Socialmente Pericolosi-Dangerous To SocietyA colloquio con Anna Gioia Trasacco sugli ospedali psichiatrici giudiziari in preparazione dell’incontro del Forum a Gennaio 2011 ad Aversa, di Nico Pitrelli 

Ci sono luoghi in Europa in cui la modernità, comunque la si voglia definire, ha fallito completamente. Nel vecchio e ricco continente, che fin dal 1950 ha sottoscritto una convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ci sono spazi fisici abitati da esseri umani privati di tutto quello che ragionevolmente può essere considerato “umano”. Quei luoghi, buchi neri in cui tende a sparire ogni radiazione anche flebile di diritti, giustizia, cura, uguaglianza, sono gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). In Italia ce ne sono sei. Se ne parla molto in questo sito. Sono tra le direttrici principali su cui si articola l’impegno del Forum Salute Mentale. Eppure si continua a rimanere irrimediabilmente scossi quando si raccolgono le storie di chi è testimone della vita quotidiana di queste istituzioni.

Anna Gioia Trasacco ha dedicato diversi anni della sua vita, prima come volontaria impegnata in attività teatrali, successivamente come insegnante, agli internati dell’Opg di Aversa. Anna Gioia è attualmente responsabile dell’ambito Salute Mentale del Tribunale dei Diritti del Malato in Campania. Grazie anche al suo impegno il 15 e il 16 Gennaio 2011 nella città campana si volgerà un incontro del Forum sulle problematiche degli ospedali psichiatrici giudiziari.

“L’appuntamento di gennaio prossimo”, ci spiega Anna Gioia, “organizzato dal Forum in collaborazione con il Dipartimento di salute mentale di Caserta, diretto dalla dottoressa Tiziana Celani, vuole fare anche il punto sul Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm) dell’aprile del 2008, che stabilisce i criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale di funzioni, risorse e attrezzature in materia di sanità penitenziaria. Quel decreto sarebbe la luce in fondo al tunnel per l’inizio del superamento degli Opg anche se, a dire il vero, sono pessimista.”

Perché?

Perché intorno agli Opg si sono creati gli apparati di mantenimento degli stessi, forze di opposizione da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e non solo, anche da una certa psichiatria che io definisco miope, poco lungimirante, che ostacola il processo di superamento degli Opg, soprattutto non impegnandosi a dirimere il nodo della non imputabilità della persona che commette reato, che è la causa per cui  si entra in Opg.

Dall’interno di questa istituzione totale si leva un solo coro che canta sempre la stessa canzone: più soldi, più personale penitenziario, più personale sanitario. Ma la domanda che mi pongo è la seguente: starebbero meglio gli internati?

Dovremmo chiederlo a loro! Nell’Opg di Aversa, attualmente, ci sono 294 internati a fronte di una capienza di 160 persone.

Negli ultimi quattro anni c’è stato un incremento pauroso dell’internamento. Nel 2006 c’erano 101 persone, nel 2010, come già detto, 294”

Che spiegazione dà a questa crescita?

Una ragione è sicuramente legata al fatto che purtroppo vengono mandati nell’Opg anche i cosiddetti osservandi. Si tratta di detenuti che dal carcere sono stati inviati in Opg per perizie psichiatriche. In caso di osservazione rimangono trenta giorni, ma per chi è in attesa di giudizio il periodo dura di più, è legato ai tempi del processo. Si tratta di persone che magari hanno tentato il suicidio o che secondo i medici hanno un disturbo psichico o che hanno dato in escandescenze, come accade soprattutto nei mesi caldi.

Sostanzialmente però non si sa né se sono colpevoli né se sono malati.

Intanto sono rinchiusi e fanno crescere la popolazione dell’Opg. Una riflessione che io farei sempre sul numero crescente degli internati riguarda la magistratura che rispetto alla persona inferma di mente e rea, poco tiene conto delle due sentenze della Corte Costituzionale, la n. 253/03 e la 367/04 che, per dirla in breve, ritiene l’Opg un luogo di non cura. Basterebbe attenersi a queste sentenze per limitare al minimo i nuovi ingressi.    

Perché lei s’interessa a queste persone?

