Che fine hanno fatto gli intellettuali? Il termine stesso sembra ormai vecchio, quasi estinto. Eppure, quando lamentiamo la crisi di un ceto politico all’altezza degli attuali problemi sociali e dunque capace di governare, ci appelliamo anche a quelle figure pubbliche di intellettuali di cui sentiamo la mancanza.
In realtà siamo preoccupati che stiano scomparendo dalla scena non gli intellettuali che dicono di sì ai dispositivi che oggi agiscono in modo più o meno visibile, i quali continuano a proliferare producendo vernici ideologiche anche silenziose, ma i portatori di un pensiero critico in grado di discutere, scalfire e possibilmente correggere, se non proprio trasformare, le rigidità e le microviolenze dei dispositivi stessi. Capaci, appunto, di esercitare un’effettiva azione politica.
Sembrano in via di estinzione i luoghi di formazione della coscienza critica a cominciare dalla stessa scuola pubblica, che in proposito non risulta certo una “buona” scuola: essa, nel suo insieme, dà l’impressione di arrancare nel tentativo di limitare il gap tra studio e lavoro e nei fatti produce un esercito di giovani scontenti ma anche disponibili al consenso purché si aprano per loro prospettive concrete di occupazione.
Propongo di adottare la parola “riluttante” per caratterizzare il tipo di intellettuale critico e autocritico che sta venendo a mancare e di cui avremmo, invece, un gran bisogno. Intendo una figura intellettuale che si collochi all’interno dei dispositivi di potere e vi svolga – per dir così – un lavoro ai fianchi denunciando le chiusure senza mai gettare la spugna: una condizione non facile ma sostenibile, che ritengo assolutamente necessaria nel grigiore che sta dominando, caratterizzato prevalentemente dalla rassegnazione e da un consenso quasi automatico. La voglia che prevale è quella di congedarsi, ritirarsi nella propria solitudine, tanto grande è il senso di frustrazione e di sfiducia. Uscire, magari anche scappar via il prima possibile da una condizione che pare ormai bloccata e comunque sterile.
Allora, l’intellettuale riluttante è quello che non accetta questo gioco di rassegnazione, che riesce a non cedere alle sirene neocapitalistiche che lo esortano a far da sé, e che decide che la propria battaglia è quella di stare nelle istituzioni, scomode e perfino orribili che siano, e lì resistere, opporsi, dire di no, “riluttare” anche al suo stesso ruolo e alle sue eventuali competenze privilegiate. Il che significa non piegarsi a troppi compromessi pur di vivere tranquilli facendo finta di non vedere le costrizioni e le rinunce etiche cui si viene sottoposti quotidianamente. C’è una bella differenza tra il diventare “imprenditori di se stessi”, come ci spinge a essere l’ideologia oggi prevalente, e assumere il proprio ruolo, qualunque sia, in una maniera radicalmente autocritica, senza illusioni vuote e accettando il rischio di mettersi davvero a repentaglio.
Una simile resistenza si può tentare ovunque, come insegnanti nella scuola, medici nelle strutture sanitarie, come amministratori locali e anche come politici, fino a quello spazio microfisico ma decisivo che è la famiglia con i suoi schemi parentali bloccati e la violenza sottile che spesso li attraversa. Insomma, agendo su una quantità di schemi irrigiditi che non possiamo negare ma ai quali potremmo opporre dei no e dei rifiuti, cosa che normalmente non facciamo per paura o a difesa di una condizione supposta privilegiata.
Devo questa caratterizzazione di “riluttante” ai libri dello psichiatra Piero Cipriano (l’ultimo si intitola La società dei devianti ed è pubblicato come gli altri dalle edizioni elèuthera): e lui la ha ricavata soprattutto dal suo lavoro di resistente in un “Diagnosi e cura” di Roma, a stretto contatto quotidiano con i “trattamenti obbligatori” e tutte le implicazioni che essi possono avere in un reparto dalle porte chiuse. Se il nome nasce in un luogo che dovrebbe essere di cura e che invece si caratterizza piuttosto come di contenzione (quarant’anni dopo Basaglia!), non me ne vorrà Cipriano se lo estendo qui a una condizione intellettuale che dovremmo impegnarci tutti a costruire.
L’intellettuale universale, quello che pensava e parlava a nome dell’umanità, è ormai morto e sepolto. L’intellettuale “organico”, di gramsciana memoria, mi pare oggi sempre di più privo di fondamenti (che erano le idee di classe operaia, popolo ed egemonia). Resta l’intellettuale specifico, che è diventato inevitabilmente un tecnico o un politico del sapere. Al confronto, quella dell’intellettuale riluttante potrebbe essere un’ipotesi più critica e meno pretenziosa, molto più calata nella realtà comune e quindi – forse – più utile.
[pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 8 settembre 2017]