trattamenti medici e psicologici, interventi di sostegno psicosociale e assistenza che si protraggono nel tempo con intensità variabile. La persistenza della malattia, della sofferenza e della disabilità infatti possono variare nel tempo di gravità e intensità richiedendo una grande flessibilità della offerta di interventi e di assistenza.
La tradizionale risposta rappresentata dall’intervento biomedico effettuato in ambiente ospedaliero risulta inadeguata poiché la natura intrinseca e la storia naturale delle malattie croniche consentono il trattamento e l’assistenza alle malattie croniche non solo al di fuori dell’ospedale ma anche al di fuori di strutture ove la logica del letto ospedaliero è prevalente.
È ben noto come la durata dei ricoveri ospedalieri per la maggior parte delle patologie croniche si può limitare alla gestione degli episodi acuti che richiedono medicalizzazione intensa o interventi chirurgici o comunque l’impiego di tecnologie altamente complesse. Le patologie cardiovascolari gravi, i tumori, gli episodi di scompenso diabetico grave, le acutizzazioni di patologie infettive quali l’AIDS e la tubercolosi richiedono oramai un numero sempre più limitato di giorni di ospedalizzazione rispetto alla durata complessiva di tali patologie. Sono giorni quelli trascorsi in ospedale e vanno comparati agli anni trascorsi fuori dall’ospedale anche se le patologie croniche persistono.
In altre parole, il modello biomedico e ospedalocentrico risulta sempre più inadeguato per rispondere alla complessità dei bisogni medici e psicosociali delle persone che soffrono di una malattia cronica. Le malattie mentali non fanno eccezione anche se la consapevolezza che il modello biomedico e l’ospedale non fossero la risposta adeguata è di molto più antica data: già a partire dagli anni sessanta Franco Basaglia mise in discussione sia il modello biomedico sia il modello ospedaliero.
L’adozione di un modello innovativo per rispondere alla sfida delle malattie croniche, un modello che possiamo definire di intervento psico-socio-sanitario di lunga durata (ILD), bene si adatta all’insieme delle malattie croniche e in special modo alle malattie mentali e del comportamento. Tale intervento, o meglio tale insieme di interventi, si compie essenzialmente al di fuori dell’ospedale e non ha certo bisogno del letto come asse portante perché gli interventi avvengono nei centri di salute territoriali o al domicilio del paziente. Si tratta di interventi che potremmo definire comunitari sia perché avvengono nella territorio ove vive il paziente ossia nella sua comunità sia perché frequentemente essi sono il frutto di sinergie fra differenti risorse di cui dispone la comunità: risorse formali e istituzionali così come risorse informali pubbliche e private. «Si tratta di una vera rivoluzione copernicana per il tradizionale sistema sanitario tradizionale che pone al centro l’ospedale e il letto; al centro del modello ILD sta invece la comunità nella duplice accezione di luogo in cui i cittadini ed il singolo utente vivono e di insieme di cittadini e risorse di cui quella comunità dispone. In questa prospettiva l’ospedale appare sfocato sullo sfondo come una risorsa di ricorso eccezionale e utilizzata per breve durata. I protagonisti di questi ILD sono ovviamente molteplici ed eterogenei: personale sanitario, personale dei servizi sociali, personale di altri settori pubblici e privati che operano nella comunità e fra essi soprattutto il personale dei settori della educazione, delle organizzazioni del lavoro e di quelle della cultura. Le sinergie e le collaborazioni variano e possono essere più formalizzate e istituzionali, come è il caso delle collaborazioni fra servizi sanitari e servizi sociali o più spontanee e generate all’interno di progetti e incroci fra organizzazioni, istituzioni e persone. Questo radicale spostamento del centro del sistema sanitario dall’ospedale alla comunità per essere possibile e efficace deve disporre di risorse finanziarie e umane: dunque si spostano dall’ospedale non soltanto gli interventi ma anche i mezzi (finanziari e umani) affinché gli interventi siano realizzati.
