Per una psichiatria gentile (edizione completa)
di Emanuela Nava
Tornavo da Trieste, dove ero stata a trovare Peppe dell’Acqua, amico recente, di cui leggevo da anni i libri, le interviste e insomma tutti quei meravigliosi fatti che avevano portato alla 180, la rivoluzionaria legge Basaglia.Ero in uno scompartimento quasi vuoto di una Freccia Rossa partita nel buio alle cinque del pomeriggio di un giorno invernale. Niente mare alla mia sinistra, niente blu turchese, il colore luminoso che mi aveva accolto all’improvviso all’andata, dopo un viaggio mattutino trascorso da Milano a Venezia quasi tutto nella nebbia.
Avevo appoggiato un libro sul tavolinetto. E la borsa sul sedile libero accanto al mio. Avevo persino allungato le gambe, felice di essere sola in un posto vicino al finestrino che, quando il treno è pieno, lascia a mala pena la possibilità di muovere i piedi.
Prima di aprire il libro, le fiabe dei fratelli Grimm nella versione integrale, quella che negli ultimi anni, molti, leggendo o raccontando le storie, avevano censurato, perché alcune parti venivano considerate troppo violente per i bambini, e così la regina di Biancaneve non danzava più con le scarpe di ferro rovente, alle sorellastre di Cenerentola le colombe non cavavano più gli occhi e l’orco di Pollicino non uccideva più le sue sette figlie, ripensavo alla giornata trascorsa a Trieste.
Il centro di salute mentale dell’Ospedale nuovo, i centri aperti in città a tutte le ore. E poi il Posto delle Fragole, dove avevo pranzato, il ristorante nato all’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico San Giovanni, dopo che Marco Cavallo con la pancia piena di racconti e poesie aveva, più potente del cavallo di Troia, distrutto le certezze di chi si era sentito assediato da ciò che non comprendeva e per questo si era arroccato nella cittadella della propria buona salute.
Di nuovo, come nelle storie dei fratelli Grimm epurate, coloro che si consideravano buoni e sani avevano nascosto per anni il male.
Ma non c’è come negare il male per farlo crescere. Dietro i cancelli sbarrati, dentro le stanze dove tutto è permesso perché invisibile. Dentro il dolore della malattia, dichiarata eterna e incurabile.
Era questo a cui pensavo, alla giornata trascorsa con Peppe, a ciò che era necessario raccontare, anche se tutti ne avevano paura.
Pensavo alla legge 180, voluta da Franco Basaglia, che aveva aperto i manicomi e pensavo ai protagonisti delle fiabe che partivano sempre da uno svantaggio, da una situazione immeritata e poi trovavano la forza per superare le prove e avere la meglio su orchi e streghe, quando udii una voce:
-Posso sedermi?
Alzai gli occhi e vidi una signora, più o meno della mia età, con cappello e sciarpa scuri che quasi le nascondevano il volto.
-Posso sedermi?- ripeté.
La guardai e ritirai le gambe con cui avevo occupato tutto lo spazio possibile.
Il posto 9 A era il suo, proprio di fronte al mio 8 A, ma la carrozza era quasi vuota e la tentazione fu forte.
La signora si era tolta cappello, sciarpa e cappotto e con i suoi indumenti aveva occupato anche gli altri due posti che davano sul corridoio.
Volevo alzarmi, sedermi altrove, ma stava passando il controllore e la sciarpa, finita sulla mia borsa, si era arrotolata alla tracolla.
-Mi scusi, l’aiuto io!- esclamò lei. Si sporse sopra di me con una tale agitazione che per poco non mi portò via la borsa insieme alla sciarpa.
Il controllore aspettava, ci guardava in silenzio e aspettava.
Quando finalmente la borsa fu liberata dalla sciarpa e il controllore con un cenno di assenso avanzò lungo il corridoio, la signora mi sorrise e chiese:
-Lei viene da Trieste?
-Sì.- annuii.
-Io vengo dalla Croazia. Sono stata a pregare nella chiesa della Madonna della Misericordia di Pola. Dicono che sia una Madonna molto potente. La conosce?
-No, non la conosco.- risposi. –Non sono mai stata a Pola.
-Dovrebbe andarci, se avesse una grazia da chiedere. Ma mi auguro non abbia nulla di così importante da domandare. Neppure io la conoscevo prima che mia figlia si ammalasse.
La signora sorrise, un sorriso con occhi spenti, opachi.
Fui percorsa da un brivido.
-Quando ascolto le persone mi specchio nella loro e nella mia fragilità.- mi aveva detto Peppe quella mattina. Era la frase che ripeteva sempre Franco Basaglia. E anch’io all’improvviso avvertii nella mia insofferenza di poco prima non solo il desiderio di stare sola, ma anche la paura forse di specchiarmi negli occhi di chi non conoscevo.
