di Giuseppe Dell’Acqua
“Lo stato deve occuparsi dei cittadini per ciò che fanno o per ciò che sono?” ( M. Foucault)
“Negare la responsabilità significa non richiamare l’uomo alla sua responsabilità” (L.Wittgenstein,1947)
Che il manicomio criminale sia luogo orrendo tanto nella sua accezione letterale che simbolica è opinione ampiamente condivisa.
La concezione del disturbo mentale e le modalità di cura e di riabilitazione derivanti dalla (nuova) legge 180 hanno giustificato il dubbio di costituzionalità, non solo in ordine all’esistenza dell’ospedale psichiatrico giudiziario (O.P.G.), ma soprattutto intorno agli automatismi giuridico-psichiatrici che definiscono l’infermità di mente e con essa l’ incapacità di intendere e di volere come giudizio assoluto riferito alla totalità della persona e, logica conseguenza, la negazione della persona stessa, oggi, non più accettabile.
La soppressione del manicomio criminale, non solo perchè luogo di addizione e sedimentazione del “peggio” dell’istituzione carceraria e manicomiale, ma soprattutto perchè gli strumenti della psichiatria legale, i saperi e le teorie cui fa riferimento, risultano oggi assolutamente inadeguati. A più di un secolo dalla sua fondazione essi sono inutilmente classificatori, disfunzionali rispetto alla concretezza del destino istituzionale che riservano alle persone, fallimentari rispetto alle finalità di rieducazione, inserimento sociale e riabilitazione che in ogni caso e per qualsiasi cittadino devono essere connesse alla espiazione della pena. Peraltro la pesantezza del sistema incompatibile ormai con le esigenze democratiche, di eguaglianza delle nostre organizzazioni sociali, finisce per tradire anche la asserita capacità di protezione sociale: le deroghe e la sospensione anticipata delle misure di sicurezza non garantiscono più i cittadini “dal pericolo della follia” oltre a creare un’evidente disuguaglianza tra cittadini che commettono un reato.
In molti sembrano oggi essere d’accordo nel credere che l’unica funzione riabilitativa dell’OPG possa consistere esclusivamente nella sua soppressione.
Dopo i fervori, le discussioni e le proposte intorno a questa questione succeduti alla riforma psichiatrica (ricordo la proposta di legge Vincigrossi e un importante convegno tenutosi a Trieste nel 1984 a cura dell’Istituto Giuridico della Facoltà di Economia e Commercio e del Dipartimento di Salute Mentale), e il silenzio degli anni ’80, direi della palude in cui sono finiti questi problemi negli anni ’80, si sta riprendendo oggi a discutere e a proporre.
Per brevità e col rischio consapevole della estrema riduzione, si possono individuare due proposte, entrambe finalizzate alla chiusura dell’ospedale psichiatrico giudiziario. Le due proposte differiscono nel merito della premessa critica intorno alla questione.
La prima, che forse impropriamente chiameremo proposta di legge della Regione Toscana – Emilia-Romagna (sostenuta con molti distinguo anche da Margara), dispone la regionalizzazione degli istituti manicomiali e alle singole regioni attribuisce il compito di organizzare residenze riabilitative e di contenimento (sostituzione della misura di sicurezza con un ricovero in un istituto regionale di trattamento sanitario custodito). Tale proposta, dalla quale derivano necessariamente articolati aggiornamenti della norma sia del codice di procedura penale che dell’ordinamente penitenziario, privilegia il momento della cura suggerendo una territorializzazione del manicomio giudiziario ed un conseguente rapporto operativo e pratico con i servizi di salute mentale di quelle aree.
Ripropone sotto una vernice di “scientificità” vecchi automatismi deterministici, rispolvera determinanti biologici delle “personalità violente” , assume come oggetto da trattare la violenza sempre presunta e connessa alla malattia mentale. Annulla, cancella il soggetto (ancora) sommerso dalle evidnenze biologiche della malattia.