Gli Interventi di lunga durata costituiscono il contesto naturale per potere sviluppare servizi sanitari capaci di promuovere una medicina centrata sulla persona e una democratizzazione della assistenza sanitaria.
Con l’espressione Medicina centrata sulla persona (Mcp) si definisce un approccio all’offerta di prestazioni sanitarie che si caratterizza per la messa al centro dell’utente come decisore e protagonista attivo del processo sanitario. Così come la messa al centro della comunità muta il tradizionale modello ospedalo-centrico (con tutte le importanti implicazioni in termini di risorse), così anche la messa al centro del sistema di prestazioni dell’intervento sanitario dell’utente invece che del prestatore di servizio (il medico e il personale sanitario) modifica radicalmente la prospettiva e determina importanti conseguenze.
In sostanza alla responsabilità che tradizionalmente la medicina assume per il paziente si sostituisce una responsabilità verso il paziente e, dunque, mentre nel modello tradizionale gli obbiettivi e il contenuto dell’intervento sono stabiliti dal provider (ossia dal personale sanitario) e l’utente rimane un passivo recettore, nel modello della Mcp gli obiettivi dell’intervento sono definiti dall’utente e il contenuto dell’intervento risulta da una negoziazione fra il provider e l’utente che diviene così un attivo decisore.
Empowerment e democrazia nella salute e nella sanità
Sarà molto utile rivisitare la nozione di deep democracy introdotta dall’antropologo indiano Arjun Appadurai: la deep democracy è la costruzione di processi democratici dal basso, è l’esperienza di costruzione di cittadinanza degli esclusi e dei più vulnerabili a partire dalle lotte quotidiane per transitare dal sopravvivere al vivere.
Esperienze “dal basso” di democrazia e di empowerment si sono diffuse in molti paesi ma tali forme di democrazia rimangono ignorate dalle istituzioni pubbliche.
Queste forme diverse di pratica della democrazia “dal basso” costituiscono la deep democracy di cui parla Appadurai. Si tratta di una “invenzione democratica” secondo la felice espressione di Lefort che implica una pratica dinamica della democrazia che non è più e soltanto la pratica rituale del mito fondante della democrazia ma la sua declinazione attraverso pratiche che interrompono la continuità istituzionale, la sfidano, la forzano alla radicalità della innovazione.
Certamente uno degli aspetti fondamentali che fonda la deep democracy è costituito dai processi di empowerment degli utenti ossia dei cittadini di un territorio dato: non si tratta tanto di un conferimento astratto e decontestualizzato di potere ma piuttosto della messa in opera di processi che promuovono, parafrasando Amarty Sen:
i) capacità ad aspirare a… (maggiore benessere, maggiore libertà e maggiore potere);
ii) capacità ad acquisire strumenti per aumentare il benessere, libertà e potere;
iii) concreta acquisizione di beni e risorse che aumentano benessere e libertà.
I legami fra empowerment e democrazia o meglio fra conferimento di potere e risorse da un lato, e i complessi processi di acquisizione di potere e risorse, dall’altro, sono molto stretti e hanno una influenza decisiva sulle storie naturali delle malattie e sull’incontro fra individui malati e istituzioni sanitarie: le istituzioni conferiscono potere e risorse a chi ne è privo e i soggetti privi di potere e risorse apprendono ad acquisire potere e risorse.
Parlare di empowerment dunque significa parlare di un duplice e permanente processo di liberazione dalla propria servitù da parte degli individui e dalla autoriproduzione dei riti inefficaci della democrazia da parte delle istituzioni.
È necessario e urgente, dunque, progettare nuove forme di salute locale dal basso, anche a partire da alcune esistenti esperienze virtuose come le Microaree triestine e le Case della salute.
Il Manifesto Salute bene comune – per una autentica Casa della Salute è una iniziativa iniziata qualche anno fa a partire da alcune esperienze italiane e ispirato da due gruppi, la Fondazione Casa della Carità di Milano e la Fondazione Santa Clelia Barbieri di Porretta Terme (Bo).
