Il Centro di salute mentale che prefigura il disegno di legge (vedi il testo). oltre che essere un luogo bello, accogliente, confortevole deve coltivare la vocazione a essere punto di passaggio, confine aperto, attraversamento. Disporsi instancabilmente tra lo star bene e lo star male, tra la normalità e la anormalità, tra il regolare e l’irregolare, tra il singolo e il gruppo, tra le relazioni plurali e la riflessione singolare, tra gli spazi dell’ozio e gli spazi dell’attività.
Un luogo dove le dichiarate intenzioni terapeutiche e le scelte strutturali, costruttive, urbanistiche garantiscano le persone a essere ospiti senza rinunciare alla possibilità di appropriarsi del luogo. Un luogo che contrasta la sottomissione e l’assoggettamento. Un luogo dove le persone, senza la paura del confine che si chiude alle loro spalle, possono entrare per dire il proprio male, farlo sentire, condividerlo. Un confine aperto che garantisce sempre il ritorno.
Tutti quelli che vorranno possono scrivere al sito del forum salute mentale per pubblicare riflessioni, analisi, proposte anche a commento del ddl che inizia il suo cammino al senato (vedi il testo).
[Ci proponiamo con questi interventi minimi, che chiamiamo ‘cantiere salute mentale’, di tentare di riattivare interesse all’interno di tutta quella comunità di persone che siamo e che in un modo o nell’altro si muovono intorno alla ‘questione psichiatrica’, nel contrasto alle persistenti istituzioni totali (e sempre rinascenti), per ampliare margini di libertà e diritti, per promuovere emancipazione e possibilità.]
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Spesso ci chiediamo o ci viene richiesto di rilevare le criticità dei servizi psichiatrici in Italia, in particolare nei CSM e SPDC, così è successo dopo la lettura di questo contributo al Cantiere della Salute Mentale.
Ebbene di criticità, a ben vedere, ce ne sono di grandi e di piccole: chi vorrebbe migliorare lo spazio architettonico, l’arredamento, la rapidità dei servizi, l’ascolto, snellire le formalità, ecc., alcune di queste cose possono anche sussistere ma secondo il nostro particolare punto di vista queste carenze se ci sono non sono che complementari alle due macroscopiche criticità, che se opportunamente valutate ed affrontate con coraggio e determinazione non potranno che far crescere sia gli operatori che gli utilizzatori dei servizi: i primi da un punto di vista umano, i secondi nel loro empowerment.
Le due criticità in questione rappresentano il fulcro di un rinnovamento che potrà chiamarsi veramente tale. Realizzarlo non costa nulla, non richiede ambienti più lussuosi o aumento di personale. Questo rinnovamento ha un costo psicologico e richiede un impegno emotivo ed intellettivo di empatia e partecipazione nel risolvere i problemi di persone spesso svantaggiate socialmente che per i problemi più vari si trovano anche ad affrontare un disagio mentale.
Quali dunque queste criticità:
1) È essenziale creare nei servizi un ambiente culturale e fisico che non sia psicologicamente e fisicamente oppressivo, l’autoritarismo fine a se steso e come filosofia non porta frutti, specie per chi ha problemi di salute mentale e diremmo noi anche sociale. Un clima veramente democratico è il terreno ideale sul quale può germogliare la rinascita psicologica, fisica e sociale di persone sensibili, spesso paranoiche o caratterialmente più vulnerabili, nell’affrontare i problemi più aspri della vita , oltretutto con bassi o bassissimi livelli di autostima.
2) Sovente il medico o gli operatori in genere che seguono gli utilizzatori dei servizi, non credono, nel loro intimo, che possa esserci un miglioramento o magari una guarigione: e chi se non loro dovrebbero per primi farlo? Come può una persona considerata inguaribile a vita da chi la cura iniziare un serio percorso di recovery? Se non le vengono trasmesse speranza, fiducia e possibilità non farà altro che cronicizzarsi, anche se il suo “caso” non è di quelli gravi. Tenderà a non far nulla perché tutto inutile, diventerà sempre più apatico e si rinchiuderà in se fuggendo dalla società che lo ha escluso, pensando sempre di più solo e comunque alla sua patologia da cui non potrà uscire o migliorare.
