di Roberto Mezzina*
Grazie Luigi della dettagliata sintesi. Il libro, che ho in parte letto su segnalazione di amici americani, si inserisce nella lista ormai lunga delle testimonianze sulla crisi della psichiatria biomedica e soprattutto del sistema (è un eufemismo chiamarlo così) americano di cura e assistenza in salute mentale. Per intenderci, in tempi recenti Allen Frances ha ripetutamente sottolineato la tragedia dell’abbandono nelle strade e nelle carceri, e suoi testi sono stati anche tradotti in italiano.
Oltre che a lui, Tom Insel è anche debitore (lo accenna nell’introduzione senza nominarlo, in maniera un po’ scorretta) a Jonathan Sherin, direttore dei servizi a Los Angeles (fino ad un mese fa) che aveva incontrato all’ultimo convegno di Trieste nel 2019 (tra parentesi, indicando questa nostra esperienza, almeno per com’era allora, a modello). Jon, nel progetto di collaborazione con Trieste, aveva esemplificato parlando di ‘someone to love – somewhere to live – something to do’ come le finalità, il senso ultimo della risposta al disturbo mentale severo, specie degli homeless. Da qui le 3 P di Insel.
Ciò che il libro manca di sottolineare e di indicare sufficientemente (perché non c’è stata sufficiente cultura, ricerca e diffusione di dati) è ciò su cui abbiamo sempre insistito a Trieste, anche scontrandoci a volte con figure di rilievo come Piero Morosini, ossia l’impatto complessivo del sistema di cure, dei suoi servizi come luoghi concreti, per noi derivati dal lavoro anti-istituzionale, sulle singole persone e sulla comunità che servono, al di là dell’insistenza sul valore di singoli trattamenti. I quali, se offerti da singoli individui, pur bravi terapeuti, in servizi monchi, inadatti o irrrispettosi dei diritti, non complementati dalla risposta ai determinanti sociali e da altri importanti aspetti, come l’empowerment e la co-produzione, possono dispiegare solo in parte la loro efficacia. Nei percorsi di ripresa delle persone conta, come ci dice la ricerca qualitativa, l’ ‘esperienza della cura’ come fatto globale, che si verifica in un approccio alla vita nella sua interezza (‘whole life’).
Almeno io ho imparato e verificato questo.
Cari saluti
Roberto
Chair – International Mental Health Collaborating Network – www.IMHCN.org