Mi sono occupata di teatro per molti anni. Ho partecipato, attraverso il teatro, all’avventura della chiusura del manicomio civile di Aversa, dove avevo avviato un laboratorio teatrale con le persone che attendevano la dimissione. E’ stato un periodo pieno di energia e di creatività, ho incontrato persone meravigliose che da anni erano rinchiuse e non aspettavano altro che l’incontro con l’esterno, che non era solo quello  con la libertà, ma soprattutto quello con la relazione con gli altri. L’incontro più bello e gratificante è stato quello con un uomo di 60 anni, Vincenzo Cannavacciuolo, ribattezzato da me Bobò, sordomuto, microcefalo, rinchiuso in manicomio giovanissimo perché la famiglia non lo voleva. Le sue dimissioni dal manicomio di Aversa sono state le più eclatanti poiché quello che gli ha  riservato il destino, grazie al teatro, è stato una contratto di scrittura con la compagnia teatrale di Pippo Delbono, mio amico e maestro, che avevo invitato per fare uno spettacolo nell’ambito di una manifestazione teatrale allestita negli spazi manicomiali. Capii subito che Pippo si sarebbe artisticamente innamorato di Bobò, della sua incredibile presenza scenica e del suo disarmante candore. Ricordo che subito sbrigammo le pratiche burocratiche per le  sua dimissione, con gli uffici di competenza, per consentire a Pippo di prenderlo in affidamento. Da allora, era il 1997, Bobò ha girato i più grandi teatri del mondo, portando una fortuna incredibile alla compagnia e attualmente vive in Liguria nella casa di Pippo. Tra una tournè e l’altra viene a trovare la sorella che ora lo accoglie con tutti gli onori. 

Certo non è andata a tutti così bene ma almeno a uno!  Fu in quel periodo che conobbi il direttore dell’Opg di Aversa, che, venuto a vedere uno spettacolo, volle conoscermi e mi propose di fare un laboratorio teatrale all’interno dell’Opg. Accolsi la proposta con entusiasmo. Mi sembrava un approccio illuminato anche se poi, col tempo, compresi che non era così.

In ogni caso, nel 1997 feci il mio ingresso come volontaria nell’ospedale psichiatrico giudiziario Filippo Saporito di Aversa che, nonostante si trovi nel centro storico della città e nonostante sia un edificio che squarcia il paesaggio, rimane per la maggior parte degli abitanti della cittadina campana un luogo sconosciuto e misterioso.

Ho iniziato così un’altra avventura. Questa volta però dura davvero. Ho scoperto giorno dopo giorno l’energia inesprimibile e inespressa degli internati, che trovavano una via di fuga nel teatro.

Ma durava poco. Perché quando tornavano nei reparti mi raccontavano che per loro era ancora più duro reprimere i pensieri, le azioni, i movimenti nello spazio.

Dopo poco tempo capii anche che per il direttore l’intera operazione era di facciata, utile a fornire un’immagine positiva e impegnata dell’istituzione, ma non orientata a cambiarne le logiche per migliorare realmente la vita delle persone.

Succedeva che sparivano a turno persone che frequentavano il laboratorio. Non le vedevo per giorni e a volte anche per intere settimane.

