Non mi veniva facile tradurre in diagnosi le traversate nel deserto, la prigionia nei lager libici, lo sfruttamento schiavista, la fame, le torture, la disumana ingiustizia che si nascondeva in ogni storia
Questo racconto è a due voci. La prima è di Donatella Albini, medica di bordo, e la seconda di Carla Ferrari Aggradi. E’ del novembre 2019, due mesi dopo il salvataggio della Mare Jonio, richiesto dall’ordine dei medici di Brescia. E’ un racconto visto da occhi di due mediche in due momenti molto diversi di un salvataggio.
Perché proporre questo scritto oggi, dopo più di tre anni? Perché le storie di ieri sono ancora quelle dell’oggi. Perché, come dice Carla, bisogna andare a vedere… Serve, servirebbe a tutti noi, per capire che non nasce dal nulla la sofferenza psichica di sempre più migranti. Nasce fra l’altro da incubi e traumi ai quali le nostre politiche “securitarie” sanno ben contribuire. Sofferenza di cui siamo chiamati a farci carico, perché “dalla Mare Jonio non si scende mai”.
Due anni fa, mentre la Mare Jonio era in mare, stava cadendo il governo giallo-verde e il colpo di coda del ministero di Salvini ci mostrò tutta la disumanità possibile: mai prima e mai dopo sbarco di migranti e volontari è stato effettuato in mare di notte, a poche miglia da Lampedusa. A una nave battente bandiera italiana, anche senza migranti a bordo (già sbarcati), è stato impedito l’attracco a un porto italiano e, da una motovedetta della finanza, contraddicendo il permesso di attracco della Guardia Costiera, è stato comunicato il fermo amministrativo e il comandante e il capo missione sono stati accusati di traffico di clandestini.
Oggi abbiamo gli sbarchi selettivi, i porti nel centro e nord d’Italia, i salvataggi “unici” e c’è stato Cutro… e così il Mediterraneo è tornato vuoto: i crimini di pace continuano…
Imbarcazione alla deriva, 400 persone, mercantili nelle vicinanze ma nessuno soccorre: Grecia Italia Malta dove siete? Europa dove sei?
Donatella
“Arriva un momento nella vita in cui bisogna assumere una posizione, non perché popolare o conveniente, ma semplicemente perché è giusta”, diceva Martin Luther King.
Noi siamo mediche, il nostro lavoro è avere a che fare ogni giorno con le esistenze di donne e uomini e proteggerle, attraverso i nostri saperi.
Quando la piattaforma civile Mediterranea ci ha chiesto di salire sulla Mare Jonio e di partire per andare nel Mediterraneo a salvare chi fugge abbiamo capito che era arrivato anche per noi il momento di fare la scelta giusta.
Per prima sono partita io, Donatella, poco dopo ferragosto, ho raggiunto Licata, dove la Mare Jonio, un rimorchiatore d’altura, era fermo da mesi, dopo un salvataggio e in quei giorni era stato dissequestrato.
Dopo la partenza siamo stati giorni e notti in mare aperto, un mare deserto, senza una nave, un peschereccio, nulla, accecante di giorno cupo di notte, a scrutare costantemente, a turni di un’ora, con i binocoli nelle ore di luce, con gli occhi nelle ore di buio, quella infinita distesa d’acqua per vedere di intercettare imbarcazioni. Perché questo è il lavoro delle Ong e nostro, pattugliare, percorrere quel mare deserto a 30 miglia dalle coste libiche per vedere se c’è bisogno di soccorso.
Dopo 6 giorni di navigazione senza sosta in quel tratto di mare, poco prima dell’alba il 28 agosto abbiamo visto una piccolissima luce in lontananza, ci siamo avvicinati, era un gommone .
Erano 98, 26 donne, 5 in gravidanza, 2 presso il termine, 22 bambini, 6 tra i 5 mesi e l’anno, il più grande aveva 6 anni, 13 minori non accompagnati, 1 aveva 9 anni gli altri erano giovani maschi adulti.
Li abbiamo accolti, nel container posizionato a prua, all’interno del quale avevamo ricavato un piccolissimo spazio schermato da tende, come luogo riservato per le visite, spogliati dei vestiti impregnati di acqua di mare, benzina (il motore del gommone era rotto), feci e urine, li ho visitati una prima volta rapidamente, per capire se c’erano situazioni di emergenza, abbiamo dato loro servizi igienici e docce (1 bagno e 1 doccia per donne e bambini e 1 per gli uomini) abbiamo dato loro da mangiare e da bere, preparati i biberon e poi li ho rivisti tutti e tutte e ho raccolto le loro storie.
