di Lavina Nocelli
da La Stampa 18 giugno 2023
Siamo appena saliti in macchina di Marco quando il cielo si chiude, augurando alla giornata pioggia battente e folate di vento fresco. “Matteo ti sta aspettando, è da ieri sera che mi chiede di te. Lo andiamo a trovare al lavoro”, mi anticipa, infilandosi in una strada ripida che risale il centro di Perugia. “È curioso di conoscerti”. Marco Casodi, direttore generale della ‘Fondazione La Città del Sole’, si chiude dentro la giacca di pelle nera, poi sbuffa un tiro di sigaretta: “Sono ventisette anni che abitiamo insieme. All’inizio al cinema si alzava ogni trenta secondi, idem al ristorante: non riusciva a stare seduto. Ho un po’ forzato la mano”, spiega mentre entriamo da Monimbò, cooperativa sociale con la quale la Fondazione collabora. Matteo ci viene incontro con passo veloce, scrutandoci dietro delle lunghe ciglia nere: “In che via abiti”, mi fa, tirandomi per una manica, “e come fai di cognome”, ripete mordicchiandosi un’unghia. “Noi diamo una mano nella gestione della bottega, Monimbò si rende disponibile ad ospitare esperienze d’inserimento lavorativo di nostri pazienti”, tra cui Matteo, spiega Marco, che viene due volte a settimana. È il ’96 quando vanno a vivere insieme: l’idea della Fondazione arriva sull’onda della loro convivenza, nel ’98, col fine di innovare il campo psichiatrico attraverso la creazione di progetti che mettano al centro del percorso di recupero prima la persona, poi la famiglia e la comunità di riferimento. L’obiettivo è attivare le risorse personali, ambientali, dormienti e residue che ogni singolo individuo possiede, evitando l’istituzionalizzazione. Il Progetto P.R.I.S.M.A. Programma di Ricerca-Intervento Salute Mentale e Autonomie, è la prima risposta che la fondazione dà alla comunità: “Casa nostra rimane un ibrido, la lasciamo fluttuare fuori dalle regole: ha creato una famiglia. Il progetto prevede che con il paziente ci abitino almeno due persone”, spiega Marco. Nato come alternativa alla convivenza ‘familiare’, questo costituisce un prospetto che ruota intorno ‘all’abitare a casa propria’, orientato ad autodeterminarsi e realizzarsi. Nell’incontro tra un bisogno abitativo e una convivenza supervisionata, dieci pazienti in carico alla Fondazione vengono inseriti in un’esperienza di residenzialità leggera dove, in collaborazione con i Dsm e i Csm territoriali, vengono supportati e supervisionati da educatori e dallo staff clinico della Fondazione. “Come fai di cognome”, mi ripete ancora Matteo, “e in che via abiti”. “Ci sono state diverse persone che sono passate da casa”, spiega Marco, ora sono solo loro due. “Domani ci sei?”, sollecita Matteo. Marco lo rassicura, “stasera dorme con noi”. Poi Matteo mi richiede la via, il cognome, da dove vengo. La sera stende un primo velo sulla città.
Casa di Lorenzo è appena fuori le mura. “La nostra è una rete in costante movimento, dove i nodi sono le realtà che la fondazione ha messo in piedi. Crediamo fortemente che il vivere in autonomia, in una casa dove puoi condividere i tuoi spazi e le tue emozioni, sia fondamentale”, mi spiega Antonio Imperato, educatore socio-pedagogico della Fondazione, mentre saliamo le scale. “Non è un percorso lineare. Il paziente è libero di poter comunicare con questi nodi liberamente”, rispettando delle proprie dinamiche di desiderio. Lavinia, una coinquilina, mette su il caffè mentre Lorenzo finisce di prepararsi. “Un mio amico mi ha chiesto: ‘Ma è una cosa sicura? Non è che magari viene e ti fa qualcosa?”, ma è stato un episodio. Il concetto di malattia mentale è anche questo, un legame con la figura della pericolosità: spogliata dell’individuo, della sua identità e del suo volere, rimane la diagnosi, un contorno umano sfumato. La Fondazione fa questo, ribalta la posizione statica del malato: lo riabilita alle relazioni, al lavoro, alla comunità e ai suoi movimenti. Perché le riforme, le leggi che strutturano gli interventi e organizzano il territorio ci sono, ma poi devono essere applicate anche a seconda del contesto di riferimento. “Ho cambiato diversi coinquilini. Sono sei anni che sono qui: la mattina vado al Diurno, nel pomeriggio ho tennis. Tre volte a settimana lavoro da Numero Zero”, il ristorante inclusivo voluto dalla Fondazione, spiega Lorenzo stendendo i vestiti bagnati. In casa ci si organizza secondo un calendario concordato in comune: delle sere Elisabetta resta a casa con Lorenzo, altre volte Lavinia, oppure si esce insieme. Poi c’è anche il lavoro, lo studio: l’intreccio della clinica con la vita, la malattia come superamento di paradigma rigido. “Le relazioni creano l’identità e modellano il comportamento: il nostro lavoro non è creare progetti, ma creare relazioni”, spiega Antonio. Educare alla cura, al concetto di salute mentale.
Il Centro Diurno Psichiatrico FuoriPorta nasce per necessità nel 2019, col fine di portare avanti il progetto P.R.I.S.M.A., che per legge ‘deve entrare a regime’. Serve però una struttura che ricalchi l’esperienza e il modello operativo della Fondazione, e non un immobile dislocato fuori dalle mura cittadine, al riparo dallo sguardo della comunità, dove spesso vengono collocate questo genere di realtà. L’ex Ospedale San Giacomo viene svuotato della sua connotazione originaria di struttura sanitaria. Già in passato destinato alla ristorazione, diviene un contenitore di persone, storie e attività: una struttura socio-sanitaria e socio-culturale. Superando la norma, dentro FuoriPorta viene inaugurato Numero Zero, il primo ristorante inclusivo dell’Umbria, dove lo staff è composto almeno al 50% da pazienti psichiatrici. Mentre Vanni esce ed entra Alessio per il turno serale, con Livia che si ferma all’ingresso per confrontarsi con Antonio, la sala cambia forma, e assume i toni di un ristorante. È sabato, è tutto pieno: le luci vengono abbassate, e i tavoli riordinati secondo le prenotazioni. Vengono disposte delle tovagliette dove sono indicati i punti dove collocare le forchette, i coltelli, e i bicchieri. “Ci deve essere uno sguardo che non deve dare per scontato nulla”, spiega Vittoria Ferdinandi, la direttrice. Bisogna partire da un concetto per lavorare nella malattia mentale: il rispetto del funzionamento individuale. “Ognuno funziona in modo differente, e ognuno può essere messo nelle condizioni di funzionare”, ma è una visione impegnativa, insolita, che sfugge alla collettività. “L’esigenza era un po’ doppia. Da un lato restituire una dimensione di vita ai pazienti, e dall’altro inserirci nel discorso dominante: il lavoro per i pazienti esiste, ma sono sempre impieghi nascosti, decentrati. Ci interessava mettere il lavoro del diverso e del disabile a contatto con la comunità”, per tentare di riabilitarla. “Sfidare questa paura della diversità”, che la malattia mentale controlla. Numero Zero funziona con il suo tempo, che è diverso da quello standard dentro il quale siamo abituati a muoverci. Daniel mi aspetta fuori con una sigaretta accesa, i capelli tra il bianco latte e il fucsia acceso. Sogna il mare, vorrebbe aprire un giorno un locale che affaccia sulla spiaggia: il profumo delle onde, la libertà che solo un orizzonte impreciso emana. “Perugia mi sta un po’ stretta”, mi confessa. Poi aspira: “Se nel servizio mi ‘prendo male’ posso contare su Vittoria, che mi aiuta e mi conforta. Negli altri lavori ognuno deve pensare per se stesso: se stai male finisci con lo stare a casa, e addio lavoro. Qui è diverso”, perché può essere modificato il contratto di lavoro, o concesso del riposo. Soprattutto, si può sempre tornare. “Devo essere un po’ più professionale con i clienti, devo migliorare, ma ho i miei affezionati”, che vengono solo per lui.
Alla fine il viola dell’acquazzone inghiotte Perugia. Con Raffaella Serra, direttrice dello staff clinico della Fondazione, ci ripariamo negli studi di registrazione di Stazione Panzana, la web radio della struttura, dietro le cucine di Numero Zero. “Noi ci prendiamo cura di un incontro, che è quello tra mondi diversi che vivono la stessa realtà attraverso coordinate completamente differenti, e che non riescono normalmente a comprendersi. La nostra psichiatria lavora con la relazione, con la soggettività”, che sembra una cosa scontata, ma non ci si prende più cura dell’incontro con l’altro. Per questo è necessario un passo ancora più profondo per comprendersi. “La malattia mentale come rottura di un dialogo, e la cura come ricostruzione di una comunicazione con l’altro. Questo lo facciamo all’interno di scenari di vita quotidiana, della vita reale di tutti i giorni”, ridando spazio all’identità, schiacciata sotto il carico della diagnosi. Un’idea di salute mentale.