Preferirei di no. Questo è stata la mia prima istintiva reazione quando dal Forum della Salute Mentale mi hanno invitato a mettere per iscritto qualche considerazione sulla vicenda di Satnam Singh – il bracciante indiano ucciso dal suo padrone nelle campagne dell’Agro Pontino. D’altronde, come sa bene Peppe dell’Acqua, estensore dell’invito, io abito a Latina e delle vicende d’immigrazione – compresa quella indiana che da anni rappresenta la spina dorsale dell’economia agricola locale – ho già raccontato in un romanzo (Copula Mundi, Ed. Alphabeta Verlag) ambientato in un centro per accoglienza stranieri gestito dalla oramai celebre cooperativa Karibù: un’altra triste storia d’accoglienza negata – o meglio, simulata – che ormai è indelebilmente associata a queste terre.

Eppure, a distanza di tre giorni dalla morte di Satnam, ero davvero ancora senza parole davanti alla tragedia, immerso in un bozzolo di stordimento emotivo e dolore psichico come la stragrande maggioranza dei miei concittadini, e che si concretizzava in un’unica frase, ripetuta all’infinito: “Non era possibile non sapere!”

E in effetti è vero, non era possibile. Non era possibile per noi che in questa terra ci abitiamo, e vediamo quotidianamente le lunghe processioni di braccianti in bicicletta rivestiti nei loro giubbotti fluorescenti per evitare di essere investiti. Talvolta li incrociamo per strada o al supermercato e magari (come nel mio caso) abitiamo negli stessi palazzi e li sentiamo per le scale uscire in gruppo all’alba (ma quanti sono, che il loro appartamento è grande come il mio dove ci viviamo in due???) per salire in bicicletta e pedalare fino alle campagne. Ma non sarebbe possibile neanche per il resto d’Italia, a dire il vero, negare di sapere cosa da anni succede nell’Agro Pontino. Non dopo le tante inchieste televisive, dopo le denunce e i processi, dopo le ricerche e i libri di Marco Omizzolo, che si è finto uno di loro e ha vissuto tra i braccianti per documentarsi e far luce su quell’intrigo di soprusi e illegalità che va sotto il nome di agromafie. Oggi Omizzolo vive sotto scorta e nel 2018 per il suo lavoro è stato nominato Cavaliere della Repubblica dal presidente Mattarella. Quindi no, non era possibile non sapere.

In uno dei suoi libri Omizzolo racconta la storia di Kaur, una ragazza che in seguito a un incidente sul lavoro si ferisce all’inguine e inizia a perdere sangue in maniera copiosa. Qualcuno chiama l’ambulanza ma al suo arrivo il padrone si oppone all’ingresso nella struttura, all’interno della quale la ragazza rischia di morire dissanguata. Un caso molto simile alla tragedia di Satnam Singh (per fortuna con diverso esito) come simile per altri versi è la storia che portò a processo due imprenditori locali accusati di aver picchiato e gettato in un canale un bracciante. A loro difesa si erse Nicola Procaccini, deputato europeo di FdI: parlò di professionisti delle agromafie riferendosi proprio a Omizzolo, che sostenne il bracciante nella denuncia. Quindi no, se ne ha parlato un eurodeputato non era possibile che non si sapesse: da Latina a Bruxelles, tutti sapevano ed erano informati delle condizioni di schiavismo in cui versano tantissimi lavoratori, principalmente di origine indiana, nelle campagne dell’Agro Pontino.

Per questa ragione risulta indigesta anche la scandalizzata accusa di “mostro” nei confronti di Antonello Lovato, il padrone di Satman che dopo l’incidente lo ha caricato in macchina e abbandonato a bordo strada accanto a una cassetta di plastica contenente l’arto amputato. Una definizione affatto esagerata, ma che in qualche modo rischia di sminuire il ruolo svolto dalla collettività che si muove intorno a questa fiera dell’illegalità che è il bracciantato nell’Agro Pontino. Iniziando dalle agghiaccianti dichiarazioni del padre, già indagato dal 2019 per caporalato e che oggi parla di leggerezza della stessa vittima, o dal resto del borgo in cui è avvenuta la tragedia, dove la sera della morte nessuno ha ritenuto opportuno interrompere i festeggiamenti patronali. Fino ad arrivare al giorno della manifestazione in piazza e al discorso della sindaca di Latina Matilde Celentano, che facendo appello alla retorica della bonifica confonde ancora una volta i migranti (=persone che migrano) con i coloni (=persone che colonizzano) e continua a perpetuare un’oramai ingiustificabile inganno collettivo. Chi è arrivato negli anni ’30 ha trovato case predisposte e terreni già bonificati e pronti da coltivare, mentre Satnam viveva in una baracca di lamiera in un terreno privato insieme alla moglie e altri dieci connazionali. Io ci vedo una certa differenza. Come una certa differenza rilevo anche tra il trattamento ricevuto dalla vedova Singh, a cui l’amministrazione ha offerto un rifugio sicuro e documenti legali, e i suoi ex coinquilini, immediatamente sfrattati dai proprietari dei terreni per evitare ulteriore clamore mediatico, e adesso riparati chissà dove proprio a causa dei loro documenti irregolari – a conferma di una certa indolenza politica verso tutte le ingiustizie che non cadono sotto l’immediato occhio dei riflettori.