Per tutto ciò detto non bisogna chiudere le porte alla guarigione o al miglioramento, bisogna aprirle con coraggio alla speranza, all’impegno, alla vita: la mente può fare a volte quello che molte terapie non riescono. Siamo coscienti che non tutti i problemi potranno risolversi ma bisogna tentare, perlomeno puntare ad un progresso perché tarpare le ali indiscriminatamente a tutti i portatori di disagio mentale non è certamente d’aiuto a chi per risorse proprie o per minore gravità potrebbe farcela, ed esempi ce ne sono abbastanza.
L’ articolo ci ha incoraggiato e confermato a portare avanti le pratiche che aspirano a far sì che il nostro servizio, che è un Centro Diurno e non un CSM, si confermi come luogo buono, aperto, accogliente, senza confini, senza serrature (come ci ha suggerito Ettore un nostro fruitore esterno), in cui le persone che lo frequentano possano sentirlo loro, possano utilizzarlo nel momento che ne hanno bisogno o nel momento in cui sentono di poter dare un sostegno a chi ne ha bisogno.
Il nostro Centro Diurno si modella sui costrutti dell’empowerment e della Recovery ed ha come obiettivo la ripresa delle persone, da quello che la sofferenza mentale li ha costretti , in un lasso di tempo che è specifico per ognuno. Quindi il Centro Diurno come luogo di passaggio, da cui si entra e si esce, ognuno con i suoi tempi e , se necessario, anche più volte nella vita. Per questo nel CD si formalizzano le dimissioni con una relazione, con un’auto valutazione della propria condizione di recovery, ci si congeda dal gruppo con un rito di passaggio e di saluto; tutto questo non è un addio ma la conferma di un percorso che si è compiuto. In diversi casi tutto questo si trasforma in un arrivederci: persone che hanno concluso un programma ritornano per dare il loro contributo in qualità di utenti esperti. Oppure un luogo di transito dove le persone timorose dello stigma possono avvicinarsi con cautela e sentire se il luogo è sufficientemente buono per loro. O ancora persone bloccate nella loro volizione e nei loro desideri e questo può rappresentare il luogo dove coltivare la motivazione al cambiamento. Per tutti loro abbiamo coniato il termine fruitori esterni: per chi passa, per chi non ce la fa o per chi ce l’ha fatta e vuole dare il suo contributo o per chi ha necessità di frequentare un gruppo che lo aiuti a proseguire nel personale processo di recovery.
“Da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni”…. scegliendo loro come, dove e quando e per quanto tempo, da un minuto a tutto il tempo di apertura del Centro Diurno.
Riteniamo importante, per l’evoluzione dei servizi, che gli spazi oltre ad essere belli, accoglienti e confortevoli devono essere a disposizione di tutti, senza confini, al di là dei ruoli. Per questo motivo nel nostro Centro Diurno non c’è la stanza dell’educatore o del responsabile, ogni spazio è connotato per la sua funzione : area dei colloqui, area dei gruppi, spazio ricreativo, area segreteria, stanza per la progettazione. I servizi igienici non sono suddivisi per ruoli ma per genere (non esistono bagni per gli operatori ma per le donne e per gli uomini).
Inoltre sentiamo che il linguaggio è espressione fondamentale del nostro paradigma: non riusciamo più ad utilizzare la parola paziente, ci mette in difficoltà la parola utente.
Tutti insieme ( operatori ed utilizzatori del servizio) andiamo cercando nuove parole per definirci, così in questo lavoro di ricerca attualmente abbiamo co-costruito l’acronimo C.E.C in quanto tutti siamo Costruttori – Esploratori – Collaboratori nella ricerca di percorsi di guarigione.
Questo documento nasce dalla mente e dal cuore di una collaborazione attiva tra i depositari del sapere tecnico e chi ha elaborato un sapere esperienziale dato dalla riflessione sulla propria sofferenza.
I C.E.C. del Vololibero di Albano Laziale