Con una scusa riuscivo sempre ad entrare nei reparti, venivo accolta con un po’ di fastidio sia dalla polizia che dagli infermieri. Ma non erano tutti uguali e riuscivo a sapere che fine avessero fatto gli internati. In questo modo ho scoperto cose e storie terribili. Quando sparivano, venivano legati ai letti di contenzione e ci rimanevano anche per settimane. Spessissimo per futili motivi: liti per sigarette, cibo o indumenti. Quando andavo dal direttore per cercare di farli slegare, il direttore, spesso, non era a conoscenza della coercizione avvenuta. Scoprii quindi che, anche nell’atto della contenzione, si riscontravano spesso e volentieri delle irregolarità. Non c’era la richiesta del medico e le persone non venivano legate dagli infermieri, come prevede il regolamento, ma dalle guardie o peggio dagli altri internati che svolgevano mansioni di pulizie. Ricordo due giovani fratelli sardi, che non avevano commesso reato di sangue. Avevano un vissuto tremendo alle spalle: isolati fin da piccoli sulle montagne, mentre il padre custodiva le pecore, vittime di abusi da parte del padre stesso, abbandonati dalla loro famiglia, si erano ritrovati reclusi entrambi in Opg, denunciati per molestie sessuali nei confronti di non so chi. I due fratelli erano sempre legati al  letto di contenzione. Uno aveva 23 anni, l’altro 20. Ricordo che iniziavo estenuanti trattative con il direttore per farli slegare. A volte mi riusciva, a volte no. Oltre alla contenzione i due fratelli, nel tempo, subirono un profondo cambiamento nel fisico. Erano giovani e anche belli: i loro occhi scuri erano vivi ed intelligenti, sempre attenti. Col tempo li vidi ingrassare in modo spaventoso, diventarono quasi deformi e il loro sguardo perse la brillantezza della gioventù. Spesso erano in overdose farmacologica con bava alla bocca. Una volta  ottenni il permesso per andare a trovare, sul letto di contenzione, uno dei due. Era Fabrizio, l’altro si chiamava Giovanni. Non sapevo che stavo andando incontro a uno dei momenti più duri della mia vita. L’angoscia che provai fu forte: girai le spalle e me ne andai senza poter far niente per quello sguardo implorante e  pieno di vergogna per la sua condizione. Quel giovane corpo sotto un lercio lenzuolo, costretto come un agnello sacrificale a sottostare al suo destino, mi fece capire da che parte stare. Fabrizio è morto in Opg  tempo fa, dell’altro non ho saputo più nulla.

Nel 1998, superato un concorso a cattedra nella mia Regione, decisi di scegliere una cattedra libera che nessuno voleva, per insegnare ai reclusi dell’Opg. Anche affermare il diritto inalienabile all’istruzione in Opg è stata una dura battaglia. Ho dovuto lottare strenuamente con le resistenze interne per riuscire a fare avere agli internati l’accesso ai titoli di scuole superiori. Prima di me funzionava solo una scuola elementare (ora è attivo un corso di educazione per gli adulti che dà la possibilità di una più ampia offerta formativa e accesso ai titoli superiori) e questa lotta mi costò il trasferimento su una cattedra esterna.

Fuori si lotta meglio. Il corso di educazione per adulti fu richiesto anche presso il Centro di Salute Mentale di Aversa. Attivato con Franco Rotelli, quando era alla direzione generale dell’Asl di Caserta, insieme ad altre tre docenti rientrammo in quell’organico di diritto. Negli anni il Dipartimento di salute mentale dell’Asl Caserta, prima con la dottoressa Giovanna Del Giudice e poi con la dottoressa Tiziana Celani, si è sempre impegnato a organizzare percorsi esterni rivolti a reclusi dell’Opg che potevano usufruirne, con progetti e budget di cura ancor prima del DPCM del 2008. Ho avuto così il piacere e la gioia di rincontrare alcuni internati conosciuti là dentro. Nel 2002, per esempio, partecipai al progetto di percorso esterno di Carlo M., che dopo più di 15 anni passati in Opg, aveva avuto finalmente la revoca della pericolosità sociale.

L’apertura del nuovo Centro di Salute Mentale di Aversa, una bella struttura situata al centro della città, ha contribuito non poco al raggiungimento degli obiettivi di integrazione anche per gli internati dell’Opg, poiché la struttura consente, con i suoi spazi, di svolgere attività di socialità e di creatività nonché di istruzione e formazione. Pertanto col tempo, è divenuto un luogo di riferimento per la città e per i cittadini e anche per una parte della popolazione di ex internati in Opg. E’ stata veramente una cosa molto gratificante seguire i percorsi di integrazione di molti internati. Tra loro, Paolo: uomo tranquillo e dolce che ha scontato per circa 18 anni in Opg la pena per un crimine mai commesso. Qualche anno fa lo hanno finalmente liberato ed ora lo incontro per strada che va a fare la spesa con gli altri due suoi coinquilini. Per lui è stato fatto un budget di cura che gli ha consentito di abitare in un appartamento al centro della città con altre due persone, seguito da una cooperativa sociale del settore. Paolo segue le attività del CSM, d’estate partecipa al cineforum che organizziamo, insomma vive una vita abbastanza tranquilla ma soprattutto dignitosa dopo l’inferno che ha vissuto. Non mi sembra poco!

