[articolo uscito su Redattore Sociale]
A cinque anni dalla nascita delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari, luci e ombre su un nuovo modo di superare violenza (o reato) e disturbo mentale
A M. ogni tanto tremano le mani. Però è contento di parlare e sorride spesso. Sembra un buontempone. Racconta la sua giornata tipo all’interno della Rems Casa degli Svizzeri di Bologna, la struttura che, insieme a quella di Casale di Mezzani (Parma), in regione ha preso il posto del vecchio Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. «Mi sveglio presto, aspetto che gli operatori aprano la zona notte, faccio colazione e alle 8, alle 14 e alle 20 vado in saletta terapia ad assumere i farmaci. Poi prendo un altro caffè, gioco a Machiavelli con gli altri pazienti e, una volta a settimana, vado in piscina a nuotare. Ma mi piace molto anche il karaoke e quando prendiamo la pizza, il kebab o il cinese da asporto. Qui non si sta male, ma non è vita reale: mi manca la libertà, la famiglia».
L’Emilia-Romagna, nei tempi stabiliti dalla legge 81/2014 che ha sancito definitivamente la chiusura degli Opg, è stata tra le prime regioni italiane pronte ad accogliere in strutture alternative i propri internati, cioè quelle persone con disturbi mentali che hanno commesso un reato e per cui sussistono elementi di pericolosità sociale. Era il 30 marzo 2015. «Il primo anno abbiamo pagato l’inesperienza generale: non c’erano protocolli operativi, nessun modello di riferimento su come costruire una Rems, né a livello strutturale né metodologico. C’erano solo alcune linee guida del governo in merito alla sicurezza, alla gestione sanitaria, all’intesa con le prefetture e la magistratura di sorveglianza, all’attivazione di percorsi terapeutico-riabilitativi territoriali e poco altro, per cui ogni Asl si è mossa per conto proprio», spiega Federico Boaron, psichiatra, responsabile sanitario della struttura di Bologna. «Noi abbiamo cercato di coniugare la vocazione riabilitativa tipica delle comunità con un maggiore livello di sicurezza, essendo una struttura detentiva, ferma restando la volontà di aprirci il più possibile all’esterno per le attività riabilitative, anche perché la noia prolungata non è terapeutica. Il laboratorio di musica, il corso di scacchi e quello di italiano per stranieri o i gruppi di discussione vanno in questa direzione».
Un alto cancello verde che corre tutto intorno alla Rems, del filo spinato dove la recinzione è più bassa, vetri antisfondamento ma nessuna sbarra alle finestre, un bel giardino con l’orto dove spesso si aggira il gatto Nerone. La Casa degli Svizzeri si trova in città, anche se in una zona un po’ isolata e con pochi palazzi. Si presenta come una casa colonica ristrutturata, ed effettivamente quella era in origine. Poi ci sono le telecamere perimetrali e una guardia giurata armata all’ingresso. Dentro, la sala da pranzo, la cucina dove gli ospiti ogni tanto hanno la possibilità di prepararsi da mangiare anche se i pasti vengono da fuori, la sala tv, il tavolo da ping pong e il biliardino, una grande stanza polivalente, le camere da letto, suddivise tra uomini e donne, che, con il Covid, sono diventate tutte singole. Negli spazi comuni è obbligatorio tenere la mascherina. Se non fosse per un pulsante su ogni piano per poter chiamare la polizia in caso di situazioni fuori controllo, e per il braccialetto di soccorso al polso degli operatori da attivare quando si ha bisogno di aiuto, assomiglierebbe più a una casa di riposo che non a un luogo di detenzione. Con ambienti molto grandi, tanto da sembrare semivuota in relazione ai 14 posti letto di cui dispone e ai pazienti che vagano per la struttura.
Attualmente all’interno della Rems di Bologna ci sono dodici persone, di cui tre donne, mentre un altro paziente e un’altra paziente stanno usufruendo della licenza finale di esperimento. «Si trovano in libertà vigilata in un gruppo appartamento e in una comunità e, se va bene, dopo sei mesi potranno chiudere il loro percorso detentivo», dice il dottor Boaron.
