Un pesce dentro un acquario, per quanto possa nuotare, sbattere le pinne, dimenarsi, salire fino su per poi scendere fino a giù, resterà sempre un pesce dentro un acquario. A meno che non si tratti di un pesce dentro un acquario fortunato, perché allora le cose cambiano: un giorno indefinito, una mano paziente, sapiente, capace e generosa, lo prenderà in mano senza scottarlo, curandosi di lui lo porterà diritto fino al mare. Quel pesce fortunato dovrà imparare a nuotare davvero, vivendo delle sue forze, mangiando il suo coraggio, lottando contro i nemici che indubbiamente incontrerà durante il suo percorso. Ma non avrà importanza, per lui, perché, anche se dovesse morire, lo farà naturalmente e non carbonizzato sui bordi di un’acqua putrida e stagnante di un acquario sbadatamente dimenticato.
È con queste parole che ha inizio lo struggente racconto autobiografico dell’autrice che, attraverso la sua scrittura mai banale, puntuale e suggestiva, meraviglia e stupisce i lettori e accende i riflettori sugli incidenti di percorso di una vita. Un gesto o una parola al posto sbagliato nel momento sbagliato e l’inimmaginabile può crollarci addosso. La condotta irriverente di Matilde, protagonista di questo libro/diario/autobiografia ne è un esempio. Troppe delusioni rimediate, sofferenze intascate, troppe lacrime non piante e troppe attese sradicate hanno portato ad anestetizzare i suoi dolori con i rimedi peggiori di cui un’anima si possa nutrire. Eppure Matilde è dotata di una sensibilità oltre le righe e a questa stessa sensibilità ricorre ogni volta che scrive sul suo magik book, sfuggendo così, almeno per qualche istante, alla routine giornaliera dei servizi e delle comunità d’accoglienza: dall’assunzione dei farmaci alla partecipazione alle riunioni, dallo svolgimento dei compiti alle litigate con i compagni e le compagne di viaggio.
Claudio Magris firma la corposa introduzione al volume intitolata L’autobiografia: dall’aquario al mare. È a partire da una profonda analisi dell’autobiografia in letteratura che Magris arriva a parlare di una notevolissima – come la definisce lui – stanza dei pesci. Un tipo di autobiografia che costituisce un recupero della propria soggettività. In questo libro l’autrice racconta delle esperienze laceranti e repulsive, con una chiarezza, una lucidità e una ferma pulizia linguistica che liberano il testo da ogni compiacimento narcisistico, da ogni ostentazione del proprio dolore, da ogni tentazione di crogiolarsi nella propria sofferenza. «[…]C’è un piglio errabondo da canzone in queste pagine»- scrive Magris – «che raccontano una storia ben diversa da quella che raccontano le solite canzoni[…]».
Magris descrive questo libro come vero e proprio Bildungsroman, un romanzo di formazione; ma non un romanzo letterario, bensì un romanzo di vita vera, talora troppo dolorosamente vera. Un percorso che parla di identità, soggettività, coraggio, ma anche di un’incessante richiesta di aiuto, come quella di un pesce che chiede silenzioso di essere sollevato dalle ristrettezze senza fantasia di un acquario e nuotare nel mare infinito. Flora però ha saputo imparare a nuotare, a vivere delle sue forze, a – come scrive lei – nutrirsi del suo coraggio.
«Non è un caso che un libro»- sottolinea Magris – «come La stanza dei pesci possa essere accolto in una collana destinata non a offrire chicche letterarie, ma testimonianze di persone che sono passate attraverso forche caudine umilianti e degradanti e anche colpevoli, che hanno dovuto attraversarle per ritrovare se stesse. Una collana che si propone di dimostrare che si può impazzire, ma che se impazzire si può, si può anche guarire. O, più semplicemente – giacché anche la parola guarire può essere ambigua e non può certo garantire alcuna eternità – si può anche diventare capaci di vivere».