Ma lei sembrava non essersene accorta: continuava a inseguire il suo pensiero o forse solo il desiderio di condividerlo con qualcuno.
-Alla Madonna ho recitato il rosario, duecento Ave Maria e cinquanta Padre Nostro, inginocchiata e con gli occhi bassi. A ogni Padre Nostro, alzavo lo sguardo, sorridevo a Maria, le ricordavo perché ero lì. Ero lì per mia figlia.
La signora mi fissò per qualche istante, in silenzio.
-Spero di non disturbarla!- rise all’improvviso, coprendosi la bocca. –Lei crede nelle formule magiche? Vedo che sta leggendo un libro di fiabe.
-Sì, ci credo. Credo nella potenza delle storie. Le storie raccontano senza spiegare. Ci incoraggiano perché parlano alla parte più profonda di noi stessi.
-Oh che bello! Dovrebbe dirlo alla psicologa del Centro Psico Sociale dove vado una volta a mese.- sospirò. -Ogni sera quando mia figlia prende la polverina che le hanno prescritto, le dico: ecco la tua formula magica, quella che ti renderà più forte. Ma la psicologa mi ha detto di no, che è una sciocchezza, che devo parlare con chiarezza a mia figlia. Ma noi, sin da quando lei era una bambina, in casa, le medicine, le abbiamo sempre chiamate formule magiche.
Non sapevo come chiederlo, quali parole cuscino usare, preoccupata di pronunciare parole zannute che potessero non essere abbastanza gentili.
-Cosa è accaduto a sua figlia? Non sta bene?
-Oh è stata molto male. È successo quasi un anno fa. Non se lei sa che può accadere, ma mia figlia un giorno ha confuso le guerre che ci sono nel mondo con Star Wars, il film, l’ha visto? I medici hanno detto che era una crisi psicotica. Quando vedeva immagini della guerra vera piangeva e si disperava e diceva che voleva andare sulla luna per aiutare quelle povere creature che vivono in cielo e soffrono così tanto. È arrivata in ospedale che delirava.
Il treno aveva rallentato, dal finestrino si vedevano scorrere luci di strade, macchine, case. Eravamo all’inizio di dicembre, splendevano anche alcuni alberi di Natale.
La signora afferrò la sciarpa e la avvolse attorno al collo.
-Per me è Natale ogni volta che nasce un bambino.- disse all’improvviso. –È Natale anche ogni volta che una persona rinasce. L’ho detto alla psicologa, quando, finalmente, dopo i mesi di torpore che le avevano procurato i farmaci, mia figlia è rinata e doveva solo prendere una polverina che faceva sciogliere nell’acqua. Era solo un modo per rendere tutto un po’ più lieve, chiamarla formula magica. Ma cosa ne sa la psicologa di formule magiche? Ha mai recitato il rosario? Non è una formula magica anche quella?
Aveva parlato così in fretta, accomodandosi a ogni parola la sciarpa attorno al collo, quasi volesse ricordare a se stessa che aveva un nodo alla gola, che non potei fare a meno di risponderle:
-L’immaginazione nasce dal cuore! E le immagini possono essere molto potenti!
-Sì, ha ragione. Ma che immagini vuole che nascano quando vai in ospedale e per prima cosa ti tolgono le stringhe delle scarpe, i cordini delle felpe, ti proibiscono persino lo shampoo? E poi ti chiudono a chiave in un reparto come in un carcere.
Mi guardò in silenzio, fissandomi a lungo, quasi volesse studiare la mia reazione.
-Le stringhe delle scarpe?- domandai dopo qualche istante.
-Sì, è così che funziona in tutti gli ospedali, in tutti i reparti psichiatrici. Mia figlia stava male, confondeva Star Wars con le guerre vere che trasmettono ogni giorno i telegiornali e i medici come prima cosa le hanno tolto le stringhe delle scarpe. Anche la sciarpa di seta che le piaceva tanto. Poi l’hanno chiusa a chiave dentro il reparto. Gli psichiatri hanno cercato di spiegarci che lo facevano per il suo bene, ma intanto era come se le dessero la patente di persona pericolosa per sé e per gli altri. Come se con quelle stringhe stessero dicendo che lei poteva strozzare qualcuno.
La signora parlava a una tale velocità, mangiandosi le parole, schiarendosi la voce, che fui sopraffatta da un senso di angoscia profonda.
-A Trieste non accade.- riuscii solo a dire.
-A Trieste? E come lo sa? Succede in tutti gli ospedali d’Italia. Me l’hanno detto, mi sono informata.
-Ma a Trieste…- provai a ripetere.
Lei mi zittì.
