Per una psichiatria gentile
Di Peppe Dell’Acqua
Continuano ipotesi di proposte di abolizione del trattamento sanitario obbligatorio e di introduzione dell’amministratore di sostegno, di avvocati e di giudici. Si tratta di proposte che, seppure possano essere riconosciute per il loro contenuto di spingere oltre ogni limite la libertà di accesso alle cure, finiscono per ritornare a luoghi comuni. Come se le persone con disturbo mentale non avessero bisogno di cure, come se la loro sofferenza, il loro dolore, il loro rifiuto si manifestasse solo con la protesta violenta e pericolosa, come se gli operatori dovessero scomparire e abbandonare ogni funzione di mediazione. Impoverendo la pratica dell’etica della cura che fa tanta fatica a sopravvivere.
Per quanto ho potuto verificare in discussioni e letture anche estenuanti non posso non esimermi dal dire che queste proposte vengono da persone per le quali la sofferenza mentale, il dolore, la solitudine siderale, il rischio immanente di perdersi sono solo oggetto di un articolo di legge, dell’interesse di un avvocato, della sentenza di un giudice.
Bisogna ricominciare sempre daccapo.
E ancora abbiamo letto, questa volta su Ottopagine.it, di un giovane che è morto in diagnosi e cura all’Ospedale del Mare di Ponticelli dopo esservi arrivato con TSO: non facciamo fatica ad immaginare che quell’arrivo sia stato preceduto da una cattura, forse, da un abbandono durato giorni, settimane o mesi, dalla mancanza di un servizio di salute mentale e di operatori capaci di andare verso il conflitto.
Si continua a dire: morte per TSO. Ma c’entra davvero il TSO in questa morte, e in altre per certi versi simili?
E per rispondere e fare chiarezza rispetto a iniziative che sembrano avventate, conviene tornare ai valori e alle pratiche che possono avvicinarci ad una comprensione possibile di un trattamento, il TSO, che si muove su un margine esile, su un delicato punto di equilibrio sempre a rischio di distorsioni e fraintendimenti.
Ancora una volta, conviene ricordarlo: il TSO non è un mandato di cattura, non è un ricovero coatto, non è affatto la sottrazione di diritto che apre la strada a ogni forma di prepotenza, di mortificazione, di limitazione estreme delle libertà personali.
Il legislatore nel 1978, con la legge 180, intese restituire al cittadino, anche se folle, delirante, allucinato, agitato, aggressivo, confuso, violento, impaurito, terrorizzato, il suo pieno diritto costituzionale. Uno strumento per garantire il diritto alla cura, alla salute, alla dignità.
Un dispositivo che, nell’obbligare l’altro alla cura, crea un campo di negoziazione fra l’individuo e i servizi: sono questi ultimi che hanno l’obbligo di garantire quella cura, quella salute, quella dignità che la Costituzione (art. 32) e lo Stato riconoscono e che quella condizione di disagio grave mette così drammaticamente a rischio.
Nel relazionarsi con questo obbligo dei servizi, nella negoziazione che la legge 180 prevede in ogni suo passaggio, prende forma la possibilità di comprendere, di essere con l’altro, di collocare quella condizione, di frequente molto dolorosa, nella storia di quella persona, nelle relazioni, nei contesti. L’aggettivo obbligatorio prima di tutto, dunque, dice che l’altro esiste. Posso obbligare qualcuno con un’ordinanza, una norma, una legge quando ho riconosciuto la sua autonomia e la sua possibilità di rifiuto. Il compito che la legge indica al medico è quello di interrogarsi, di mettersi al centro delle controverse questioni etiche, di cercare il consenso alle cure con pazienza e tenacia. E lì dove ciò non accada, di farsi carico del rifiuto con una scelta responsabile che garantisca i diritti della persona, primo fra tutti quello di essere curato. Riconoscendo che non si può assumere il rifiuto per sostenere il rispetto sempre e comunque della libera scelta dell’individuo. Molto spesso forzare il rifiuto di persone che vivono costrette da una condizione di severo disagio individuale, relazionale e sociale, apre alla possibilità di rimontare abbandono, solitudine, miseria morale e materiale. In quel dialogo che deve instaurarsi tra il servizio e il cittadino compare la persona, l’individuo, la sua storia, i suoi bisogni. Se questo punto di equilibrio si incrina, se le istituzioni che autorizzano il TSO ed i servizi che lo mettono in pratica lo fanno presupponendo l’equazione disturbo mentale = pericolosità, interpretando il TSO come una pratica di prevaricazione e coercizione, la responsabilità va cercata nel fallimento di politiche regionali coerenti per la salute mentale, nel declino dei servizi di salute mentale comunitari, nell’inconsistenza delle scuole di formazione, nella sottrazione costante delle risorse.
Nel tentativo di affrontare queste questioni alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica, l’onorevole Elena Carnevali la senatrice Paola Boldrini, entrambe del Partito Democratico, ha presentato lo scorso 14 maggio il disegno di legge Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei princìpi di cui alla legge 13 maggio 1978, n. 180, provvedimento che punta a conferire ulteriore efficacia ai principi della Legge 180/78, individuando linee guida per evitare che il TSO subisca distorsioni e produca gratuite nei confronti delle persone. L’articolo 10 recita: «Nei confronti delle persone sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio, è punita ogni violenza fisica e morale e non è ammessa alcuna forma di misura coercitiva che si configuri quale ulteriore restrizione della libertà personale.» Il disegno di legge si preoccupa anche di prevedere un’ulteriore garanzia sostanziale e processuale contro la disumana pratica della contenzione meccanica nei servizi psichiatrici e valorizzare così ulteriormente la concreta applicazione nell’attuale contesto costituzionale, normativo e sociale.