Ora abbiamo di fronte questo DPCM del 2008, a cui dovrebbe essere data piena applicazione. È una battaglia che mi sta molto a cuore perché il decreto realizza il passaggio della sanità penitenziaria alla sanità pubblica, investe la locale Azienda Sanitaria di nuove responsabilità rispetto a un elevato numero di persone con patologie psichiatriche e internate. Ma purtroppo il passaggio, come spesso avviene in questo paese, può contare su scarsissime risorse. Anzi, è quasi a costo zero. Ciò significa che le aziende sanitarie devono far fronte ad altre spese con il deficit che già grava sulle loro spalle. Chi ne farà le spese? La risposta è fin troppo semplice. E’ iniziato il valzer delle responsabilità, soprattutto dall’interno dell’Opg di Aversa, dove vi è stata una spaccatura tra la parte sanitaria e quella penitenziaria. 

Cos’altro andrebbe fatto secondo lei?

Una delle cose che dovremmo fare, e che dovrebbe fare sempre di più anche il Forum, è di cercare di cambiare l’immaginario collettivo nei confronti delle persone rinchiuse negli Opg, di combattere lo stigma che trasforma gli internati in mostri di cui anche i medici si vogliono liberare. Nessuno vuole veramente prendersene cura.

Qualche mese fa è stato ricoverato nell’ospedale di Aversa Sergio M, di 55 anni, dalla provincia di Frosinone, rinchiuso in Opg da circa 20 anni per tentato omicidio. Aveva una patologia respiratoria abbastanza grave e aveva bisogno di ossigenoterapia. In Opg lo hanno tenuto in isolamento per non so quanti anni: per il dirigente sanitario della struttura era questa l’unica soluzione per non farlo fumare! Quando, dal reparto di medicina generale, è stato trasferito in Spdc era guardato a vista giorno e notte da due agenti di polizia penitenziaria. Io sono andata a trovarlo spesso, come responsabile del Tribunale dei Diritti del Malato. Mi sono relazionata a Sergio in modo semplice e lui si è fidato subito. L’ho coinvolto in semplici attività cognitive e ha reagito in modo positivo. Quello che non sopportava era la polizia e gli infermieri burberi. Era un omaccione spaventato e bisognoso di cure. Il dipartimento si stava attivando per una sistemazione diversa dall’Opg ma si era in attesa di un pronunciamento da parte del giudice. Sergio è morto la settimana scorsa, si dice di infarto, dopo uno stato di agitazione. Il magistrato non si era ancora pronunciato. Come responsabile salute mentale del Tdm chiederò al magistrato di essere informata sull’esito dell’autopsia che è stata richiesta, come da prassi, sul cadavere.

Anche la magistratura si dovrebbe attivare a collaborare di più per la risoluzione più veloce che riguarda la presa in carico di queste persone. Quando ciò non avviene, allora i magistrati diventano complici di quelli che sono dei veri e propri ergastoli bianchi, in quanto se un internato ha avuto una revoca della pericolosità sociale è un uomo teoricamente libero e non può essere trattenuto per tempi indefiniti.

Cosa sono gli ergastoli bianchi più precisamente?

Si tratta di quelle situazioni in cui ci sono persone che potrebbero ritornare a casa ma ciò non avviene perché le famiglie non vogliono farsene carico e le Asl di appartenenza si muovono a rilento nella presa in carico, spesso nascondendosi dietro l’alibi della mancanza di fondi. Secondo le ultime stime fornite dalla dirigenza sanitaria dell’Opg di Aversa è una condizione che riguarda il 40% degli internati. Uomini oramai rotti dalla sofferenza e dall’incuria di una struttura che non riesce a contenerli più.