E’ stata una lunga giornata, attraversata da emozioni profonde: quegli occhi bassi, cupi, senza speranza, quei corpi segnati dalle torture e dalle violenze, delle 5 donne incinte 4 erano conseguenza di stupri di gruppo nei centri di detenzione libici, quei racconti, prima monotoni poi accompagnati da lacrime senza pianto, poi dal pianto e dalla ricerca di un contatto, di un abbraccio mi hanno attraversato come lame, ho capito che la verità è tagliente, taglia in 2 , in un prima e un dopo di quella verità e poi che ci sono donne e uomini con i loro bambini, loro, i bambini che erano ancora capaci di sorridere, che affrontano la morte , che in quel grande mare deserto è lì, incombe, perché ciò che vivono è peggio della morte.
Non ci hanno fatto entrare in porto a Lampedusa, nonostante le relazioni sul soccorso e sulle condizioni di salute dei naufraghi, dopo quasi 48 ore hanno fatto sbarcare donne, bambini, minori senza nessuno e 1 caso clinico importante, col mare a forza 4 dalla Mare Jonio alla barca della guardia costiera, guardate il video, già uscito sui tg nazionali, lì confesso che ho pianto e con me gli altri volontari, perché fatico a capire tanto accanimento e tanta violenza verso chi chiede il diritto di fuggire da povertà, fame, guerra, violenza.
Quelle persone a me, a ognuno di noi hanno restituito l’umanità, quella che dà senso ai gesti del mio, del nostro agire di ogni giorno.
Ne sono rimasti a bordo poco più di una trentina, stupiti dal fatto di rimanere, senza capirne il perché, addolorati.
Siamo stati loro vicini, non li abbiamo mai lasciati soli, li ho visitati, per richieste continue di dolori, che erano più dolori dell’anima .
Abbiamo sollecitato, forti del parere anche di un medico della marina militare, salito a bordo, lo sbarco presso il ministero dell’interno, nulla per 48 ore, poi un nuovo diniego.
Le persone erano segnate da una stanchezza senza fine, abbiamo pensato dovesse a questo punto salire una psichiatra, per una ulteriore relazione al ministero suffragata da uno specialista, ed è salita Carla .
Carla
Sono salita su quella che è stata chiamata “la nave dei bambini”: ne sono stati salvati 98, ma non li ho incontrati tutti perché chi stava male era già stato fatto sbarcare.
Racconto di quei naufraghi, non di altri. C’è chi pensa che il mondo ruoti intorno al proprio giardino e separa un noi da un loro e loro sono indistinti: i poveri, i matti, i migranti… invece ci si deve fermare sulla storia di ognuno. Certo ci sono gli studi sociologici dei grandi movimenti di masse, ma noi abbiamo la responsabilità di cercare ogni singolo nome, ogni singola storia. 34 giovani vite già cariche di sofferenza ma ancora con la voglia di arrivare…
Chiamata d’urgenza il venerdì per il sabato: apprenderò una volta atterrata a Lampedusa il vero motivo della mia presenza. Qualsiasi cosa mi avessero chiesto di fare l’avrei fatta, questo era quello che mi frullava per la testa ed ero anche contenta di andare a quell’incontro, a vedere con i miei occhi, a sentire con il mio cuore… sono sempre stata così: i racconti mi vanno bene ma poi voglio andare a vedere. Quindi mi andava bene di essere lì e di poter fare qualcosa, di poter dare una mano, quello che sapevo fare poteva servire.
Seguivo fin dall’inizio il nuovo viaggio della Mare Jonio, faccio parte dell’equipaggio di terra di Mediterranea fin dal suo nascere e condivido le motivazioni umane e politiche che hanno fatto sì che Mediterranea nascesse: “perché nessuno possa dire domani che non sapeva”, “nessuno si salva da solo”, “prima si salva e poi si discute”. E di più: la Mare Jonio nel suo essere la prima nave battente bandiera italiana voleva svelare all’opinione pubblica i meccanismi perversi che ostacolavano gli sbarchi di migranti.
Sono salita. Come sono entrata la prima volta in manicomio. E non mi sbagliavo… Non conoscevo nessuno e sul molo, in attesa del motoscafo che ci avrebbe portato sulla MJ, ho sentito Vito (Vito D’Anza) per un conforto.
Il team legale di Mediterranea riteneva necessaria, come ultima chance allo sblocco della situazione e, quindi, allo sbarco, una relazione tecnica – sottolineo tecnica – sulla condizione psicopatologica dei 34 migranti sulla Mare Jonio ormai da troppo tempo.
E così, il sabato pomeriggio, sono a bordo per vedere la situazione generale e per ascoltare il racconto di alcune situazioni particolari che Donatella mi segnala; nella relazione scriverò che c’era un’aria di morte… verrò a conoscenza poi del naufragio avvenuto subito dopo la partenza del gommone.
