[recensione uscita su psychiatryonline.it]
Gli anni ’60-’70 sono il momento nel quale ha avuto inizio in Italia la lunga opera di deistituzionalizzazione nella quale la psichiatria italiana è ancora impegnata. E anche il momento nel quale molte questioni si sono presentante allora per la prima volta. Per questo credo che oggi ritornare a Basaglia, ritornare al passaggio ineludibile che quei due decenni costituiscono, sia uno strumento indispensabile per affrontare i problemi che quotidianamente si presentano ai nostri servizi.
La nuova edizione di Ci chiamavano matti. Voci dal manicomio (1968-1977) di Annamaria Bruzzone che Il saggiatore ripropone – dopo la prima edizione Einaudi del 1979 – in una nuova edizione curata da Marica Setaro e Silvia Calamai con l’aggiunta alle interviste realizzate dalla Bruzzone nell’Arezzo del 1977 dove era in corso il lavoro di Agostino Pirella, di quelle che la ricercatrice aveva precedentemente realizzato nel 1968 nella Gorizia di Franco Basaglia.
Comune a tutte le interviste è la valorizzazione della diversità dei percorsi biografici che, affondando spesso le proprie radici negli anni del fascismo, della guerra e della resistenza, potevano portare a trovarsi in manicomio in quegli anni ’60-’70. Il libro, perciò, non è solo una testimonianza dal punto di vista dei soggetti internati di quella fase fondamentale della psichiatria italiana nel decennio tra la pubblicazione de L’istituzione negata nel 1968 e la chiusura del manicomio con l’emanazione, dieci anni dopo, della Legge 180. È anche una testimonianza della storia dell’Italia.
Le interviste che Bruzzone realizza a Gorizia colgono una passaggio fondamentale di quella vicenda, il momento nel quale Basaglia sta per lasciare e si aprono gli ultimi quattro anni, riproposti recentemente al centro del dibattito da parte del volume Mi raccomando non sia troppo basagliano. La vittoriosa sconfitta del manicomio aperto di Gorizia pubblicato nel 2020 da Ernesto Venturini per Armando, che ho recensito per il sito del Forum Salute Mentale.
In molte delle interviste sono evidenti due temi. Il primo è quello della soddisfazione dei pazienti per quanto è stato realizzato dall’arrivo della nuova direzione, oggi raccontato nel volume Gorizia 1961. All’ombra dei ciliegi giapponesi di Antonio Slavich pubblicato da AlphaBetaVerlag nel 2018, ma colto qui sull’altro versante, quello appunto di coloro che, nell’ospedale psichiatrico tradizionale, non avevano voce. Che cosa ha voluto dire cioè, nel vissuto dei più diretti interessati, quella straordinaria operazione di negazione istituzionale che li strappava alla passività restituendo loro materialmente, concretamente la vita e la prospettiva del ritorno a casa. Nelle parole di Maria C.: «L’ospedale è meglio adesso, con Basaglia. È cambiato ora nel mangiare, nel dormire; è tutto aperto; prima non lavoravo, ero chiusa, avevo saliva. Quel disturbo di sputare mi è passato col nuovo direttore (…). Le infermiere ora hanno più lavoro, perché devono stare più attente; mi pare però che siano più contente adesso, e anche la Madre [la suora]». O in quelle di Augusto M.: «C’è una differenza enorme tra l’ospedale prima e dopo l’attuale direttore. Prima la vita si svolgeva tra il soggiorno, il corridoio, la stanza da letto; ora possiamo uscire nel parco e ottenere permessi per andare a casa (…). C’erano gabbie, si usavano camicie di forza, e nel giardino si era legati agli alberi». O di Giuseppe B.: «Scriva che qui è sparito il paternalismo: quello che si fa, è per solidarietà umana, non per carità cristiana. Non subiamo umiliazioni., che possono anche far morire. Un tozzo di pane dato per carità non si può inghiottire».