I casi di morte per suicidio negli anni passati sono stati tanti e le morti per mancanza di cura sono troppi. Gli ultimi episodi riguardano uomini giovani tra i 40 e i 45 anni. Nel dicembre scorso un internato ha perso la vita soffocato dal suo stesso rigurgito. Nello scorso agosto è morto un uomo di 44 anni, originario di Teramo, ricoverato all’ospedale civile nel mese di luglio con una grave patologia e dimesso dopo venti giorni di degenza, nonostante il parere sfavorevole dei medici dell’ospedale civile. Riportato in Opg, dopo poche settimane, si aggrava e muore prima che l’ambulanza, chiamata per il trasporto in ospedale,  esca  dalla struttura. Il suo cadavere viene tenuto per tre giorni in una stanza “refrigerata”  con il solo ventilatore poiché l’Opg di Aversa è privo di cella mortuaria. L’ultimo, tragico, episodio risale a pochi mesi fa: un uomo di 42 anni, originario di Nettuno, viene picchiato selvaggiamente (si dice da altri internati) e versa in gravi condizioni con prognosi riservata dopo un delicato intervento neurochirurgico presso il Secondo policlinico di Napoli. I familiari non vengono informati tempestivamente e circola un lettera della madre del paziente indirizzata al garante dei detenuti del Lazio che critica aspramente il comportamento dell’ufficio matricola dell’interno della struttura di Aversa.

Le storie di dolore e violenza non si contano all’interno del Filippo Saporito in cui le condizioni dei detenuti sono state giudicate inumane da Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa.

Questo è un posto orrendo che di ospedale ha solo il nome ma che è in realtà un manicomio, un luogo di abbandono, in cui gli internati, anche in quattro o cinque insieme, trascorrono l’intera giornata in celle non solo disadorne ma sudice fino all’inverosimile, con bagni (se così possono chiamarsi) che fanno vomitare. Quando li portano in ospedale civile per qualche urgenza (e sono fortunati se vengono trasferiti in tempo!) sono sporchissimi, puzzolenti, coperti di stracci, le pieghe del volto, ancora giovane, segnate dal degrado e dal dolore dell’abbandono.

Tutti dovrebbero entrare nei padiglioni e guardare con i propri occhi per capire come questi uomini trascinano la loro esistenza giorno dopo giorno, spesso senza speranza di venirne fuori.

Il Dpcm del 1 aprile del 2008 prevede la riorganizzazione del sistema degli ospedali psichiatrici giudiziari con reali prospettive del superamento degli stessi. La realtà è che, nonostante lo sforzo di molti operatori, la riforma della sanità penitenziaria non ha ancora prodotto gli effetti sperati. Anche i tagli alla sanità giocano, ovviamente, a sfavore. In Campania si sta attivando un progetto pilota per fare uscire una quarantina di internati presi in carico dai servizi territoriali di salute mentale. Ma tutto va a rilento anche per i motivi che ho sopra citato. Bisogna lottare compatti per chiedere il superamento di queste sei strutture (Aversa – Napoli – Barcellona Pozzo di Gotto – Reggio Emilia – Montelupo Fiorentino – Castiglione delle Stiviere) e il primo grande passo è fare una corretta informazione su cosa è realmente un ospedale psichiatrico giudiziario, chi è la popolazione internata e perché viene internata, chi lo gestisce, quali sono le figure professionali che vi lavorano, quanto costa allo Stato e alla comunità una simile struttura.

Nei prossimi mesi vorremmo intervistare i direttori degli Opg prima dell’appuntamento del Forum a gennaio. Lei cosa chiederebbe loro?

I direttori degli Opg rimasti, dopo il Dpcm del 2008, sono ora dirigenti sanitari e non hanno più la responsabilità dell’intera struttura,  sono comunque dei dirigenti sanitari, che, a mio parere, finalmente, liberati dall’onere di burocrazie carcerarie potrebbero e dovrebbero dedicarsi di più alla cura degli internati, a quelli più bisognosi dar loro la possibilità di vedere un ospedale prima della crisi grave o della morte e per far questo non ci vogliono più soldi  ma solo umanità e senso civico del dovere!

 