Ridiscendo e, nella notte, insieme ad Alessandra, la portavoce di Mediterranea, scriviamo la relazione da mandare ai tre Ministeri (Interni, Infrastrutture, Sanità) che avevano bloccato la barca a 13 miglia da Lampedusa, relazione che sarebbe dovuta arrivare sulle loro scrivanie per il lunedì mattina, dopo essere passata al vaglio del team legale.
La relazione, incentrata sulle osservazioni, sui colloqui, sui racconti della medica di bordo, degli altri volontari, sulle stringatissime ma efficaci relazioni di Stefano e Donatella su ogni ospite, è il frutto di uno sforzo emotivo enorme: non mi veniva facile tradurre in diagnosi le traversate nel deserto, la prigionia nei lager libici, lo sfruttamento schiavista, la fame, le torture, la disumana ingiustizia che si nascondeva in ogni storia.
Noi e loro insieme sulla stessa barca, e non solo metaforicamente… come allora, noi e loro chiusi fra le mura del Manicomio, oggi in mezzo al mare, fermi, dimenticati da Dio e dagli uomini: ho preso dal mio zaino tutto il mio armamentario di conoscenza ed esperienza che avevo imparato a utilizzare in ogni situazione in cui il prendersi cura cozza contro “ la legge”, va in collisione con il potere.
Di per sé, poi, la diagnosi è molto semplice. Grave condizione post – traumatica caratterizzata da depressione, scissione, somatizzazioni, insonnia, abulia, apatia, rabbia…ecc. ecc.ecc.
Ferma, là a 13 miglia dalle coste italiane, penso al non senso che stiamo vivendo, all’assurdità della situazione, alla violenza dell’odio, alle esigenze elettorali che ci hanno bloccati lì, nave italiana… in mezzo al mare… perché? Lampedusa è lontana, si intravede di notte, quando acqua e cielo sono neri.
Sapremo al nostro arrivo, che, mentre non facevano sbarcare 34 giovani vite perché salvati da una ONG, a Lampedusa sono sbarcate, senza clamore, 400 persone con barchini di legno provenienti dalla Tunisia…
Il messaggio era chiaro: voi siete dei criminali perché trasportate “clandestini”. Non naufraghi… il paradosso è che se un naufrago mette piede sul territorio italiano automaticamente diventa un delinquente, non uno che sta annegando e va salvato, come dice la legge del Mare!
La domenica mattina ritorno sulla Mare Jonio, Donatella scende per un meritato riposo dopo i lunghi e impegnativi giorni sulla barca… sì, una barca non una nave da crociera, un vecchio rimorchiatore d’altura che ospita 22 persone fra equipaggio e volontari e un container a poppa che ha dato rifugio ai 98 naufraghi. Chiediamo lo sbarco di una donna in grave stato confusionale e dissociativo e di due giovani uomini con diagnosi organiche; lo sbarco avviene sempre sotto lo sguardo ed i pensieri perplessi di chi, invece, non può sbarcare e non capisce perché… cerchiamo di spiegarlo ma è molto difficile rendere plausibili le ragioni politico-amministrative del nostro agire a chi ci parla, a chi mi parla della paura/ terrore di essere riportato in Libia: “ se siamo fermi qui è perché volete/ dovete riportarci in Libia”. E la Libia è tortura, schiavitù, stupro, annientamento. Paura, delusione, frustrazione popolano la barca.
Intanto a terra mi si accusa di aver scritto il falso… ma io sono certa che le mie diagnosi sono inconfutabili, perché non è difficile diagnosticare, complicata è stata la banalizzazione, la riduzione bidimensionale del dolore e dell’ingiustizia, insopportabile il far scomparire le vite. Sono confortata e sostenuta dai giornalisti presenti sulla barca che immediatamente rispondono alle infamie. Sappiamo di essere controcorrente ma siamo tutti e tutte convinti/e di essere dalla parte del giusto nel tentativo di non far naufragare la nostra umanità insieme ai nostri ospiti.
Si pranza insieme e il pomeriggio passa fra domande di tipo sanitario e voglia di parlare: sono richieste di attenzione, di vicinanza; qualcuno resta in silenzio, un po’ in disparte ma il loro corpo parla comunque, le ferite ancora rosa sulla pelle nera ci raccontano di qualcosa di recente.
Ma queste/i rimasti sono giovani e forti. Vogliono arrivare, vogliono toccare terra.
