La scomparsa di Sergio Zavoli ingenera un senso di smarrimento in chi l’ha conosciuto. Ne discende il senso di una perdita aggravata da un rilievo che è spia della sua statura di spettatore di un secolo di storia italiana.
Il fatto è che non sarebbe agevole scegliere la fonte primaria del debito di cultura che i lettori e gli spettatori italiani hanno contratto nei suoi riguardi. Le serate incollati a capire a fondo e a rivivere la lunga e aspra stagione del terrorismo hanno segnato molti ragazzi della mia generazione. E resta indelebile nella memoria la lunga e insistita intervista a Giusva Fioravanti, con quel finale crudo e sconvolgente.
Eppure, qualcosa che ho sempre amato più del resto c’è. Nasce con quell’auto che varca le mura dell’ospedale psichiatrico di Gorizia e svela la realtà di chi vive l’esperienza del disturbo mentale, a milioni di italiani. I Giardini di Abele sarebbero di lì in poi rimasti fluttuanti nella coscienza di un popolo. Zavoli si era schierato, mobilitando la forza emotiva, lo sdegno ma anche la curiosità del nuovo che molti avrebbero trattenuto dentro di sé per anni.
Nell’intervista a Franco Basaglia, nelle domande rivolte agli internati e nelle stesse parole di Sergio Zavoli c’era un piccolo seme della liberazione che sarebbe poi seguita. Per quanto potesse sembrare transitoria e puntiforme l’alleanza di Zavoli con la causa della liberazione dal manicomio e con il compito umanitario di trasformare la psichiatria in tutela della salute mentale, gli anni ne avrebbero rivelato un persistente impegno per la causa di chi soffre psichicamente.
Eccolo, allora assecondare con un sorriso dolce una proposta che, nel 2014, gli prospettammo con gioia e con la minima titubanza che sempre l’autore di un libro reca con sé. Quando gli domandammo di scrivere l’introduzione de Il pensiero lungo. Franco Basaglia e la Costituzione, accettò subito.
Il suo testo non si fece attendere e a rileggerlo, ancora adesso, è un salutare tuffo in un impegno che si rivela costante in Zavoli. Un filo che lega i suoi anni splendenti in cui diffonde e sparge un senso inedito di televisione sociale di una potenza abbagliante e l’ultima parte della sua vita, quando intorno alla sua persona si scorge l’aura del mito e dell’ammirazione partecipata. C’è un’immagine e una frase che, secondo noi, spiegano il senso di Sergio Zavoli per la battaglia campale in favore della libertà di chi soffre del disturbo mentale. È quella in cui Zavoli intervista Franco Basaglia e ne cattura il discorso in una battuta fulminante che rimarrà tra le più intense dei Giardini di Abele. Dice Basaglia che la posizione dell’internato si riassume in un proverbio calabrese, terribile nella sua efficacia: chi non ha, non è.
È il segno dello stigma imposto dall’agiatezza contro la povertà, la discriminazione alimentata da uno squilibrio di potere. Un decisivo tornante del pensiero basagliano da cui si snoda la comprensione della malattia mentale come questione sociale, la necessità stringente dell’integrazione contro l’esclusione e la segregazione. Zavoli coglie tutto questo e lo porta nei tinelli di un’Italia che spesso non sa, non può immaginare la condizione dei suoi “fratelli” internati, allontanati allo sguardo.
Uno potrebbe pensare che quest’intuizione di Zavoli resti isolata in quegli anni, nella cronaca di una grande ed indimenticabile avventura di cui Gorizia, poi Parma, Trieste e la riforma nazionale furono le tappe sofferte di un’irripetibile riammissione alla dignità per tante persone prima di allora scartate e gettate via.
E invece non era così.
Non fu fugace e isolata la passione di Sergio Zavoli per una delle grandi questioni agitate nel secondo Novecento italiano, quella del trattamento del folle e dell’umanizzazione del suo mondo e del suo orizzonte di vita. Lo dimostra la prefazione che qui riproponiamo. È scritta nel 2014 e vide Zavoli caparbio e brillante nell’aiutare a far girare e leggere il libro. Assistemmo a questo suo peregrinare a Parma per presentare il libro e poi lo si vide apparire in videoconferenza, a Trieste, in una serata indimenticabile, cui lui si prestò pur afflitto dalla febbre.
Oggi che non c’è più, riteniamo di ricordarlo, riproponendo qui il testo fulminante e colto di quella sua struggente prefazione.
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