21 marzo, Giornata mondiale della sindrome di Down
Maggio 2000, traghetto per la Corsica. Mi ritrovo a Livorno con i miei amici più cari. Ogni anno andiamo insieme a pesca da qualche parte. Sul ponte della nave all’improvviso una frotta di ragazzini festosi, chiassosi, eccitati. Un’intera scolaresca.
Tutti con giacche a vento e zainetti coloratissimi. Qualcosa attrae la mia attenzione. Guardo meglio, non credo ai miei occhi: molti di loro sono «mongolini».
Vincenzo ha vent’anni ed è nato con un cromosoma «in più» (la trisomia del cromosoma 21). Ha cioè la sindrome di Down, è un «mongolino». Abitiamo nello stesso palazzo. Lo incontro mentre va allo stadio. Parliamo un po’ della Triestina. Ha il diploma di terza media di cui va fiero, frequenta l’oratorio della parrocchia e lavora a mezzo tempo presso una cooperativa sociale.
A Salerno, sessant’anni fa, quando ero bambino, avevo conosciuto Tonino. In realtà non l’ho mai conosciuto veramente.
Era suo fratello a essere mio amico e con lui giocavo nel cortile della casa dei ferrovieri. I nostri genitori erano ferrovieri.
Vedevo raramente Tonino, non usciva mai. Non andava a scuola, non giocava mai con noi. Qualche volta ci guardava dalla finestra. Noi bambini cercavamo di scoprire in tutti i modi il mistero che nascondeva quella casa. Più tardi ho saputo: anche Tonino era nato con il cromosoma in più.
Pablo Pineda è un giovane spagnolo.
Nella primavera del 2010 si è laureato in psicopedagogia all’università di Malaga. Ha discusso la sua tesi e la settimana dopo, al termine del tirocinio, ha tenuto una lezione in una scuola elementare. Di questo ne hanno parlato tutti i giornali. Pablo è stato intervistato, ha parlato di stigma e di difficoltà di inserimento nella scuola. La sua immagine ha girato tutte le televisioni e ha attivato interesse e curiosità sulla rete. Eppure si trattava solo di una laurea in Psicopedagogia.
Anche Pablo Pineda vive con un cromosoma in più.
Fino a tempi relativamente recenti, i ragazzi con sindrome di Down vivevano un’esistenza confinata all’ambiente familiare o, come più spesso accadeva, relegati in istituti.
Perché la loro malattia, determinata senza alcun dubbio da un fattore genetico – il modello biologico…! – veniva considerata come una condizione per la quale non c’era alcun rimedio. E in una situazione di vita povera di stimoli e di sollecitazioni esterne il ritardo mentale «totalizzava» le persone, risultando l’unico aspetto rilevante del loro modo di stare al mondo. E una naturale conseguenza che essi diventassero sempre più inabili e totalmente isolati dalla vita sociale e di relazione. Queste persone diventavano irrimediabilmente dei «ritardati».
Oggi la situazione è radicalmente cambiata. Grazie alla rivalutazione di altri fattori – i modelli psicologico e sociale! – e, di conseguenza, alle leggi per l’inserimento scolastico e lavorativo dei portatori di handicap, al sostegno alle famiglie, alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica e a una maggior accettazione sociale del problema, non è affatto raro vedere persone con sindrome di Down condurre un’esistenza appagante e mantenere relazioni sociali adeguate. I ragazzi e le ragazze col «cromosoma in più» sono ormai inseriti nel mondo scolastico o lavorativo, partecipano alla vita sociale e possono aspirare a una qualità di vita pari a quella di ogni altro essere umano.
( da “ Fuori come va? Famiglie e persone con schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi – di Peppe Dell’Acqua – ed. Feltrinelli 2013