-A Trieste? Magari, e chi glielo ha detto, qualche medico che glielo voleva fare credere? Conosco anch’io la storia della legge Basaglia, sono abbastanza vecchia per ricordami qualcosa, ma quando ne ho parlato con lo psichiatra del CPS che ha in cura mia figlia avrebbe dovuto vedere la sua faccia. Trieste? Ma lasciamo perdere, mi ha detto.
La signora sorrise. All’improvviso sorrise ancora, indicando il mio libro.
-Mi scusi, l’ho disturbata, lei voleva leggere le fiabe e io sono qui a raccontarle una storia vera.
-Ma no!- mi schermii. –Continui pure, mi fa piacere parlare con lei.
-Grazie, allora, lei è molto gentile, spero di non disturbarla troppo, ho passato una giornata a parlare solo con la Madonna, inginocchiata davanti a lei. Una Ave Maria dietro l’altra. Sono sicura che la psicologa del CPS, se mi avesse visto, avrebbe preso per matta anche me.
-Spesso psicologi e psichiatri sono più matti dei loro pazienti!- esclamai.
Mi ero augurata che la battuta la facesse sorridere di nuovo, invece la signora divenne ancora più seria.
Eravamo giunti alla stazione di Mestre. Stavano salendo altri passeggeri. Il vagone si riempì quasi completamente, ma, come per miracolo, i due posti accanto a noi restarono vuoti.
Restarono vuoti per il controllore, per chi passava con il carrello delle bibite, per la signora, ma non per me, che all’improvviso vidi Franco Basaglia accanto a noi.
Si divertiva a cambiare posto. In silenzio e facendomi continui cenni con gli occhi, lui mi incoraggiava ad ascoltare tutta la storia della signora.
-Mi racconti, signora, mi racconti dall’inizio se lo desidera.- dissi allora, guardando Franco Basaglia, la signora e poi di nuovo Franco Basaglia con complicità. -Sono felice di ascoltarla.
-Grazie!- esclamò lei.
Poi iniziò a raccontare. Un racconto lungo che io non interruppi mai.
-Era da un po’ che mia figlia stava male, tutto era iniziato in quarta liceo, un amore finito quasi subito, giornate intere trascorse a chiedersi dove lei avesse sbagliato, quali frasi avesse pronunciato per farlo scappare, quel bel ragazzo gentile che l’aveva lasciata quasi subito, neppure il tempo di conoscersi. Tutte cose normali per noi che siamo vecchie e nella vita abbiamo visto fuggire tanti bei Narcisi, che prima ci hanno corteggiato e poi se la sono date a gambe, quando hanno visto che cedevamo, che saremmo diventate appiccicose. Io lo so che anche noi abbiamo perso la testa tante volte, ma so anche che poi l’abbiamo ritrovata, l’abbiamo riavvitata con più forza sul collo.
-Insomma ce ne siamo fatte una ragione. Invece lei no, non faceva che piangere e siccome lui era uno dei suoi compagni di classe ha smesso di andare a scuola.
-Piangeva tutto il giorno, mia figlia, ripensava a ogni parola che lui aveva pronunciato, poi si guardava allo specchio e si trovava ogni difetto possibile: naso, occhi, bocca. Gambe troppo grosse e troppo corte. Alla fine ha detto che puzzava, che era per questo che lui l’aveva lasciata. L’aveva baciata una volta sola ed era fuggito disgustato.
-Così, invece di andare a scuola, ogni mattina si faceva un lungo bagno che durava ore, e anche al pomeriggio continuava a lavarsi le mani e la bocca mille volte. Non voleva andare a scuola e neppure uscire di casa. Puzzava troppo, diceva.
-Le tralascio tutti gli altri particolari, la sofferenza sua e anche la nostra, quella di mio marito e dell’altra mia figlia, che cercava in tutti i modi di parlarle e di farle coraggio. Ha solo due anni in più della piccola, la mia figlia maggiore, ma sembra già così matura. Per aiutarla, le raccontava anche dei suoi amori infelici, tutti soffrono per amore, le ripeteva.
-Poi le cose sono precipitate. Mia figlia ha detto che erano stati i marziani che una notte erano entrati nella sua camera e l’avevano riprogrammata, ne aveva parlato anche una trasmissione televisiva, Focus mi pare, di quello che fanno gli extraterrestri quando prendono di mira un abitante del nostro pianeta. Entrano nelle case sempre di notte, si impossessano dei pensieri di qualcuno, li resettano, fanno esperimenti di ogni tipo.