Altrettanto palpabili però sono il timore, i dubbi per quanto potrebbe accadere in quel momento con la partenza di Basaglia da Gorizia; qualcuno è più ottimista, e si spinge a pensare che una volta restituite le chiavi della loro esistenza ai malati, queste non potranno più essere tolte qualunque cosa possa accadere. Altri hanno un vissuto più pessimista della situazione e temono che di fronte a nuovi medici e a una nuova direzione ispirati alle vecchie logiche del manicomio, poco potranno fare infermieri e internati; e il rischio di un ritorno indietro è quindi in quel momento concreto. Dice così Valburga C.: «Se Basaglia andasse via, sarebbe un dispiacere enorme. Se mettessero di nuovo i recinti, si cadrebbe nella più grande disperazione. Ma non credo che avvenga. Le autorità dovrebbero essere d’accordo con Basaglia, ma noi malati non potremmo far niente (…); uno che è qui non può lottare, è già stanco di lottare». E Maria C.: «Non saremo mai più chiusi. Guai. Speriamo che non ci capiti. Non so cosa potremmo fare se un altro direttore volesse chiudere; potremmo dire tutte che non si deve chiudere». E Augusto M.: « Se Basaglia andasse via, sarebbero dolori. Rimarrebbero però altri medici di questi. Può darsi che qualche medico sia meno coraggioso del nostro direttore, che è molto coraggioso, ma non penso che qui si possa tornare indietro. I malati farebbero reazioni e si ribellerebbero, anche con la forza; con tutti i mezzi, con infermieri e medici. Se l’ammalato si ribella, però, i medici possono chiamare la polizia, e alla fine 1’avrebbero vinta loro. Io lavoro al bar se sto bene; vedo che, se un malato trova qualcosa che non fa, fa reazione; quindi reagirebbero ancora di più se si volesse chiudere l’ospedale. Ma per organizzarsi tra i malati ci vuole un capo, un signor capo, mentre qui hanno solo l’istruzione elementare; sarebbe impossibile vincerla. È una realtà». O Oreste M.: «Se Basaglia andasse via, tutti protesterebbero e vorrebbero tenere aperto l’ospedale. Batteremmo i medici. Non sono i più forti, non hanno autorità, hanno paura. L’ospedale non si può chiudere. Non credo che potrebbe tornare un direttore come Canor a chiudere; ora è aperto e lasciano aperto. Non credo che si possa trovare un direttore tanto testone da chiudere; sarà intelligente da capire. I malati potrebbero protestare e nient’altro. Gli infermieri non vorrebbero chiudere l’ospedale, perché hanno meno lavoro ora: non occorre più far la guardia. I malati sarebbero aiutati dagli infermieri. Gli infermieri non chiuderebbero di nuovo i malati nelle celle. Io protesterei. Se nessuno mi ascoltasse, mi adatterei».
Sono diverse le voci che Bruzzone raccoglie dieci anni dopo, nell’estate del ’77, ad Arezzo. Qui la deistituzionalizzazione è colta dai malati nella pienezza del suo svolgersi, e stride il contrasto tra il “prima”, rappresentato dall’ospedale psichiatrico degli anni ’50 e ’60, e il “dopo”, che si è aperto ad Arezzo con l’arrivo dei nuovi medici, il direttore Agostino Pirella in primo luogo, e con lui i giovani medici del nuovo corso, Giampaolo Guelfi e Cesare Bondioli tra gli altri. Ricordo che quando lessi queste interviste nell’edizione Einaudi quasi quarant’anni fa, una cosa mi impressionò particolarmente e fu la descrizione dell’”alga”, della quale allora non avevo mai sentito parlare e che qui fa la sua comparsa in almeno cinque testimonianze. La follia chiusa in una cella e lasciata lì, nuda; rinchiusa e abbandonata a se stessa. Di nuovo, come a Gorizia le interviste raccontano storie di persone arrivate a un destino comune che hanno intercettato in modo diverso la storia dell’Italia di quegli anni; poi per tutti l’ospedale psichiatrico, con il clima violento del reparto delle “inquiete” e poi via via la riforma, le assemblee e adesso la prospettiva della città, con le difficoltà di sostenersi economicamente e di essere accettati da “quelli di fuori”.
Il desiderio e i timori, insomma, di uscire dopo anni dall’ospedale e affrontare la povertà, la solitudine che la città spesso riserva a chi è escluso.
Tra tante voci, che vale la pena di ritornare ad ascoltare con la lettura completa del libro, mi ha colpito in particolare la lucidità con la quale Lucio coglie uno dei nodi fondamentali della psichiatria di ogni tempo: l’alternativa tra chiudere e aprire: «Uno dei motivi principali per cui i dottori tengono dentro i malati è la paura, perché se viene un malato in crisi, va bene?, quando lo fanno uscire lo devono fare uscire con l’assicurazione che é guarito e che la crisi non ci sarà: e se, putacaso, gli riviene la crisi oppure se anche combina qualche cosa, insomma, perché può anche tirare un piatto in testa a qualcuno, eh la colpa è del dottore, va bene? E allora va cosi, che quando entrano qui é l’interesse del dottore farli stare qui, farli stare qui in modo che finché li cura il dottore, sta sempre a posto; se invece li fa uscire, corre rischi, e tra lo stare a posto e il correre rischi gli conviene lo stare a posto. È per questo che gli ospedali s’affollano eccetera, ha capito? Perché una vera sicurezza, il dottore, che una volta uscito l’ammalato non gli prende più niente, una volta che è rimesso in quell’ambiente familiare, è difficile che ce l’abbia, va bene? (…). Perciò per farli uscire ci vuole il coraggio, ci vuole praticamente coraggio perché una garanzia proprio che un malato di mente è guarito, e come fanno?, ha voglia a studiar la mente, non ce l’hanno mai, va bene? E perciò ci vuole il coraggio di sdrammatizzare la questione, dire: “Questo non é pericoloso per sé e per gli altri e… insomma, anche se ha qualche crisi, insomma, pazienza, non succede niente, va bene?”. Ci vuole un coraggio di questo genere. “O se succede è una cosa come succede anche a quelli di fuori…” (…). E farli uscire è un rischio, capito?». Sì, capito!