Intanto alcune giovani volontarie piangono: lo stress è stato tanto, non sempre tutto è andato in modo idilliaco. Qualcuno insegna qualche parola in italiano, altri scherzano, altri guardano il mare e il loro sguardo sembra andare alla ricerca di risposte…
La domenica sera arriva il temporale con grande preoccupazione nostra e di tutte/i le naufraghe/i ; Stefano ed io decidiamo di inoltrare un’altra richiesta di sbarco per l’aggravarsi della situazione traumatica sulla barca, traumatica in sé visto che i naufraghi non conoscono il mare, traumatica per il riattivarsi della sofferenza e il terrore provati nella prima notte di navigazione sul gommone quando sono annegati 6/9 compagni di viaggio. Non sapremo mai se 6 o 9. Ci fanno attendere fino alle 2 di notte per poi comunicarci che potevamo restare in mare visto che il temporale era passato e… non eravamo annegati, aggiungo io.
La mattina di lunedì, mentre il capitano della nave a suo rischio e pericolo ( il capitano è un marinaio regolarmente assunto da Mediterranea e se avesse forzato avrebbe perso il posto di lavoro!) propone al capo missione di forzare il blocco dato che è previsto maltempo e, sottolinea, il suo primo compito è portare in salvo le persone che si trovano sulla sua barca… Bene, il lunedì mattina, mentre facciamo colazione tutte/i insieme, due ospiti mi comunicano che dal giorno prima hanno iniziato lo sciopero della fame e della sete: sono un po’ sorpresa, ma capisco la loro disperazione; cerco di convincerli che in mezzo al mare non è una cosa buona per loro, che la loro salute potrebbe averne dei danni dato il caldo e l’arsura, che sbarcheremo… con me ci sono anche Cecilia e Stefano, ma non c’è nulla da fare, sono decisi, non hanno nulla da perdere! Decidiamo, così, che si deve fare l’ennesima richiesta di sbarco: facendo riferimento alla relazione scritta in precedenza che nel frattempo doveva essere arrivata sulle giuste scrivanie, portiamo alla conoscenza dei tre ministeri e della Guardia Costiera che la situazione potrebbe risultare incontrollabile “in un container privo di qualsiasi mezzo terapeutico ma, soprattutto, privo di spazi vitali dignitosi necessari a donne e uomini. Dentro un container non è che si può fare chissà che cosa, quindi abbiamo scritto, abbiamo scritto rimandando tutta la responsabilità a quelli che stavano dall’altra parte… “noi quello che potevamo fare l’abbiamo fatto adesso, se succede qualche cosa, la responsabilità è vostra”
Tre quarti d’ora dopo, arriva la comunicazione utile per lo sbarco.
E’ la felicità per tutte e tutti, naufraghi, volontari ed equipaggio baci, abbracci, lacrime… a loro la felicità di non essere tornati in Libia, a noi volontari la felicità annebbiata dal pensiero della loro sorte una volta sbarcati. Ce la faranno a realizzare il loro sogno? Il sogno per cui sono stati in grado di resistere a torture, sevizie, prigionia, schiavitù, degrado? Riusciremo ad aiutarli?
Che ne sarà dei due giovani che hanno messo in campo lo sciopero della fame? Del loro coraggio nel rivendicare il loro diritto alla vita? Della donna che a 30 anni veniva chiamata “vecchia”, con i suoi dolori fisici “inventati” ma con un dolore nell’anima infinito: rimasta vedova con tre figli, cacciata dalla casa del marito, ha vagato per tre anni prima di giungere in Libia tentando la traversata…..che ne sarà di lei?
Che ne sarà del ragazzo padre di due figli che non riusciva a dormire la notte perché erano mesi che aveva perso i contatti? E lui era partito per assicurare a loro il pane
cosa ne sarà del ragazzino con il peso sul cuore? Il peso proprio lì, dove aveva poggiato il piede il compagno di viaggio, caduto in acqua con lui la prima notte della traversata e che lui, per non annegare aveva spostato…lui si era salvato, il suo compagno era morto annegato.
Speranza, Sogno, coraggio ci portano in dono, a noi che sembra abbiamo dimenticato la capacità di sognare e di desiderare.
Un anno dopo, dopo il lockdown pandemico, scriverò: il nostro compito a terra ha così due facce:
– raccogliere i loro sogni e ridisegnarli come diritti, diritti che sono anche i nostri e che andiamo perdendo e non solo a causa della pandemia;
– accogliere il loro dolore come parte di noi. L’esperienza pandemica che stiamo vivendo ci insegna, dovrebbe insegnarci che solo insieme ci si salva.
La Mare Jonio, nonostante tutti gli sforzi di rispettare le regole, è stata fatta approdare di notte, sequestrata e lo è ancora, in attesa di un possibile sblocco (conflitto fra Guardia Costiera e Ministero degli Interni) e noi volontari e volontarie ci stiamo dando da fare in terra, aspettando un nuovo imbarco… perché dalla Mare Jonio non si scende mai!