-A mia figlia avevano inserito una ghiandola che la faceva puzzare. E nello stesso tempo però l’avevano messa in contatto con altri mondi, con altre galassie. C’erano le guerre nel cielo, le Star Wars. E ogni volta che in tv scorrevano le immagini delle guerre vere, quelle dell’Africa o del Medio Oriente, mia figlia diceva che erano guerre stellari, che al telegiornale non dicevano la verità. Che lei, con la puzza, aveva ricevuto in regalo anche una grande conoscenza interplanetaria. Solo se le guerre fossero finite, lei avrebbe riavuto il suo buon odore di quando era bambina. Ma tutte quelle cose andavano rivelate, bisognava farle conoscere al mondo, occorreva scriverle.
-Alla fine è stata ricoverata, così non si poteva andare avanti, lei si rifiutava di prendere qualsiasi medicina che l’aiutasse a stare meglio. Ma il giorno in cui è stata portata al reparto di psichiatria, non dovrei dirglielo, era quasi addormentata. L’avevamo sedata noi, il papà e io, con le gocce nell’acqua per evitare che arrivassero i vigili, che le facessero il ricovero coatto, il TSO.
-Era morta una persona, un ragazzo grande e grosso qualche mese prima a Torino, ne avevano parlato anche i giornali. Si rifiutava di andare in ospedale, di farsi fare l’iniezione mensile, e durante la colluttazione con le forze dell’ordine non so, non ricordo bene, forse lo avevano stretto troppo al collo o lui aveva avuto un arresto cardiaco, ci eravamo impressionati, mio marito e io, non volevamo che accadesse anche a nostra figlia.
-E così, una volta in ospedale, le hanno tolto le stringhe delle scarpe, le hanno tolto la sciarpa di seta, il nastro con cui si legava i capelli, le hanno detto che era proibito tenere flaconi di shampoo o bagno schiuma, che se voleva lavarsi poteva usare la saponetta solida, oppure chiedere qualche goccia di shampoo agli infermieri. Hanno aggiunto che il reparto era chiuso a chiave, che non le era permesso uscire. E che se voleva stare bene doveva collaborare.
-Ci sono voluti due giorni per farle la prima iniezione, mia figlia non voleva, ma non gridava, non faceva la matta, piangeva soltanto. Sono stati bravi i medici, hanno preferito trattare. Non hanno usato la forza, tanto sapevano che prima o poi l’avrebbero messa KO. Lei desiderava solo lavarsi, aveva paura di disgustare gli altri ricoverati, non voleva avvicinarsi a nessuno, domandava persino ai dottori e agli infermieri di indossare la mascherina, non voleva essere annusata. E loro le hanno ripetuto di fidarsi, con i loro farmaci la puzza sarebbe sparita.
-La psicologa che ora segue anche a me e mio marito al CPS, dopo che ci siamo così tanto arrabbiati per quello che è successo, mi ha detto che sbaglio a chiamare le medicine formule magiche, ma per me i primi a chiamarle così sono stati i medici dell’ospedale. Prendi i farmaci e la puzza sparirà. Sembra quasi una pubblicità. Se non fosse stato per la dose, per il loro protocollo, 100 milligrammi e poi 150 dopo una settimana, due iniezioni che l’hanno stroncata, sarebbe stato anche bello scherzare un po’. Avrebbe fatto bene a tutti. A tutti noi che eravamo angosciati, anche a sua sorella, la mia figlia più grande, che ora piangeva più di lei, quando la vedeva camminare con le scarpe da ginnastica senza stringhe perché le pantofole, non c’era verso di fargliele indossare.
-Sembrava che, con quelle scarpe che si trascinava dalla camera al salottino per i parenti, ci stesse dicendo qualcosa, che non era un’assassina per prima cosa e poi neppure una suicida. Sì, con le stringhe non avrebbe strozzato nessuno e neppure se stessa.
-E comunque c’era sempre quella porta chiusa: quando andavamo a trovarla dovevamo sempre suonare e poi, dopo la visita, chiamare l’infermiere per farci riaprire. Ma Basaglia non aveva aperto le porte? E allora perché tutti le tenevano chiuse, come se i pazienti, le persone che non stavano bene, fossero tigri in gabbia?
-Io lo so, lo sa anche la mia figlia più grande che l’ha studiato a scuola, al corso di psicologia, tu finisci per diventare quello che gli altri pensano di te. E come in uno specchio, se gli altri lo pensano, finisci anche tu per credere che se sei matta, forse anche pericolosa. E alla fine insieme a te lo credono anche gli altri, quelli che non lo credevano prima, gli amici e i conoscenti. E la prova è che quando ti ricoverano, quando sei in crisi, e magari parli con la principessa Leila o con Dart Fener di Star Wars, ti chiudono a chiave. È così che poi, quando i matti tornano a casa, e magari non sono neppure più matti, nessuno li invita ai compleanni, alle feste di Natale, magari neppure ai matrimoni dei fratelli: è successo, me lo hanno raccontato. Forse hanno paura che alle feste i matti si presentino con l’Ammiraglio Ackbar. Ormai so tutto di Star Wars.