Oltre a questa licenza, esistono altri tre tipi di permesso: sanitario, di lavoro o per tirocini formativi e ad horas per lo svolgimento di attività riabilitative. «In realtà si tratta dei 30 giorni di permesso l’anno spettanti per legge, che noi abbiamo deciso di far usufruire a ore e che qui possono essere utilizzati per fare sport, ippoterapia, andare al cinema, a fare la spesa, a passeggiare sui colli». L’approccio di Boaron con i pazienti è sempre informale. «Abbiamo attivato anche un inserimento scolastico in un istituto tecnico cittadino per un nostro giovane paziente, che ha deciso di continuare a studiare, riscontrando una grande sensibilità nel preside, nei professori e nei compagni di classe», commenta lo psichiatra. «La scuola ha solo voluto essere rassicurata che il ragazzo non avesse commesso un reato a sfondo sessuale nei confronti di minori».
Anche a J. piace il computer. «Ci faccio musica e resto aggiornato sul mercato valutario. Quando mi hanno prospettato l’ingresso nella Rems, la mia preoccupazione più grande era la noia. Ma visto che c’è il pc, ho trovato il modo di passare il tempo e di gestire lo stress e devo dire che qui sto bene: meglio che in alcune comunità di Rimini. Metà del gruppo è giovane, ha circa la mia età, così posso almeno chiacchierare con dei coetanei». J. si occupa di data entry in una cooperativa sociale. «È un percorso abbastanza decente per poter indirizzare la mia futura uscita da qui: io sono pieno di sogni, devo solo focalizzarmi su quello giusto».
Ma c’è anche chi in questa struttura non si trova bene, come P., una delle poche donne detenute: è vestita alla moda, è truccata, indossa qualche gioiello e una borsetta gialla a tracolla. «La Rems è come una galera, le regole sono rigide e non possiamo fumare in camera: siamo maltrattati. E poi ci sono persone molto schizzate, in una convivenza costretta che non ho scelto. Io sono qui da tanto, non esco da agosto. Sono una piccola ribelle, ma se vedo dell’immondizia per strada la raccolgo. Non vedo l’ora di uscire». Neanche A. è soddisfatto della sua permanenza, lui che è un fiume di parole. «Se uno non era matto lo diventa. Io sono in Rems senza una condanna di primo grado e i tempi del processo si allungano sempre più. La mia è una carcerazione bianca: ho 40 chili di documenti che giudici e avvocati non hanno ancora valutato. La magistratura non è aggiornata sulle leggi correnti. Chi mi tiene qui o è stato inquisito o era in carcere con me. Io sono una persona scomoda a certi ceti sociali. Tutto ciò, detto da una persona ricoverata in una struttura psichiatrica, può sollevare dubbi, ma o sono fuori di testa o sono vittima di una truffa».
Non è facile lavorare con i pazienti psichiatrici. «Devi essere predisposto, altrimenti non ce la fai. A volte sono persone petulanti, che ti sommergono di continue richieste, a volte ti riempiono di parolacce o ti minacciano. L’ambito relazionale non è semplice», precisa Tommaso, infermiere alla Casa degli Svizzeri da quasi un anno ma da sempre nel settore della salute mentale. «Pericolosità sociale e violenza sono elementi che bisogna mettere in conto: abbiamo avuto parecchi casi di aggressività verbale o diretta verso oggetti, come per esempio una porta e un muro di cartongesso sfondati durante una crisi di rabbia. Ma non bisogna mai guardare il lato criminale dei pazienti, altrimenti l’approccio sanitario e riabilitativo ne risulta negativamente condizionato. Non sempre, però, ci si riesce».
Dati alla mano, il bilancio di cinque anni di attività della Rems di Bologna parla di 30 dipendenti su base volontaria tra infermieri, operatori socio sanitari, educatori, psicologi, psichiatri, tecnici della riabilitazione psichiatrica, assistenti sociali e guardia giurata, 45 pazienti transitati per la struttura, in larga maggioranza uomini e per la metà stranieri, 35 dimissioni (ma solo uno per rientro al domicilio e uno per revoca della misura di sicurezza detentiva), 8.500 telefonate, 2.690 uscite per permessi ad horas (anche se solo cinque persone sono potute uscire da sole), 830 visite di parenti o amici, 25 pazienti coinvolti in attività di socialità o attinenti all’area lavoro (di cui uno in un supermercato della città), 22 trattamenti sanitari obbligatori, 35 interventi di polizia o carabinieri, sei infortuni di operatori per conflitti con i pazienti, per fortuna non gravi, «non viene praticata la contenzione né fisica né farmacologica, nessun caso di positività al Covid». A illustrarci queste cifre, che vanno da aprile 2015 a settembre di quest’anno, è Velia Zulli, la coordinatrice della Casa degli Svizzeri, un grosso mazzo di chiavi sempre in mano. «Ma il problema vero sono le liste d’attesa: persone ingiustamente detenute in carcere, persone che si trovano in una struttura psichiatrica con un provvedimento a metà strada tra il Tso e gli arresti domiciliari oppure c’è chi è libero anche se socialmente pericoloso, perché le Rems – per legge – non possono essere mai in sovrannumero».