2 Comments

  1. Adolfo Ferraro

    Mi chiamo Adolfo Ferraro , sono uno psichiatra forense , e lavoro come referente sanitario dell’Asl Ce nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa dal giugno 2008 , mentre precedentemente ero dirigente dell’amministrazione penitenziaria nell’ambito della stessa struttura, con le funzioni di direttore dal 1997.
    Ho letto con interesse l’intervista ad Anna Gioia Trasacco di Nico Pitrelli sull’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa del 7 novembre , e mi sono sentito nella necessità di intervenire ( anche perché “tirato in causa”) per specificare ed approfondire – se mi è concesso – alcuni aspetti relativi a quanto affermato . E questo non per spirito di polemica o rivendicazioni personali , ma solo per una migliore comprensione del problema e quindi della sua risoluzione. Le operazioni definite “di facciata” del decenni precedente al DPCM del 1.4.22008 ( convegni , manifestazioni , aperture all’esterno) erano finalizzate a richiamare attenzione sul problema OPG così da trovarne a risoluzione che – si precisa – personalmente la si vede solo come il superamento e l’abolizione dell’istituzione psichiatrico giudiziaria. Per questo le aperture degli spazi , le attività riabilitative e quindi una condizione di maggiore possibilità di dismissione dei pazienti ed altro ancora: e proprio nel 2001 fummo contenti di firmare un protocollo di intesa con l’allora direttore generale dell’asl Franco Rotelli, che fu il primo atto di riconoscimento di una identità sanitaria – e non di reclusi- degli internati nell’OPG . Con contento stupore , essendoci confrontati sino ad allora con un mondo della psichiatria “esterna” , quella del territorio nazionale , che spesso si rifiutava di recepire ed accogliere i soggetti che ritenevamo pronti ad essere dimessi. Fu su questa considerazione che la commissione interministeriale sanità/giustizia ( ed in cui io allora rappresentavo il ministero della giustizia) pose le basi nel 2006 per quello che è diventato successivamente il DPCM del 2008. Ero entusiasta di questo : da una parte finalmente rispettati il diritto alla salute ( siamo tutti eguali innanzi alla salute , liberi o ristretti) , e poi perché poteva rappresentare la soluzione dell’OPG. Ma l’OPG è una struttura ambigua come concezione di partenza , senza identità definita , e qualsiasi intervento si attua produce ulteriore ambiguità : il frutto del decreto negli OPG ha prodotto che l’amministrazione penitenziaria ha assunto le funzioni relative alla sicurezza e alle strutture , mentre la parte sanitaria è transitata alle Asl di competenza . L’OPG di Aversa si è scissa quindi in due direzioni , quella penitenziaria , che ha aumentato la chiusura tipica del carcere, e quella sanitaria che è transitata nell’ASL Ce2 ( poi accorpata in Ce) alle dipendenze del DSM. Nel contempo un aumento della popolazione internata, non dipendente dagli osservandi ( nell’intervista non si racconta che dal 2003 non sono più accolti in OPG) , ma da una aumento complessivo dei pazienti ristretti in tutta Italia che sta raggiungendo la cifra di 1500 persone ( sino all’anno scorso erano 1300) , ha appesantito un lavoro che avrebbe, a quel punto , necessitato di altra organizzazione. Invece l’organizzazione sanitaria nell’OPG di Aversa è rimasta la stessa di quella precedente al DPCM : un solo medico dipendente ( il sottoscritto) ed ancora la anacronistica presenza del “consulente psichiatra” , una figura penitenziaria che per contratto lavora tra le quaranta e le sessanta ore al mese nella struttura , dopo avere prestato servizio negli altri dipartimenti in cui svolge la sua opera lavorativa principale. Così come non si sono modificati i numeri degli infermieri e di tutto quello che di organizzativo necessitava , dalla presenza di personale amministrativo ( le pratiche amministrative le svolgono infermieri volenterosi) alla impossibilità ad avere il fax o un’auto per i trasporti dei prelievi , o la carta per scrivere le relazioni e le comunicazioni, da parte dell’ASL che ci ha preso in carico. Ultimo episodio: ai primi di novembre la commissione del Senato di Ignazio Marino ha sequestrato la farmacia dell’OPG di Aversa , perché non c’era un farmacista che firmasse il prelievo dei farmaci e la distribuzione nei reparti , nonostante ne fosse stata richiesta da tempo l’assegnazione. Capiamo che il passaggio si è verificato in Campania in un momento politico molto delicato , che dura da quasi tre anni , e che ci ha visti passare da un commissario governativo all’altro , senza