-Ma il sublime orrore è venuto dopo. Quando mia figlia è stata dimessa, la psichiatra del CPS, quella che l’aveva presa in carico anche se l’aveva vista solo un paio di volte, ha deciso che mia figlia avrebbe dovuto fare venti giorni di Day Hospital. Insomma tornare in ospedale ogni giorno per prendere un altro farmaco, come se quelli che le avevano iniettato non fossero stati sufficienti, e stare quattro ore seduta su un divanetto ad aspettare che passasse il tempo, senza fare nulla. Oppure poteva andare al bar dell’ospedale a mangiare e bere, visto che le medicine le facevano venire una grande fame. Ma solo se c’eravamo noi ad accompagnarla. È accaduto proprio un anno fa, eravamo a Natale: due giorni però ce li avrebbero condonati. Due giorni in cui non bisognava presentarsi, Natale e Santo Stefano, come fanno con i detenuti in libertà vigilata.
-È stato lì che ci siamo arrabbiati, mio marito e io, tornati a casa abbiamo cominciato a telefonare a tutti i medici dell’ospedale. C’era una psichiatra all’ospedale, una vecchia dottoressa comprensiva, pronta ad andare in pensione. Era a lei che telefonavo tutti i giorni, era a lei che chiedevo di intercedere presso l’altra, la più giovane, al CPS, perché non ci costringesse per quasi un mese a una vita simile. E che senso avrebbe avuto, poi? La psichiatra giovane voleva cercare di farlo passare come una sorta di contenimento affettuoso. Sì, avanti e indietro con noi in macchina, perché stordita com’era per tutta la chimica che aveva in corpo, mia figlia non avrebbe certo potuto salire su un autobus. E poi? E poi niente, un’intera famiglia requisita per cosa? Per stare seduta sul divanetto, appunto. Ma chi le ha fatte le leggi, ci siamo chiesti. Un matto? Ma un matto vero, intendo. Com’è possibile che una giovane dottoressa che quasi non la conosce, mia figlia, possa decidere al posto della dottoressa che l’ha ricoverata? Perché sia chiaro, anche se le aveva iniettato tutta quella roba, sembrava che persino lei, la più vecchia, considerasse assurdo quel day hospital senza senso. Senza un progetto, senza qualcosa da fare che non fosse dormire e mangiare.
-Pare che i medici del CPS abbiano più potere di quelli dell’ospedale. Ma le sembra possibile?
-Alla fine l’abbiamo spuntata: siamo rimasti a casa, a letto. Chissà forse era Natale e a Natale sono tutti più buoni.
-O forse la dottoressa più vecchia ha saputo intercedere. Un po’ come la Madonna, quando la prego. Credo che sia stato allora che ho cominciato a dire il rosario. Bisogna sempre credere a una forza che alla fine ci aiuta. Che la forza sia con noi, sì, proprio come dicono nel film.
-Così siamo rimasti a casa a smaltire mesi di sonno e di effetti collaterali. Dico noi, perché in casa tutti soffrivamo insieme a lei. Non so se i medici che a volte trattano i genitori con quell’aria da padreterni lo sappiano quanto soffrono le famiglie. Ci pensano mai a cosa accadrebbe se fossero loro ad avere figli che scambiano le guerre terrestri con le guerre stellari?
-Ora non voglio descrivere tutti i sintomi che provocano le dosi massicce di farmaci, solo alcuni, raffreddore costante, mancanza di fiato, tristezza infinita, desiderio di morire. Incapacità a fare qualsiasi cosa che duri più di cinque minuti.
-Portami nella clinica svizzera, dove fanno l’eutanasia, mi diceva mia figlia. E intanto passavano i mesi e ogni mese chiedevamo al CPS che la dose dell’iniezione fosse più bassa, non si poteva interrompere di colpo, passare alle pillole o alla polverina che prende ora, bisognava ridurre piano.
-Ci siamo di nuovo arrabbiati, all’inizio sembrava che nessuno ci ascoltasse. Mio marito ha urlato forte, ho temuto che ricoverassero anche lui. Alla fine hanno deciso di darci un sostegno. Ogni mese andiamo anche noi, lui e io, al CPS a parlare con uno psichiatra e una psicologa come due matti. E la psicologa ogni volta mi ripete che le medicine non sono formule magiche.
-D’accordo non lo sono, lo so anch’io che non lo sono, anche se dico il rosario e so che dire il rosario è come ripetere i mantra. E anche i mantra sono una specie di formula magica. Sono il veicolo del pensiero. Un veicolo sacro che libera la mente. Sì, le preghiere sono mantra, formule magiche che aprono le porte verso l’ignoto, permettono di accogliere il futuro senza paura.