L’idea si sostanzia nella realizzazione di una Casa della Salute non identificabile in una semplice Casa della Sanità, ma in una vera a proprio luogo della e per la Comunità: luogo dell’accoglienza, luogo della partecipazione responsabile alla ricostruzione dei destini della comunità di appartenenza, luogo di superamento delle diseguaglianze. Insomma un luogo dove tutti gli attori della convivenza (dalla scuola al lavoro, dai servizi sanitari a quelli sociali, dalle Istituzioni al volontariato e infine tutti i cittadini) si ritrovano a progettare e a gestire insieme il benessere presente e futuro della comunità stessa.
La Casa della Salute concepita dal Manifesto è di fatto radicata nella comunità e svolge molte delle funzioni che sono tradizionalmente attribuite alla Medicina di base, nella sua accezione più alta e avanzata, ma se ne distingue per non essere soltanto orientata a interventi di salute ma anche a interventi che potremmo definire di benessere sociale. Ecco le importanti differenze fra la Casa della Salute e forme, anche le più innovative, di Medicina di base: se la dimensione sanitaria è prevalente ed esclusiva nelle esperienze di Medicina di base, nella Casa della Salute essa è in equilibrio con altre dimensioni psicosociali che hanno a che fare con la dimensione del care che è ben più vasta di quella del trattamento medico.
Tale multidimensionalità della risposta implica e richiede ovviamente un forte coinvolgimento degli utenti che divengono cittadini che partecipano e fruiscono di un servizio complesso e cessano di essere semplici utilizzatori passivi di un servizio sanitario.
Negli anni 2005-2008 si sono create a Trieste le esperienze delle Microaree, esperienze di avanguardia precedenti il modello delle Case della Salute.
L’obiettivo delle Microaree è quello di coniugare buone pratiche sociosanitarie con forme reali di democrazia partecipata: le persone non sono più soltanto pazienti, utenti di prestazioni sociosanitarie ma soggetti attivi nel proprio progetto di salute. «In una società complessa non può esistere solidarietà vera senza il sostegno di servizi complessi e presenti e senza una dinamica di rapporto tra cittadino e servizi, tra cittadini, donne e uomini, e istituzioni». La Microarea offre interventi sanitari e sociali intersettoriali in aree piuttosto piccole (1000-2500 abitanti) allo scopo di conoscere da vicino soggetti e bisogni e di ottenere risultati concreti e misurabili. Dunque nella Microarea agisce una pluralità di soggetti, pubblici e del privato sociale, che, con la regia del pubblico, perseguono il bene della collettività e dunque esercitano complessivamente una funzione pubblica.
È necessaria una clinica che non tenga il paziente disteso
Ci insegnavano nelle facoltà di Medicina che la parola clinica deriva dal termine greco κλίνη cioè letto, dunque l’arte di curare il malato a letto e quindi la parte delle scienze mediche indirizzata allo studio diretto del malato e al conseguente trattamento terapeutico.
Non c’è dubbio che questa nobile etimologia ha creato qualche involontario danno perpetuando la idea che la buona medicina si faccia solo al letto del malato e le buone cure si ottengano solo quando ricoverati in un letto. Per estensione oggi si pensa che la riabilitazione psicosociale avvenga in luoghi (le famose residenze) ancora pervicacemente caratterizzati dalla logica del letto.
Dunque non è la comunità che è entrata in ospedale ma il letto dell’ospedale che ha colonizzato la comunità.
Ma questa posizione distesa del malato ed eretta del medico simboleggia e concretamente realizza quella differenza di potere fra curato e curante, fra cittadini e sistemi sanitari.
La clinica e il suo letto divengono il segno tangibile della asimmetria dei poteri e la drammatica distinzione fra senso prodotto da chi ha il potere e senso prodotto da chi potere non ne ha: il senso prodotto dai deboli, dai vulnerabili, dai poveri vale meno del senso prodotto da chi ha il potere.