Non tocca questa proposta le questioni che fondano il rapporto psichiatria-giustizia, non affronta la questione dell’infermità mentale e della incapacità lasciando inalterato il concetto della non imputabilità, della irresponsabilità e in definitiva non altera la geometria del “doppio binario”, ovvero di una giustizia penale speciale per le persone affette da disturbo mentale.
Dunque si occupa, e bene, della esecuzione della misura di sicurezza, non discute le ragioni per le quali infermità, irresponsabilità, pericolosità, assenza di responsabilità soggettiva, costruiscono il sistema penale speciale. Ancora più in sintesi lascia inalterati gli articoli 88 e 89 del codice penale del 1930 relativi appunto alla infermità, semi-infermità e imputabilità.
La seconda, che forse altrettanto impropriamente chiameremo “proposta Corleone”, affronta con radicalità proprio la questione dell’imputabilità, suggerendo l’abrogazione in premessa proprio degli articoli 88 e 89, riportando dunque in giudizio l’imputato riconosciuto eventualmente affetto da infermità di mente. Questa proposta introdurrebbe un cambiamento reale e profondo, proponendo percorsi coraggiosi certo difficili ma sicuramente orientati verso percorsi di normalità.
E’ evidente che la questione, per quanto chiara, rivista oggi nella prospettiva storica, continui a contenere contraddizioni e dilemmi di non facile affrontamento.
Rivisitando i passaggi che costruirono la psichiatria forense e con essa i manicomi giudiziari, emerge il “positivo” spessore della cultura medica della prima metà del secolo scorso. L’individuazione di categorie come la “monomania omicida” e la catalogazione delle malattie mentali sembravano individuare allora nella follia il responsabile giuridico di crimini sia banali che efferati al di fuori dalla responsabilità del soggetto. La psichiatria allora nascente acquistava credito e potere funzionando non solo come cura dell’individuo, ma soprattutto e meglio come intervento di prevenzione e igiene pubblica: la crescita demografica, le strutture urbane, la manodopera industriale, il nuovo ordine della nascente società borghese doveva essere governato. La psichiatria e la medicina di allora si offrirono a svolgere questo compito. Il corpo sociale non più una semplice metafora giuridico-politica era diventato una realtà biologica e un campo di intervento privilegiato della medicina. E’ il medico il tecnico di questo corpo sociale, la medicina è prevenzione e igiene pubblica; la psichiatria diventa garante consapevole di fronte alla incomprensibilità e alla pericolosità della follia dell’ordine sociale minacciato.
La psichiatria forense e il manicomio giudiziario nascono all’inizio del secolo XIX da un incrocio, assolutamente chiaro oggi, tra la necessità di costruire nuovi codici penali e civili determinata dal nuovo assetto politico ed economico e l’affermazione dell’etica liberale che sostiene culture della sanzione legata a concetti di rieducazione che si adatttano alla natura del criminale. I crimini senza ragione o il quotidiano disturbo che vedono nella follia il responsabile giuridico rendono sempre più ampio l’intervento della psichiatria. La cura e la custodia del folle reo, come strumento separato e speciale di punizione, rispondono alla necessità di adeguare i trattamenti penali al folle. La finalità di trasformazione individuale e di contenimento della s-ragione sociale sono evidenti. La malattia mentale, in questo quadro, è omologata in tutto e per tutto a una visione clinica biologica naturalistica.
Il disturbo mentale, in una visione oggi storica, relazionale, contestuale, istituzionale, psicologica, non è più rappresentabile come frattura assoluta, soluzione di continuità dell’esistenza, condizione statica e immutabile. Il disturbo mentale assume valore e spessore in una dimensione relativa (in relazione alla persona) dinamica, dialettica, tanto contraddittoria con la vita, con l’esistenza quanto ad essa sempre riconducibile. Sarebbe stato inutile il lavoro di critica alle istituzioni totali, e dotarsi di una legge come la 180, se oggi non fossimo in grado di raccogliere queste affermazioni sia in termini teorici che etici e di trasformazione pratica.