la presenza di un direttore generale dell’Asl, che potesse almeno definire istituzionalmente in maniera sanitaria quel luogo ( presidio ospedaliero , unità complessa o semplice , di primo o secondo livello ,etc) così da dare una identità – infine – anche alle persone internate nella struttura. Che , si ribadisce , sono in maggioranza tali da potere essere dimesse , e le difficoltà maggiori che consentono la permanenza le si riscontrano al momento del reintegro nel territorio. Questo meccanismo produce “l’ergastolo bianco” raccontato dalla Trasacco e , associato alla rigidità del carcere in cui la struttura si sta trasformando alle difficoltà del territorio e al sovraffollamento drammatico nella struttura , consentono la permanenza di un mostro che produce mostri. Da una parte un penitenziario che aumenta i controlli , e dall’altra una struttura sanitaria che non li accoglie e non li riconosce: una bella tragedia , per i nostri malati , costretti inoltre a vivere ammassati uno sull’altro e con una considerevole riduzione delle attività riabilitative e adesso , dopo il sequestro , anche dei farmaci. Del resto che l’Asl del territorio ha avuto difficoltà ad accettare l’impegno è stato evidente da subito , considerandolo un ulteriore aggravio su una situazione già precedentemente critica , anche senza l’OPG. Insomma una situazione difficile , che si scarica sui pazienti ristretti in maniera anche più crudele di quelle pittorescamente rappresentate nel racconto di Anna Gioia Trasacco. Dove tutti però hanno la loro parte di responsabilità , anche chi , come l’aspetto sanitario che rappresento e quindi dei malati ristretti che indegnamente penso di rappresentare , si sente escluso : per esempio , apprendo dall’intervista che a gennaio 2011 ci sarà ad Aversa un incontro del Forum sul tema OPG organizzato dal direttore del DSM che , pur avendolo incontrato di persona recentemente , non mi ha mai accennato all’evento che , pure , dovrebbe riguardare gli operatori dell’OPG. Così come ho avuto l’impressione che molti degli operatori del DSM coinvolti nella vicenda non sappiano quali sono le motivazioni giuridiche dell’internamento di un paziente in OPG , e questo mi addolora perché rende sempre più difficile la realizzazione di quello per cui si sta lavorando. Nascono probabilmente dalla non-comunicazione o ,se preferite , dalla comunicazione alterata, o se preferite ancora dalla non conoscenza , una serie di incomprensioni o inesattezze: ad esempio non si racconta mai che dal dicembre 2008 è stato eliminato l’unico letto di contenzione che era rimasto dopo un lungo tragitto finalizzato alla loro eliminazione, nonostante le pressanti richieste di rimetterli in funzione da parte della dirigenza penitenziaria. E , credo , Aversa sia l’unico OPG in cui questa pratica non si attua , anche se sappiamo bene che negli SPDC di tutta Italia è praticata con costanza. Così come che esiste all’interno un reparto senza la custodia penitenziaria di soggetti pronti ad essere dimessi che gestiscono insieme agli infermieri lo spazio , che esiste un gruppo teatrale ( non condotto dalla Anna Gioia Trasacco) che sta rappresentando in vari luoghi e teatri il dolore della restrizione , ed altre cose ancora che rappresentano lo sforzo del sanitario che lavora nella struttura per trasferire con meno danni possibili il tutto.
    Non si tratta quindi di “cantare sempre la stessa canzone: più soldi, più personale penitenziario, più personale sanitario” così come la intervistata ha graziosamente raccontato , ma di dare una identità al luogo e quindi alle persone che sono internate. Se non si capirà questo punto , tutto il resto sono solo le propagandistiche affermazioni che non fanno smuovere di un passo la situazione, anzi l’aggravano.
    Ho letto con piacere che l’intervistatore ha intenzione di parlare con i referenti degli OPG prima del Forum , e quindi aspetto questa occasione per specificare meglio quanto sinteticamente ho cercato di rappresentare.
    Un’ultima cosa . Fabrizio non è morto , come ha raccontato Anna Gioia, ma sta invecchiando ancora tristemente nell’OPG di Aversa : l’Asl della regione da cui proviene non sa dove metterlo .

    Adolfo Ferraro

  2. Grazie Dr Ferraro per il lavoro che svolge, lavoro particolarmente difficile proprio per il rischio di strumentalizzazione di tutto cio’ che viene fatto o puo essere fatto all’interno di una struttura come l’OPG. Mi complimento anche per la sua pacatezza e per il suo equilibrio. Ha tutta la mia solidarietà!

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