-Oggi tutti recitano i mantra, chi diventa buddista, chi va a Yoga magari solo una volta alla settimana, senza sapere che Yoga significa unione con Dio e pensa che sia solo una ginnastica per allontanare lo stress, e intanto però ripete i mantra senza neppure immaginare che ripetere i mantra è come dire il rosario.
-Sì, le medicine, se vuoi che ti guariscono devi chiamarle formule magiche, altrimenti corri il rischio di considerarle solo veleno. In ogni cosa ci sono sia un diavolo, sia un angelo. Anche dentro di noi, bisogna scegliere.
-E anche lei, la psicologa, che voleva stare tanto con i piedi per terra, a differenza di noi che parlavamo solo di guerre stellari, non lo sapeva che, dopo tutti quei mesi di torpore e dolore, era difficile, una volta finito il rito delle iniezioni, prendere ogni giorno la dose di mantenimento, una polverina che restava anche un po’ attaccata al bicchiere, ma che faceva il suo effetto?
-Che la forza sia con te e sia con me, noi siamo tutt’uno con la forza, dicevamo insieme, mia figlia e io. Era la nostra formula magica, una formula magica omeopatica, si guariva da Star Wars parlando di Star Wars.
-Comunque, tornando indietro, dopo la seconda iniezione mensile mia figlia sembrava che non delirasse più e non diceva neppure più di puzzare. I medici erano contenti, anche noi lo eravamo, stava bene: era guarita. A casa si festeggiava, anche a mia figlia grande era tornato il sorriso. E si progettava già di ripetere l’anno in un’altra scuola e di quel Narciso, che l’aveva fatta soffrire, non si parlava più.
-E poi è accaduto, siamo rimaste da sole, mia figlia piccola e io, un pomeriggio, e lei ha ripetuto quello che diceva prima, anche con molte aggiunte e varianti, i combattimenti tra galassie, le finte guerre sulla terra, che erano solo la riproduzione cinematografica di quello che accadeva in cielo: l’Aids, la Tbc, la Meningite, malattie inoculate di notte dagli alieni. Il grande complotto mondiale per fare fuori la terra.
-Bisogna scriverle queste cose, divulgarle per salvare il mondo, ripeteva. Era per questo che non puzzava più. La principessa Leila era riuscita a intercedere per lei. Se avesse salvato il mondo, lo Jedi Obi Wan Kenobi le avrebbe fatto provare la spada laser. Ma occorreva scrivere tutto. E voleva che fossi io a scriverle, queste cose. Ma perché, le chiedevo, scrivile tu, sono cose che mi fanno impressione, lo sai che non ci credo.
-Insomma con gli altri, medici compresi che ogni mese la visitavano, non delirava più, ma con me sì.
-Voleva che io l’aiutassi e io ero riuscita solo a risponderle che non credevo in quelle sciocchezze.
-Ma bisogna capire anche me, quando lei mi raccontava le cose che vedeva e sentiva, stava molto male. Tremava, alzava e abbassava la voce, il cuore sembrava che le scoppiasse nel petto. Per un po’, dopo il mio rifiuto, lei ha fatto finta di niente, non parlava più di Star Wars né di battaglie interplanetarie, poi all’improvviso si è confidata con sua sorella, le ha detto che io l’avevo delusa, non credevo in lei, per questo lei non mi raccontava più nulla.
-Ho dovuto accettare, ero spaventatissima, avevo paura che potesse stare ancora peggio, mentre mi dettava quello che pensava, ho imposto qualche regola, solo un quarto d’ora di dettatura, appena stai male, smetto, le ho ripetuto. Ha accettato, mi ha dettato tutti quei deliri, che in fondo in fondo deliri non sono, bisogna imparare ad ascoltare le persone, a interpretarle: aveva perso la testa per amore, si era rifugiata in un altro mondo, per giustificare lui ha dato la colpa a se stessa, all’odore che emanava. Ma forse in cuor suo sperava pure che Dart Fener gli tagliasse la testa con la spada laser, a quel Narciso senza sentimenti.
-Ho ancora la sua paginetta sulla scrivania del mio computer. Dopo dieci minuti mia figlia ha smesso di dettare. Ha detto che aveva finito. Non ha più parlato di Star Wars, non mi ha dettato più nulla, sono passati i mesi. Non ha mai più delirato. Forse, più delle medicine, l’aveva curata raccontare la sua storia.