Bisogna rileggere e fare leggere ai giovani medici la bellissima e lunga lettera ai direttori dei manicomi scritta da Antonin Artaud nel 1925.
Scrive, fra l’altro, Artaud: «Signori, le leggi e i costumi vi concedono il diritto di misurare la mente. Questa formidabile sovrana giurisdizione viene esercitata con la vostra piena consapevolezza… I folli sono per eccellenza le vittime individuali della dittatura sociale… Possiate voi ricordarvene domani mattina all’ora della visita, quando cercherete senza alcun lessico di conversare con questi uomini sui, riconoscetelo, voi non avete di più se non la forza».
Ecco che la violenza si definisce come «diritto a misurare» l’altro, a costringerlo nel senso voluto dal potere; e questo diritto è riconosciuto dall’ordine sociale, dalla ratio dominante, dalla ratio borghese.
Ma può esistere una clinica in cui il paziente resta in piedi?
Questa è la questione che connette come in un reticolo diversi vettori:
- Il diritto alla salute per tutti senza distinzioni di classe e di reddito (ossia sconfiggere la idea che esistano dei “pazienti ordinari” contrapposti a “pazienti speciali” differenza affermata dall’assessore alla sanità della Regione Lombardia, il signor Gallera).
- Il diritto a essere protagonisti attivi della propria salute e non passivi recipienti di interventi sanitari.
- Il diritto a, fin dove ragionevolmente possibile, a restare a casa propria, anche se malati oppure a fruire di interventi di diagnosi, cura e riabilitazioni al di fuori dell’ospedale.
- Il diritto a decidere insieme al sistema sanitario come, quando e in quali condizioni potere fruire di interventi sanitari (ad esempio, chi decide gli orari di funzionamento dei servizi sanitari pubblici?).
- Il diritto a ricevere una assistenza sanitaria gratuita di buona qualità.
- Il dritto a non pagare le tasse per un sistema sanitario pubblico che premia il sistema sanitario privato con fini di lucro e penalizza quello pubblico.
- Il diritto ad avere una assistenza sanitaria integrata a interventi di welfare sociale.
Ecco sette diritti sempre più disattesi, derisi, definanziati da una idea di salute e di sanità pubblica sempre più intesa come merce da comprare invece che come diritto di cui fruire.
Perché questi sette diritti siano promossi, affermati, sviluppati e resi reali è necessario che la salute e la sanità siano dimensioni che si inverano nelle comunità locali, nei micro territori dove è possibile costruire democrazia locale e reale. Dobbiamo con impegno e determinazione evitare che il local sia colonizzato dalle destre rancorose e dobbiamo riappropriarci dei borghi, dei comuni, dei territori affinché le comunità reali dei cittadini reali nelle loro quotidianità reali imparino a riconoscere le menzogne, a rivendicare diritti giusti invece che inseguire falsi nemici e comprendano che operare per il bene pubblico significa operare per il bene di ciascuno.
Sappiamo molto bene che la società neoliberale e mercantile considera come scarti della società i vecchi, i poveri e tutti i più vulnerabili e meno garantiti, tutti soggetti reificati come “prodotto di scarto” una ideologia neoliberale dello sviluppo che vuole farci credere che il progresso, ossia il desiderabile evolversi della umanità, sia sinonimo di sviluppo neoliberale.
Con Franco Basaglia, quaranta anni fa, abbiamo dato voce ai matti sepolti vivi nei manicomi, abbiamo dato loro voce perché erano cittadini silenziati. Abbiamo deistituzionalizzato la malattia mentale e dato potere ai malati. In questa pandemia abbiamo visto che molti altri cittadini sono senza voce e senza potere, e con le medesime logiche dobbiamo continuare a produrre, ben oltre la emergenza della pandemia, processi di deistituzionalizzazione nella sanità pubblica ossia operare per la restituzione di voce, di senso e di potere a chi ne è sistematicamente privato. E dovremo farlo con la necessaria durezza.
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