di Silvia D’Autilia
È la fine degli anni ’90, il cantautore Roberto Vecchioni decide di comporre una canzone per Alda Merini. Il titolo del brano “Canzone per Alda Merini”, appunto, non prestandosi a scelte denominative particolari, chiarisce fin da subito il motivo alla base della composizione: una dedica. Una manciata di minuti per raccontare un’esperienza. Qualche verso per illuminare un’esistenza.
“Alda, ma tu sei felice?” chiese un giorno Vecchioni alla sua amica e la risposta divenne genesi di una musica: “basta anche un niente per esser felici, basta vivere come le cose che dici, e dividerti in tutti gli amori che hai per non perderti, perderti, perderti mai.”
Se vivere è diventato sopravvivere, la sola linfa a tenerti in vita è il ricordo dell’amore. “Ogni uomo della vita mia era il verso di una poesia perduto, straziato, raccolto, abbracciato; ogni amore della vita mia, ogni amore della vita mia è cielo e voragine, è terra che mangio per vivere ancora.”
Ma quando il cantautore milanese incontra la poetessa e compone i versi della canzone, il dramma del manicomio, dei ricoveri al Paolo Pini di Milano, “è passato”, appartiene alla ragnatela di ricordi dolorosi, a una Palestina della mente indelebile.
Alda Merini nasce il 21 Marzo del 1931 e un giorno commentò così la sua venuta al mondo:
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenare tempesta.
(da: Vuoto d’amore, 1991)
E fu proprio così la sua vita, una tempesta di creazione, un turbinio di emozioni ingestibili, per cui anche la stanza di un manicomio poteva divenire poesia tra le sue mani. La Terra Santa è il nome della raccolta di poesie dedicate ai suoi ricoveri manicomiali e pubblicate per la prima volta nel 1984. Nell’antologia il manicomio è assimilato appunto a questo territorio geografico così dilaniato da sofferenze, perdite e orrori nel corso della storia.
Noi qui dentro si vive in un lungo letargo,
si vive afferrandosi a qualunque sguardo,
contandosi i pezzi lasciati là fuori,
che sono i suoi lividi, che sono i miei fiori.
Io non scrivo più niente, mi legano i polsi,
ora l’unico tempo è nel tempo che colsi:
qui dentro il dolore è un ospite usuale,
ma l’amore che manca è l’amore che fa male.
(da: Canzone per Alda Merini)
Il primo ricovero della poetessa al Paolo Pini avvenne il 31 ottobre del 1965 e da quella data fu una sequela infinita di entrate e uscite, di “benessere e malessere”, diagnosi, contenzioni ed elettroshock, come testimoniano i suoi versi. O forse, questa sua estrema acutezza dei sensi altro non era che l’ispirazione per la sua poesia, così come la sua poesia la prima cagione della sua “malattia”.
Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
[…]
ma andavamo verso le messe,
le messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.
[…]
Ma un giorno da dentro l’avello
anch’io mi sono ridestata
e anch’io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.
(da: La Terra Santa)
Arrivano gli anni ’80 e la legge 180 con lentezza risuona anche nel milanese. È tempo di riforme. È tempo di aprire le porte, levare le catene ai polsi dei matti e restituire a ciascuno le proprie passioni, perfino una macchina da scrivere.
Ma come? E la follia? I tanti anni di segregazione? Le contenzioni? I sentimenti negati? Chi è stato questo “eterno soccorritore”, che tra il vento, la bora e le navi che vanno via guardava già in età giovanile ai “baci assurdi dei matti”?
(Per quest’ultimo paragrafo si veda: A Franco Basaglia. Una poesia di Alda Merini. )