Chiusi i vecchi Opg, a Bologna c’è la “Casa degli Svizzeri”. Stanze colorate e ping pong: per essere liberi di guarire. Fuori il filo spinato e le guardie, a ogni ora del giorno e della notte. Dentro le stanze col bagno in camera, la cucina, la sala ricreativa, psichiatri e infermieri. Una terra di mezzo, dove chi la abita è sospeso tra reclusione e libertà.
Da quasi sei mesi, in via Terracini, prima periferia di Bologna, sorge la Rems. Una residenza gestita dall’Ausi che ospita persone “socialmente pericolose”, che hanno commesso reati gravi (omicidi, tentati omicidi, lesioni, danni al patrimonio) ma hanno anche serissimi disturbi psichiatrici e non possono andare in carcere. In una parola, gli “internati”. Sono dodici, nove uomini e tre donne. Vivono qui per via della chiusura degli ospedali giudiziari (gli Opg come quello di Reggio Emilia), i “manicomi criminali”, gironi infernali e disumani che in passato hanno fatto guadagnare all’Italia richiami per violazione dei diritti umani.
La “Casa degli svizzeri” – così si chiama la residenza – è immersa nel verde, alla fine di un viale alberato. Una guardia giurata della Coopservice viene ad aprire. Un gruppetto di ospiti è seduto in giardino, fuma e chiacchiera. Altri due sono in cucina, apparecchiano la tavola per il pranzo. Libertà è anche sentirsi utili. Roberto (cambiamo il nome per rispetto della sua privacy) lo sa bene. È sulla quarantina, barba incolta e parlata toscana. Prima “dell’incidente” – lui lo chiama così – prima insomma di finire in carcere, faceva il meccanico. Poi la galera e il trasferimento a Bologna. “All’inizio ero disorientato, mi stupivo anch’io di questa libertà. La prima cosa che ricordo è la doccia: finalmente ne ho fatta una come si deve!”.
Lui e i suoi “compagni” organizzano, periodicamente, una riunione per discutere gli “ordini del giorno” su ciò che serve, perché “da noi si dice che il porto è fatto dai marinai”. Ci sono persone, qui dentro, che vivevano in stanze da tre letti infilati in nove metri quadri, che rischiavano di finire in barelle di contenzione con dei buchi all’altezza del bacino. E adesso approvano ordini del giorno. Dormono in stanze che non sono indicate per numeri ma per colori (la verde, la lilla, l’arancione…): al primo piano le donne, al secondo gli uomini.
Ogni camera è doppia o singola con il bagno personale. In una, sul comodino accanto al letto, è poggiata una fotografia: due persone ridono e si abbracciano. Dentro la Rems si può leggere, giocare a biliardino o ping pong. C’è la tv, si organizzano cineforum, verrà presto allestita una piccola palestra. Una stanza serve per le udienze con il magistrato.
Sì, perché da qui si deve uscire. È un luogo di riabilitazione, questo, non di lenta tortura. Quattro ospiti in sei mesi sono già entrati in percorsi alternativi, una percentuale alta. “Fanno parte di progetti nel territorio – racconta Claudio Bartoletti, responsabile sanitario, che ci guida per i corridoi col direttore sanitario dell’Ausi Angelo Fioritti e la coordinatrice infermieristica Velia Zulli. Tre dei nostri ospiti sono arrivati da Reggio. Ce li avevano descritti come ragazzi che picchiavano tutti. Mai successo un episodio di violenza. È passato a trovarli un cappellano che li conosce, non credeva ai suoi occhi”.
La “Casa degli Svizzeri” è anche legata a due episodi che hanno sollevato polemiche. Prima un internato che è uscito da solo (da lì la decisione del filo spinato sulle palizzate), poi un altro che si è allontanato di recente mentre era in giro con l’assistente sociale: imprevisti che – dicono gli esperti – purtroppo possono accadere. Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna (che ha la facoltà di revocare o attenuare le misure di sicurezza) fa un bilancio positivo dei primi mesi: “Queste strutture servono, con responsabilità, al reinserimento sociale, grazie a diverse forme come le comunità o le case-famiglia. In questo l’Emilia Romagna è un esempio. Gli inconvenienti sono da mettere in conto. Ma ricordiamoci sempre che veniamo da situazioni oscene in giro per l’Italia. Finora è stato un successo”.
di Rosario Di Raimondo, da La Repubblica, 16 settembre 2015