La legge per l’assistenza psichiatrica, di cui peraltro ricorrono vent’anni dalla sua promulgazione, proprio in questo quadro ha avviato modalità di intervento molteplici e differenti. Ha costruito un quadro che può apparire confuso nella sua de-regolazione regionale e territoriale, ma risulta certamente positivo se visto come affermazione di diritto di cittadinanza a tutto campo, per tutte le persone ancorchè affette da disturbo mentale.
Non parliamo qui dei ritardi, delle resistenze e di tante stupidità amministrative e tecniche che comunque hanno prodotto e continuano a produrre danni, ma di un confronto, di un incontro, di uno scontro tra cittadini sani e cittadini malati al di fuori di schemi interpretativi precostituiti, al di fuori delle istituzioni, al di fuori di pregiudizi categorici.
Il senso della chiusura degli ospedali psichiatrici potrebbe cogliersi proprio in questa affermazione: il luogo letterale e metaforico (il manicomio) che conteneva la malattia e così contenendola la riproduceva, viene oggi a trovarsi all’interno di quel tessuto sociale che avrebbe dovuto proteggere.
La critica alla categoria della malattia mentale, ovvero della malattia mentale come categoria che tutto determina, introduce ad un rapporto vero quanto mai conflittuale con le persone malate, con i soggetti, con gli individui sofferenti, con i cittadini che, ancorchè malati di mente, vivono (devono vivere) la pienezza del loro diritto.
L’accettazione acritica della concezione naturalistica della malattia mentale,( come nella proposta di legge dell’ Emilia – Romagna ) la priorità del patologico, spinta all’estremo è arrivata, e arriva, ad invalidare i gesti pratici, le scelte, la vita concreta delle persone perchè tra esse – le persone – e la malattia resta un vuoto, un salto, sia in senso logico che analitico.
Affermare che la malattia non totalizza l’individuo corrisponde a dire che egli è un soggetto: una realtà concreta con la quale nelle pratiche terapeutiche e giudiziarie è necessario confrontarsi.
Come dire che è oggi possibile, abbiamo gli strumenti per farlo, arrestare il potere sottrattivo delle istituzioni psichiatriche e giudiziarie e promuovere invece visibilità dei bisogni, dei comportamenti, delle relazioni, dei soggetti. In estrema sintesi non è più possibile totalizzare la persona attraverso la categoria della malattia, ma si deve giocare su ogni piano la contraddizione tra questa e la normalità e la salute della persona stessa.
Tutto questo ha introdotto la nuova legge e tuttavia è stato lento il processo di integrazione delle persone affette da disturbo mentale, ora cittadini a pieno titolo, con le altre istituzioni sociali, ma soprattutto con le istituzioni giuridiche, penali, civili e penitenziarie.
Molto in breve: mutuando dalla legislazione francese del 1838, in Italia, in caso di reato, se vi sia sospetto di malattia mentale, il giudice ordina una perizia psichiatrica; se questa si conclude con un giudizio di incapacità di intendere e di volere dell’imputato lo si proscioglie senza giudizio, senza dibattimento e, se riconosciuto pericoloso socialmente, lo si avvia a un ospedale psichiatrico giudiziario (articolo 88 c.p.) per definiti/indefiniti periodi in relazione alla pericolosità sociale (sempre presunta).
Anche se positive modificazioni sono state introdotte dal nuovo codice di procedura penale nel 1989, la sequenza descritta è tuttora automatizzata: reato apparentemente incongruo – malattia mentale – incapacità – non imputabilità – proscioglimento – pericolosità sociale – manicomio criminale. Ognuno di questi passaggi per quanto detto è di per sè sospetto. Tutta la catena è ben più che sospetta. Questa sequenza pratica, dove è prevalente la presenza totalizzante della malattia mentale, ha determinato anche le modalità di esecuzione della pena, della detenzione nel caso di malattia mentale sopravvenuta . In breve e altrettanto automaticamente fino a non più di un decennio fa: detenzione – insorgenza di disturbo mentale – sospensione della pena – invio “per cure” al manicomio giudiziario.