Dietro i numeri, però, ci sono gli individui e il loro passato. «Storie di vita quasi sempre molto dolorose o con forti traumi alle spalle, rapporti familiari segnati da eventi tragici, marginalità che generano solitudini», commenta Zulli. Tanto che queste persone non devono solo riparare il reato commesso e affrontare la patologia psichiatrica, ma devono soprattutto ristabilire un costrutto psicologico, emotivo, parentale, affettivo e relazionale che, anche prima di delinquere, non ha certo favorito la loro salute mentale.
Il punto critico: aggressioni a pazienti e operatori. Se non ci fosse stato il Covid-19 e il relativo lockdown, gli addetti ai lavori avrebbero certamente fatto il punto sullo stato di attuazione della legge 81/2014 e sulla chiusura degli Opg, sostituiti da un sistema di welfare di comunità, dai servizi sociali e sanitari dei Dipartimenti di salute mentale della Asl, al cui interno operano appunto le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Il processo di riforma è stato affrontato superando, sul campo, difficoltà e incertezze con l’invenzione di un modello di lavoro originale, molto complesso e certamente non lineare né definitivo. Nell’aprile 2019, però, l’Osservatorio sul superamento degli Opg e sulle Rems ha inviato un questionario a tutte le residenze al fine di ottenere dati aggiornati sul funzionamento delle strutture stesse a partire dalla data della loro apertura. Ha risposto il 77% delle strutture, ossia 24 Rems delle 31 attualmente esistenti in Italia. Questi i primi risultati. Le residenze sono in larghissima parte dedicate alle misure di sicurezza definitive (il 66%), mentre le provvisorie sono il 31,7%. Il personale complessivo che vi lavora, in stretto contatto con la magistratura, è pari a 843 operatori tra psichiatri, psicologi, infermieri, oss, educatori, assistenti sociali e vigilanti, con un rapporto di 1,5 rispetto ai posti letto. I pazienti ricoverati sono 526, di cui il 10,6% è donna, ma oltre mille sono quelli transitati, con un alto livello di turnover. Per quanto riguarda la provenienza, il 41,4% prima era libero, il 39,7% viene dal carcere, il 10,1% dall’Ospedale psichiatrico giudiziario, il 2,7% da altra Rems e il restante 6,1% da altre strutture di ricovero. Le persone in lista d’attesa risultano 390, dato probabilmente sottostimato in quanto non disponibile per tre strutture.
Ma passiamo agli eventi critici: 90 sono trattamenti sanitari obbligatori (5,7%), 80 sono contenzioni (5,1%), quattro sono suicidi e quattro tentati suicidi (0,6% in totale), 202 sono aggressioni ad altri pazienti (12,8%) e 161 agli operatori (10,2%). Inoltre si segnalano 98 allontanamenti (6,2%). Infine sono stati richiesti alle strutture alcuni dati clinico-organizzativi, da cui è emerso che, rispetto al numero di pazienti transitati, i progetti terapeutico riabilitativi individualizzati predisposti entro 45 giorni dall’ingresso del paziente in Rems riguardano circa un utente su quattro (24,3%).
A partire dal 2017, l’Osservatorio sul superamento degli Opg ha intrapreso un viaggio nelle Rems. L’ultima struttura visitata è stata la struttura di Castiglione delle Stiviere (Mantova), a luglio del 2019. La visita, si legge nel rapporto, «ha riportato che l’ex Opg ha sì cambiato nome – ora è Sistema polimodulare di Rems provvisorie –, ma è sostanzialmente rimasto ciò che era prima della riforma. Al suo interno, infatti, si trovavano concentrate 160 persone, suddivise nei vecchi reparti dell’ex ospedale. In totale si tratta, sulla carta, di otto Rems da 20 posti ciascuna, con la struttura che mantiene ancora le sbarre e pratica la contenzione meccanica, pur se in numeri inferiori rispetto al passato».
