La scorsa settimana al telegiornale una giovane giornalista, entusiasta, manda un servizio da una casa di riposo lombarda, emiliana, campana, sarda… «Qui ci sono 120 anziani e oggi è festa – dice – è Natale e arriva la banda dalla città per il concerto.» Sembra invitarci a guardare quel luogo, pulito, ordinato, sereno… e la città non dimentica i suoi nonnini, dice proprio così. Non è ancora Natale e neanche la vigilia, ma che importa, a chi ha la ventura di abitare suo malgrado le istituzioni totali il tempo svanisce, viene rubato! Le istituzioni totali, quali sono le case di riposo, sono in grado di rubare il tempo e di produrre effetti che è impossibile per noi immaginare! Privati del proprio tempo, dei propri oggetti, gli orari scanditi dai ritmi dell’istituto, le persone finiscono per chiudersi a riccio, per appiattirsi, per rinunciare. Le persone che invecchiano poi, devono salire riluttanti le scale della Rsa, non vogliono accettare la sconfitta. La casa per le persone che invecchiano è la loro memoria.
Hanno ingaggiato un corpo a corpo senza tregua con la minaccia dell’oblio per mettere in salvo almeno un brandello della propria storia e vorrebbero farcela in compagnia delle foto dei figli e delle figlie, delle nipoti e dei nipoti, della vecchia radio sempre accesa nel cucinino, della mantellina di lana fatta all’uncinetto, della collezione dei gialli tascabili Mondadori, del gatto… La banda ora è sistemata in giardino, un piccolo numero di signore e di signori di quelli che abitano l’istituto, vestiti al meglio con assistenti sorridenti dietro una grande vetrata. Il concerto comincia, armonie natalizie. È Natale?
«[..]Deve insomma finire la latitanza dei servizi sanitari e sociosanitari sul territorio. C’è bisogno di ridisegnare una sanità vicina alla vita delle persone che invecchiano, alle loro case, nei loro quartieri. […] La presenza di medici di famiglia, di infermieri, di assistenti sociali, di fisioterapisti, di educatori di ogni ordine e grado.» Così in una recente intervista al quotidiano Avvenire l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, che è stato nominato dal Ministro Speranza a presiedere la Commissione istituita dal ministero della Sanità per la riforma dell’assistenza degli anziani.
Non posso non ricordare, anche leggendo l’intervista a mons. Paglia, il Natale e le tante domeniche in manicomio. Di quelle domeniche ho un ricordo di una mestizia assoluta. La domenica (e il Natale) è il giorno in cui il manicomio praticamente si svuota. Durante la settimana siamo in tanti, c’è sempre un gran fermento in quei primi mesi del ’72 nel manicomio di San Giovanni. La domenica mattina vengono i parenti, almeno fino all’ora di pranzo, e noi stessi passiamo per i reparti a salutare, a dare una mano agli infermieri, a parlare con un familiare o con qualcuno che in quel momento non sta bene. Ma la domenica pomeriggio è solo tristezza. Nel grande soggiorno del reparto donne, le infermiere, generosamente e con molto buonsenso, cercano di fare qualcosa per rimuovere il velo grigio che avvolge ognuno di noi e ogni cosa. Infilano un 45 giri nel mangiadischi e invitano le donne a ballare. Alcune di loro, titubanti e impacciate, accettano, formano tre o quattro coppie e cominciano a ballare. Il camerone è a loro intera disposizione, tutte le altre donne rimangono a guardare sedute sulle panche di legno intorno ai pesanti tavoli. Guardano le coppie e la nostalgia si fa palpabile, pensano forse ai pomeriggi delle domeniche passate, quando col moroso andavano nei caffè, nelle osterie, nelle balere. Pur con tutta la buona volontà delle infermiere, il ballo e le canzonette non riescono a intaccare l’atmosfera penosa e triste, anzi la nutrono.
Lavorando in manicomio ho vissuto la tristezza infinita delle domeniche, del Natale, delle feste di compleanno. Sono sempre più convinto che il Natale in un reparto del manicomio, in una residenza, in un carcere, in una casa di riposo, in una caserma, a bordo di una petroliera sarà sempre più triste di tutti i Natali più tristi che voi possiate immaginare. La chiusura del manicomio ha cancellato quelle domeniche e ha costretto tutti a tentare di essere nelle relazioni, nei conflitti, nelle solitudini del mondo di fuori, nella infelicità umanissima che ci accomuna: restituire le persone alla comune infelicità della condizione umana, forse il senso più ricco del nostro lavoro.
Un anno di epidemia: sessantamila morti nel nostro paese e tantissimi in Europa. Più di quarantamila vecchi sono morti. Trecentomila oggi sono costretti dietro le mura di tremila case di riposo. «[…] La tragedia di queste centinaia di migliaia di morti – ancora monsignor Paglia – ha svelato contraddizioni già esistenti nella società che hanno ragioni più profonde, che hanno a che fare con i diritti delle persone che invecchiano, con la qualità dell’assistenza, con la sua efficacia ed efficienza. È chiaro ormai che è il modello stesso di cura residenziale, in istituto, a essere sbagliato e a esporre le persone che invecchiano a ogni genere di emergenza [..].»
Fino a quando…?
Buon Natale, buon Natale monsignor Vincenzo Paglia.
Natale 2020