Un diverso affrontamento di questa non ineluttabile sequenza è stato discusso e tuttora praticato dal gruppo di lavoro triestino ed ora trova riscontro nella cosiddetta proposta di legge Corleone che, come detto, consiste nella rivisitazione profonda del criterio di imputabilità. La malattia mentale non deve più ritenersi idonea a esimere dalla responsabilità soggettiva per il fatto commesso; l’autore deve avere la garanzia di stare in giudizio; in caso di condanna la pena deve essere espiata in apposite strutture adeguate alla situazione di salute del condannato. Noi aggiungiamo in rapporto costante e programmato con i servizi di salute mentale di quel territorio.
Siamo consapevoli della radicalità di questa scelta e tuttavia continuiamo a pensare, e cito Franco Rotelli, “che il giudizio di incapacità potrebbe racchiudere quel momento, quel gesto, mai la persona intera, e quel momento essere il limite massimo, il negativo che può confermare l’esperienza viva, lo scacco ultimo, il buco nero che parla della vita, l’assenza che costituisce la presenza. Ma potrebbe quel giudizio, e di solito lo è, essere il limite anche miserabile della nostra cecità di fronte non al silenzio ma ad una parola altra, non all’assenza (di responsabilità oggettiva) ma ad una pregnanza di opera, non all’incapacità ma finalmente ad una più intensa, estrema capacità di volere e di intendere capacità. Mai comunque deve risultare quel giudizio automatica conseguenza di malattia. L’evento incapacità (semmai possibile) è eccezionale… E converrà probabilmente relativizzare l’opposta nozione di capacità piena se storicamente legata al saper intendere e volere pienamente in questo assetto, in questa frammentata cultura che ha regole sempre più estranee, sibilline ed esoteriche per i più, che di culture altre sono portatori rispetto al linguaggio, alle pratiche, alle procedure penali e civili del diritto.”
Responsabilmente diciamo che il folle di norma è capace di intendere e di volere e pertanto deve restare in giudizio. Vogliamo così sottolineare tanto la sua responsabilità individuale, quanto illuminare i contesti, la storia collettiva di violenze e di abbandoni, i passaggi istituzionali, la ricerca del significato e delle ragioni dei comportamenti proprio nelle relazioni. Non per volontà di escludere e punire il colpevole ma perchè si possa includere, riconoscere, riappropriarsi delle realtà, anche le più estreme, che ci circondano.
Nella nostra esperienza abbiamo valutato quanto la possibilità di stare in giudizio e la conseguente sanzione (alla quale non necessariamente deve seguire la detenzione) abbia prodotto percorsi di riappropriazione e di consapevolezza dell’evento, in definitiva terapeutici. Sembra liberatorio alla fine che una porta si possa chiudere alle nostre spalle (anche quella del carcere) e lasciarci finalmente soli a ripensare ai passaggi della nostra esistenza estrema nella sua tragicità.
In realtà la “condanna esemplare”, ovvero la sanzione e la successiva sospensione della pena, può essere la soluzione nella maggioranza delle situazioni di cui in genere ci occupiamo. La società non ha interesse che l’autore di reati minimi, banali, quotidiani sconti una qualsiasi pena, ma conserva la necessità di sanzionare questi comportamenti facendo seguire alla sanzione una giusta quanto simbolica e rituale retribuzione.
