Un affresco corale per il piccolo schermo, capace di raccontare e ripercorrere, in 180 minuti, l’evoluzione epocale nel modo di guardare i malati di mente, a partire dalla storica apertura delle porte del manicomio di Gorizia e di Trieste. Trasmesso nel 2010 da Raiuno, C’era una volta la città dei matti, diretto dal regista Marco Turco e interpretato da Fabrizio Gifuni, nella parte di Franco Basaglia, e da Vittoria Puccini, una giovane internata, venne accolto con un fortissimo, e per certi versi sorprendente, successo: più di 7 milioni di spettatori nelle due serate. Il film racconta i fatti di allora e dà la possibilità alle generazioni che sono venute dopo di partecipare emotivamente a quegli eventi ormai lontani. La narrazione, diversamente da un testo scientifico, da un manuale, da un articolo, si sviluppa da una posizione del tutto soggettiva che rende intensi e amplifica fatti, scene, personaggi. Il racconto ha avuto il potere di emozionare, coinvolgere, parteggiare. Nel trattamento e nella sceneggiatura ci sono distorsioni storiche che distanziano dai fatti realmente accaduti, che tuttavia permettono di rendere ancora più intenso, chiaro e diretto il coinvolgimento e la memoria del cambiamento.
C’era una volta la città dei matti è andato in onda nel febbraio 2010. Il film ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti in tutti i concorsi internazionali a cui ha partecipato ed è stato richiesto da scuole, università, associazioni, organismi internazionali. La versione sottotitolata in francese e in inglese è stata vista e discussa a Sidney e Parigi, a Tirana e Teheran. In Iran il film è stato sottotitolato dal locale ufficio OMS in lingua farsi e distribuito in quattromila copie in tutti i presidi periferici della salute mentale. In Turchia il ministro competente, dopo averlo visto, ha indetto una conferenza stampa per comunicare il progetto di riforma dell’assistenza psichiatrica e di chiusura dei manicomi. È in corso la traduzione in spagnolo e portoghese da parte di associazioni brasiliane e argentine. Verrà diffuso in questi due grandi paesi del Sud America, a sostegno del cambiamento culturale e organizzativo avviato lì da leggi innovative quanto e come lo fu, trent’anni fa, la legge 180 in Italia.
Quella legge che cominciò il suo lungo e travagliato cammino il 16 novembre del 1961 quando Franco Basaglia, un giovane psichiatra veneziano, appena nominato direttore, entra nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Gorizia. Ha lasciato l’Università di Padova e una promettente carriera accademica. Ha costruito negli anni di ricerche e di studi eretici una sua presenza culturale, mal tollerata, nell’istituto delle malattie nervose e mentali della facoltà di medicina. La sua promozione a direttore del manicomio della piccola provincia al confine del mondo diviso dalla guerra fredda è di fatto un allontanamento. È la prima volta che entra in un manicomio. Varcata la soglia quanto vede lo sconvolge. Scopre un mondo muto, freddo, sospeso, immobile. Un luogo permeato da una violenza sorda mai conosciuta prima. Non solo la violenza della contenzione, delle porte chiuse, della sopraffazione fisica che non può non vedere. È la violenza che intuisce nell’assenza delle relazioni, nella cancellazione delle storie, nella sottrazione della parola che è intollerabile. Gli uomini e le donne non ci sono più. L’incontro con l’altro non è neppure pensabile. Dietro le mura di quel confine che ha appena varcato non è possibile esserci. Sperimenta l’impossibilità dell’incontro con l’altro: ognuno ridotto a internato, a una sola piatta identità, ai margini estremi di ogni possibile contratto. Incontra psichiatri e psichiatrie, infermieri e gerarchie, diagnosi e malattie. Verifica l’infondatezza dei trattamenti. Trattamenti che altro non sono che strumenti che riducono fino a cancellarla ogni possibilità di resistenza alla malattia, di ribellione all’istituzione. La responsabilità del comando che sta per assumere gli appare inaccettabile. Si domanda cosa mai potrà fare, come potrà sottrarsi al devastante ingranaggio istituzionale. Diventare complice sarà il suo destino. Non può che desiderare di fuggire. Decide di restare. Sa bene che restare significa trasformare radicalmente quel mondo, opporsi prima di tutto alla violenza e all’annientamento, guardare e ascoltare. Dovrà essere capace di costruire insieme agli altri possibilità, alternative, scelte. La scommessa è durissima, si può perdere in qualsiasi momento. La scommessa pretende una scelta di campo netta: i bisogni al di sopra delle regole, le relazioni al di sopra delle gerarchie, le storie al di sopra delle diagnosi e delle malattie. Da questo momento lo sguardo comincia a cogliere la presenza di uomini e donne che hanno voci e storie, mestieri e appartenenze, emozioni e sentimenti. Da qui le cento storie che il film racconta.
Il film è diventato un libro che include il dvd con l’intero girato e con i sottotitoli in inglese. Il libro C’era una volta la città dei matti. Dal soggetto alla realizzazione è uscito nelle librerie italiane per l’editore meranese Edizioni Alphabeta Verlag, nella nuova Collana 180 – Archivio critico della salute mentale. La collana vuole riconoscere le tante cose che in questi anni sono avvenute per percorrere la vasta rete delle buone pratiche, incontrare la storia del cambiamento delle singole persone e raccontare le straordinarie imprese sociali che si sono sviluppate intorno alla questione psichiatrica.