-Ero così felice che un giorno l’ho voluto far sapere al suo psichiatra, che non era più la psichiatra giovane del day hospital natalizio, che se ne era andata per fare carriera, ma un uomo di mezza età con esperienza che, ero certa, avrebbe apprezzato: avrebbe interpretato quella storia come un sintomo di guarigione. Insomma ho voluto raccontare a lui come le parole scritte avessero fatto passare a mia figlia il delirio.
-E lui, dopo avermi guardato in silenzio per qualche minuto, come se intanto stesse pensando a chissà cosa, mi ha risposto che un conto è scrivere da soli, un conto è dettare: non sono la stessa cosa, non era il caso di cantare vittoria.
-Era un ragionamento di un matto, proprio di un matto vero. Di uno che voleva curare gli altri, ma era più matto lui dei suoi pazienti. Ma ero così stupefatta che non ho saputo rispondergli.
A un tratto la signora si era fermata. Aveva smesso di parlare. Stava passando il carrellino con le bibite e lei chiese dell’acqua. Insistette per offrire una bottiglietta anche a me.
Ringraziai e sorrisi: Franco Basaglia era ancora accanto a noi. Per tutto il tempo, pur cambiando posto per stare vicino a entrambe, aveva ascoltato insieme a me ogni parola con molta attenzione.
-Grazie per avermi ascoltato. Avrei ancora molte altre cose da raccontarle!- esclamò lei, posando la bottiglia sul tavolinetto accanto al mio libro e sciogliendo la sciarpa che in molti giri aveva ancora stretta attorno al collo.
-Grazie a lei per la fiducia.- risposi. –E ora, se posso, vorrei chiederle come sta sua figlia.
-Molto meglio, prende sempre i farmaci, forse ancora una dose troppo alta perché spesso sembra assente. Ma la conquista, ciò per cui tutta la nostra famiglia ha lottato, è che continua a prenderli per bocca, basta iniezioni, ogni giorno una polverina che resta un po’ attaccata al bicchiere.
Sorrisi.
-Lo sa cosa diceva Basaglia? Il grande Franco Basaglia che ha aperto l’ospedale San Giovanni, che ha permesso a malati rinchiusi anche da più di vent’anni, che avevano subito le peggiori crudeltà, come l’elettroshock, di uscire, di essere finalmente liberi?
-Che cosa? Che cosa diceva?- mi incalzò la signora.
-Che occorre prendere un solo farmaco, alla dose più bassa possibile. E che poi occorre andare nel mondo, studiare, lavorare, frequentare amici. Un farmaco senza vita sociale è inutile.- risposi.
Franco Basaglia annuiva. E anch’io annuivo, emozionata. Se era un’allucinazione, era l’allucinazione più gioiosa che potessi immaginare.
-Sì, ha ragione, solo così un farmaco diventa una formula magica!- esclamò la signora, bevendo ancora. –Ma sa che anche l’amore conta, gli occhi con cui noi guardiamo gli altri, può trasformare? Avrei così tante cose da raccontarle e sto per scendere. Ma una vorrei ancora dirgliela, se non la disturbo troppo, è stata così gentile ad ascoltarmi.
-Sì, la prego.- risposi.
-Un giorno su un autobus c’era un matto, un ragazzo giovane che cantava e ballava, aveva un ombrellino con sé che faceva girare, era vestito come un clown, ma si vedeva che gli mancava qualche rotella, eppure sorrideva a tutti, sembrava persino felice. Anch’io gli ho sorriso. Ho seguito il suo canto e la sua danza quasi con occhi innamorati. Chissà, forse pensavo a mia figlia, non volevo che si sentisse a disagio. Erano in molti sull’autobus che ridevano, che si facevano cenni tra loro, che indicavano che era svitato. All’improvviso mi sono girata e ho riconosciuto tra i passeggeri lo psichiatra di mia figlia, quello che aveva detto che non aveva nessun valore la storia delle guerre stellari che mi dettava, che avrebbe dovuto scriverla lei, mia figlia, lo storia, perché avesse il giusto valore terapeutico. E insomma sa quel dottore cosa faceva? Guardava il matto con occhi così seri, che non ho potuto fare a meno di avvicinarmi a lui e dirgli: ha visto? È un bel matto. Volevo che provasse compassione, perché l’amore senza compassione non è amore, e la compassione senza amore non è compassione, ma lui provava solo fastidio. Andrebbe ricoverato, disse, solo questo.
La signora si alzò, indossò il cappotto.
-Fra un po’ devo scendere. Ho una coincidenza.
-Peccato, ero felice di ascoltarla.
-Davvero? Se fossi rimasta le avrei raccontato ancora molte altre cose. Quasi quasi non scendo.- rise.
-Ha ancora qualche minuto prima che il treno giunga in stazione. Se ha un’altra storia breve…
-Un’ultima cosa?
-Sì, certo.