Eppure, forse è proprio nella stantia retorica della bonifica a cui si appella la sindaca che potremmo cercare alcuni elementi di quella volontà di dominio che così spesso sfocia da queste parti in un vero e proprio “culto della prepotenza”. Un culto incarnato dalla disumana reazione padronale davanti all’incidente – reazione che è stata probabilmente la causa della morte, ancora prima dell’incidente – e che in una certa misura riflette quella volontà di potenza espressa dalla retorica sulla bonifica di cui ancora oggi si tende a nutrirsi. E se è vero – come fanno notare in tanti – che la situazione caporalato non è diversa a Foggia o a Rosarno, è altrettanto vero che questa ancestrale prepotenza, che in quelle terre si radica in un passato feudale terminato da tempo relativamente breve, qui da noi deve per forza di cose avere altra natura e spiegazione.

“La bonifica integrale fu dominata dall’idea di una reale battaglia contro la natura delle paludi, per portare la civiltà in un luogo percepito come incompatibile, se non ostile, all’ideologia fascista.” scrive l’antropologo Paolo Gruppuso in un libro imprescindibile per comprendere l’universo simbolico di questi luoghi (Nell’Africa tenebrosa alle porte di Roma). Idea di dominio e sopraffazione che si è connaturata nell’indole collettiva ed è proseguita ben oltre l’epoca della bonifica, fino a sfociare nel far west edilizio del dopoguerra – definito “Klondike” dal Presidente della Casa dell’Architettura di Latina Pietro Cefaly, a sottolineare l’uso spregiudicato che si fece della prepotenza per condizionare il rilascio di concessioni edilizie abbastanza discutibili, e che hanno marchiato per sempre il profilo urbano di Latina e delle sue campagne.

Insomma, a Latina il famoso motto del Marchese del Grillo – Io so’ io e voi nun contate un cazzo! – non è mai passato di moda, anzi si è nel frattempo conquistato dignità storiografica appellandosi a una presunta tradizione pionieristica e colonizzatrice che fa cieco riferimento al discorso inaugurale di Littoria tenuto da Mussolini il 18 dicembre del 1932, dove questa terra venne definita simbolo di potenza fascista. E se sul fascismo nel corso degli anni si sono avvicendate differenti interpretazioni, il concetto di potenza – maschia e vigorosa – non è mai stato messo in discussione come cromosoma fondamentale da chi si ritiene latinense doc e portatore di una precisa visione della fondazione: una visione costruita intorno all’idea di dominio sulla natura e su qualunque ostacolo ai piani di civilizzazione fascista – come ad esempio le popolazioni locali dei Lepini, che per secoli avevano utilizzato le terre impaludate alimentando un’economia tutt’altro che secondaria e che in pochi anni si videro depredate di tutto. Una volontà di potenza che oggi si esprime e si tramanda attraverso un universo simbolico fatto di caporali che chiedono di essere chiamati Mussolini e impongono ai braccianti di fare il saluto romano passando davanti al busto del duce, per ricordar loro che «in Italia comandano gli italiani» e che «il fascismo è la fede politica nella quale credono i padroni».

Come si riflette questo coacervo di contraddizioni sull’animo cittadino, alla luce della tragedia si Satnam Singh? Come si sente una persona che vive oggi a Latina, che della classe dominante non fa parte e che anzi di questo culto della prepotenza ne respira l’essenza più dura ogni volta che lo incontra sul posto di lavoro, nelle sibilline parole di un padrone di casa malandrino o di un avvocato truffaldino? In che maniera la brutalità del gesto di Antonello Lovato si ripercuote sulle coscienze di tutti noi e – soprattutto – cosa possiamo fare per riuscire impedire che una responsabilità collettiva diventi soltanto una somma di sterili sensi di colpa individuali?

Una risposta non ce l’ho, a dire il vero, ma credo che fischiare una sindaca che afferma di metterci la faccia senza però riuscire a elaborare contenuti che vadano oltre la vuota retorica sia comunque un primo necessario e indispensabile passo. Perché se è vero che la tragedia di Satnam Singh nasce in primo luogo dalla disumanità di un singolo individuo, è altrettanto vero che il clima di arroganza e impunità entro il quale quell’individuo contava di potersi muovere è frutto di una realtà sull’immigrazione resa disumana dalla legge Bossi Fini, manipolata da anni di squallida propaganda e mortificata dalle infastidite reazioni alle denunce da parte di europarlamentari espressi da questo territorio e votati nello stesso partito di cui fanno parte sia l’attuale sindaca di Latina e che l’attuale Presidente del Consiglio. Responsabilità collettive, dunque, ma non per questo responsabilità di tutti, e comunque di certo non nella stessa misura.
Per cui, tutto sommato, iniziare a respingere con decisione almeno le ipocrisie istituzionali come in tanti abbiamo fatto lo scorso 22 giugno in piazza a Latina contestando la versione della sindaca, è probabilmente la più sana e coerente tra tutte le possibili reazioni che avevamo davanti al lutto collettivo che avvolge la città e gli animi di chi la abita dal giorno della morte di Satman Singh – che la pace sia con lui.