Il limite del discorso sembra così spostarsi verso l’esecuzione della pena in conflitto con la necessità di cura per una presunta intenzione punitiva da parte di chi propone questi percorsi. Nella nostra esperienza proprio questo aspetto abbiamo messo a fuoco, analizzato e cercato con fatica strategie alternative di intervento. Oggi non un solo cittadino di Trieste è internato in ospedale psichiatrico giudiziario, malgrado reati gravi e gravissimi per mano di persone affette da disturbo mentale siano comunque accaduti nella nostra città. Pensiamo che l’uso critico della perizia, il lavoro in carcere, la vicinanza con i magistrati nel corso delle indagini assieme all’autore del reato abbiano prodotto notevoli ed evidenti cambiamenti di percorso. Naturalmente è la presenza del servizio di salute mentale, capace di incontrare le persone e i conflitti senza pre-selezioni e in aree di riferimento delimitate, che produce quella “presa in carico” che di per sè diventa critica della pericolosità sociale e del rischio di percorsi istituzionali invalidanti e alla fine alla richiesta di sanzioni e misure di sicurezza. Esiste una specularità tra mancanza di servizi, di relazioni, di capacità di ascoltare e anomia, solitudine, conflitto, rischio.
Dal 1978 appositi accordi col Ministero di Grazia e Giustizia conducono gli operatori del servizio di salute mentale di Trieste in carcere a salvaguardia del diritto alla cura del detenuto e della continuità terapeutica per il detenuto già malato di mente. Già oggi nella pratica è possibile non discriminare la possibilità di cura, il luogo della cura e la qualità della stessa per il cittadino detenuto. Spesso il servizio di salute mentale, il centro di salute mentale 24 ore, si è offerto come luogo di cura in corso di custodia cautelare e in attesa della fine del procedimento giudiziario. In alcuni casi modalità di alternativa alla detenzione per il detenuto al termine dei tre gradi di giudizio sono stati concordati dal servizio con i magistrati di sorveglianza e le autorità carcerarie. La persona che abbia commesso un reato grave e che presenti severi problemi psichiatrici, laddove tale condizione sia incompatibile con la detenzione, viene trattato, secondo un progetto terapeutico riabilitativo articolato e per un periodo di tempo prestabilito, ovvero fino al raggiungimento di un equilibrio psichico adeguato all’interno del centro di salute mentale 24 ore o di strutture residenziali comunitarie in regime di detenzione domiciliare, di libertà vigilata o di sospensione della pena.
In ogni caso le misure alternative alla detenzione e tutte le modalità di flessibilizzazione del regime detentivo (visite, lavoro in carcere, corsi di formazione) costituiscono un canale preferenziale attraverso il quale i servizi di salute mentale col magistrato di sorveglianza e con la direzione e gli operatori del carcere cercano di trattenere nel tessuto sociale (e cittadino) la persona che deve scontare una pena.
Si capisce quanto sono daccordo con la proposta di legge Corleone e quanto ci sia comunque bisogno di discutere, sia nel merito delle premesse, che nella pratica attuativa.
La soppressione del manicomio criminale passa attraverso una profonda revisione dell’istituto dell’incapacità, della pratica peritale, dell’abolizione degli automatismi che da questa derivano, da una riconsiderazione del destino istituzionale del soggetto in forme sempre più articolate al di fuori della contrapposizione tra sanzione, misure di sicurezza e cure. E’ questo il punto di partenza dal quale possono discendere pratiche e soluzioni sicuramente difficili e conflittuali, ma le uniche che possano riguadagnare faticosamente senso ad una socialità, ad un sistema di scambi sociali e di valorizzazione dei comportamenti: senza esclusione alcuna. Se la discussione intorno alle proposte di legge contribuirà ad illuminare la fragilità dei confini tra delinquenza e follia e di queste con la norma individuale, se stimolerà coraggiose alternative nella considerazione del fallimento dell’utopia positivista che ha fondato la psichiatria e la perizia psichiatrica e quanto altro, la fatica della discussione non sarà stata inutile e gli uomini e le donne in questo paese avranno fatto un piccolo passo avanti.
Giuseppe Dell’Acqua
Trieste maggio 1998
Per questo contributo sono debitore a tutti gli operatori che in questi anni hanno lavorato a Trieste intorno a questi problemi ed in particolare a Franco Rotelli e Roberto Mezzina.