La signora si fece seria, sorrise, si fece seria di nuovo.
-Ecco allora, ascolti. Un giorno al CPS, mentre aspettavo che mia figlia terminasse il colloquio mensile con il dottore, c’era un uomo molto agitato nel corridoio, parlava con le infermiere, diceva di non riuscire a dormire, voleva vedere un medico, ma i medici erano tutti occupati, e lui non aveva un appuntamento. Lo conosciamo, sentii dire dalle infermiere, lui viene sempre senza appuntamento. E allora sa cosa ho fatto? Sono andata da quel signore e gli ho proposto di bere un caffé, decaffeinato, visto che lui aveva problemi di insonnia, e abbiamo parlato. Sembrava che l’appuntamento, l’avesse preso con me.
Stavamo arrivando in stazione.
Dal finestrino si scorgevano sempre più frequenti le luci della città.
-E vuole sapere cosa mi ha detto, mentre bevevamo il caffé? Che un giorno dell’anno prima, visto che non lo ricevevano mai quando aveva bisogno e si era molto offeso, aveva chiesto alle infermiere di dire al suo psichiatra di telefonargli per favore. E lo psichiatra invece, per tutta risposta, gli aveva mandato una raccomandata con ricevuta di ritorno, in cui c’era scritto il giorno e l’ora dell’appuntamento. Una raccomandata, capisce? Neppure una telefonata, per cercare di capire cosa stesse accadendo, un briciolo di luminosa umanità, insomma…
La signora afferrò borsa, sciarpa e cappello.
-Devo andare. Buonasera e buon viaggio!- esclamò.
-Buonasera a lei, signora, faccia tanti auguri a sua figlia!- risposi.
-Sì, grazie. Lo sa che da gennaio torna a scuola?
-Tutto bene, allora?
-Sì, a volte si comporta come una bambina. Vuole entrare nel lettone. Gioca con la bambola di quando era piccola. Chissà. Forse vuole recuperare il tempo perduto.- mi guardò negli occhi per un istante che mi sembrò senza fine.
-Lei dice che a Trieste le cose sono diverse?
-Sì, a Trieste non tolgono le stringhe delle scarpe, permettono di tenere lo shampoo in camera, i medici non indossano il camice e sa una cosa? Le porte sono sempre aperte e la Madonna della Misericordia è molto vicina.
Stava già percorrendo il corridoio, trascinando un piccolo trolley che aveva nascosto tra i sedili e che non avevo notato prima, quando la signora tornò indietro e mi abbracciò. Per farlo abbracciò anche Franco Basaglia che era sempre accanto a noi, anche se lo vedevo solo io.
-Grazie!- sussurrò. –Grazie.
Dal finestrino la vidi percorrere la pensilina e scendere le scale del sottopassaggio della stazione.
Sospirai, chiusi gli occhi per qualche istante. Quando li riaprii, Basaglia era sparito.
Ora che ci penso, non riesco a ricordare in quale città scese la signora.
Senz’altro in una dove i centri di salute mentale degli ospedali hanno le porte chiuse.
Ricordo solo che riaprii il libro.
Avevo lasciato il segnalibro alla fiaba di Hansel e Gretel.
Rilessi il finale, quello che mi piaceva tanto e che non facevo altro che ripetere a tutti coloro che volevano conoscere cosa intendessi per potenza delle fiabe.
“Hansel e Gretel entrarono nella casa della strega e dappertutto c’erano forzieri pieni di perle e di pietre preziose. -Sono molto meglio dei sassolini!- disse Hansel, e mise in tasca tutto quel che poté entrarci; e Gretel disse: -Anch’io voglio portarne a casa un po’.- E si riempì il grembiulino… e così finirono tutti i guai… la matrigna era morta… e Hansel e Gretel e il padre, a cui avevano regalato tutti i tesori, vissero felici e contenti.”
Che bel finale, pensai.
I tesori mancavano ai genitori che avevano abbandonato Hansel e Gretel. Non a Hansel e Gretel, che erano stati abbandonati. Per questo motivo i bambini della fiaba non li tenevano per sé, ma li regalavano al padre.
-Speriamo che quella ragazza capisca che non era a lei che mancava la bellezza e il profumo, ma al suo Narciso che non aveva abbastanza tesori dentro di sé per riconoscere quelli di lei.- dissi a me stessa.
E fu mentre ripensavo alla ragazza che parlava di Star Wars, che a un tratto mi venne in mente che non avevo chiesto il nome alla signora. Né il suo, né quello di sua figlia.
Provai dispiacere e vergogna.
Ma il treno aveva ripreso la sua corsa nel buio della sera.
Continuai a leggere.
Franco Basaglia era sicuramente tornato a Trieste.
6 gennaio 2017