Racconti dagli Opg, alla vigilia dalla loro chiusura
Le testimonianze che seguono sono tutte stralci contenuti ne “Gli intravisti”, di Jacopo Santambrogio, un cammino alla scoperta degli Ospedali psichiatrici giudiziari, dei volti e delle storie di chi li ha vissuti, iniziato nel 2013 e conclusosi nel 2015, compiuto insieme alla giornalista e fotografa Caterina Clerici. Un viaggio effettuato quando nel Paese era forte l’eco prodotta dalla denuncia della commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Ignazio Marino, in un momento di passaggio che avrebbe decretato la fine degli Opg e la nascita di una nuova organizzazione di cura e detenzione a carattere riabilitativo: la Rems appunto.
Fausto: «Va be’ era pedofilo… però è una persona umana che ho sulla coscienza, insomma. Eh, l’ho ucciso. […] C’erano queste persone totalmente imbottite di farmaci, in questo tugurio. Perché era il vecchio manicomio, in Castiglione paese. Tutto lo scrivere mi aiutava, perché facevo memoria di qualcosa che mi apparteneva e che stava montando. Sono così perché ho voluto essere così io. Noi siamo una somma di tutte le situazioni, è una pura sacrosanta verità. Se una situazione ci va male, ci segna; se ci va bene, ci fa stare bene. Non so chi lo abbia detto ma io, per sentito dire, dico “acconsento”. Il rapporto con gli altri è difficile qui. Bene o male tutto il mondo della psichiatria ti violenta, ti violenta mentalmente. Perché parlare con i dottori significa dovergli spiegare delle cose tue. […] Andare a scavare nelle proprie vicende personali può essere qualcosa che non nuoce, ma non si può sapere il passato di una persona».
Davide: «La mia esperienza in Opg iniziò nel maggio 1994 per poi essere interrotta dall’ammissione in comunità nel gennaio 2006. Adesso, visto che sono riuscito a fare anche abbastanza danni in sette anni di comunità, mi ritrovo in ospedale psichiatrico giudiziario. Comunque non è l’inferno, come alcuni possono pensare. Per me l’Opg, volendo essere obiettivi e vederlo da un’altezza che non è certo la mia, è una branca del sistema che cerca di non buttare via i casi disperati. In altri tempi quelli come me, quelli come noi sarebbero stati buttati via, isolati, chiusi a chiave e buona notte. Qua si cerca di non buttarci via. L’ospedale psichiatrico giudiziario, mi viene una parolaccia, potrebbe essere il buco del culo del mondo […]. La malattia mentale non è una cosa che hai, ma una cosa che si radica a tal punto nell’anima, la malattia mentale è una cosa che sei. Io non ho la schizofrenia paranoide, io sono uno schizofrenico paranoide, e non credo che sia solo un gioco di parole».
Fiorenzo: «Andai a Montelupo Fiorentino nel ’96 e ai dottori dissi quello che mi aveva spiegato l’avvocato: Sento le voci, sento odore di casa. Mi cominciarono a siringare, dopo 20 giorni: Non c’ho più niente! Me l’ha detto l’avvocato, rimandatemi in carcere! e mi rimandarono subito in carcere. Però l’Opg fu un precedente bruttissimo e tutte le volte che facevo casino in carcere mi mandavano un mese in osservazione in Opg. Ci sarò venuto 15 volte qui. Prima si stava molto male, ora è migliorato. Prima picchiavo le guardie. Mamma mia, pedate in bocca, manganellate, erano violentissimi, violentissimi, ti siringavano, letto di contenzione… ho patito tanto. […] Passò Ignazio Marino, all’epoca senatore e non riuscivo a parlare. Tra l’altro mi fecero una benzodiazepina che è un narcotico, potentissimo. Gli volevo parlare ma non ce la facevo! E Ignazio Marino disse: Ma in che condizioni è quest’uomo? Ma come lo avete conciato?. Il giorno dopo mi liberarono».
L’inchiesta è tratta dal numero di novembre di SuperAbile INAIL, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità