Dalla prefazione di Paolo Mazzarello, Professore Ordinario di Storia della Medicina, Università degli Studi di Pavia
Quando Angelo Bravi – l’autore di quest’opera importante sulla psichiatria coloniale che Luigi Benevelli e Marianna Scarfone ripropongono oggi – si trovò negli anni ‘30 a esercitare la professione medica nella Tripoli multietnica ora inimmaginabile, l’Italia possedeva la sua “quarta sponda” da più di vent’anni, quando la parte costiera della colonia nordafricana era stata conquistata con l’impresa giolittiana contro l’impero ottomano. Dopo la presa fascista del potere nel 1922, Benito Mussolini si era impegnato con forza e violenza, a imporre il nuovo ordine coloniale. Nel 1933 si era conclusa la dura fase repressiva imposta alla società libica dall’esercito italiano e furono chiusi i campi di prigionia dove erano state deportate centomila persone. Con l’avvento al potere in Libia di Italo Balbo, nel 1934, si avviò una nuova fase del dominio coloniale. La quarta sponda diventò una sorta di laboratorio sociale fascista dove applicare dalla base l’idea di costruire una società corporativa integrata nelle sue varie componenti che pure dovevano rimanere distinte. L’immigrazione dall’Italia aumentò notevolmente.
Balbo si batté per far assegnare lo status di cittadino italiano anche alla locale popolazione. In una Libia pacificata si vagheggiava la possibilità di una convivenza fra cittadini di religione cattolica, islamica ed ebraica. Qui arrivò nel giugno 1935, per il suo servizio militare, il sottotenente Angelo Bravi, forte della laurea in medicina ottenuta con il massimo dei voti e la lode a Pavia. Gli anni universitari avevano rappresentato, per il giovane medico, un periodo di grande apertura intellettuale grazie all’ambiente culturalmente vivace che aveva incontrato. In un humus culturale vivace e aperto, nonostante la cappa totalitaria fascista che non riusciva a penetrare all’interno del perimetro collegiale, Bravi percorse le prime fasi della sua formazione medica, poi perfezionata alla fine dei corsi con la frequenza della clinica psichiatrica e neuropatologia. Laureato nel 1933, a ventidue anni, due anni dopo Bravi giunse in Libia nell’ Ospedale Coloniale Vittorio Emanuele III di Tripoli. Aveva già vissuto un’esperienza significativa nello studio e nel trattamento dei pazienti affetti da malattie nervose e mentali. I problemi da fronteggiare nella colonia furono subito molti. Bravi dovette lavorare in condizioni difficili per le penurie dell’organizzazione sanitaria locale e a causa delle differenze culturali e di lingua che rendeva ardua la relazione medico-paziente con i nativi nordafricani. Dapprima Bravi lavorò nel reparto otorinolaringoiatria, poi in quello di medicina interna, infine giunse nel reparto delle malattie nervose ritrovando la dimensione professionale, la vocazione della sua vita. Tornato in Italia per un breve periodo, dopo un’esperienza deludente all’OPP diBrescia, tornò in Libia nel 1938 dove, dal primo luglio 1939, diventò direttore dell’appena inaugurato Manicomio di Tripoli. Iniziava allora una grande avventura scientifica e umana. Bravi sviluppò il tentativo di applicare la psichiatria in un universo culturale completamente diverso da quello europeo ponendo all’ordine del giorno la possibilità di esplorare una dimensione nuova della ricerca sulla patologia nervosa e mentale. Con la consapevolezza di essere un pioniere per l’Italia in questo genere di studi, condusse un’opera clinica e di ricerca basata sulla necessità di essere empatico, nel tentativo di superare i muri contrapposti generati dalle barriere culturali e dalle differenze di lingua.
Questi Frammenti di psichiatria coloniale costituiscono una testimonianza scientifica straordinaria di una medicina che cercava, in un contesto inimmaginabile, di abbattere le barriere e di capire l’altro con animo partecipe.