A proposito dell’omicidio di Civitanova. Razzismo, indifferenza, psichiatrie…
di Francesca de Carolis
Alcune brevi riflessioni, e qualche domanda, a proposito dell’omicidio di Alika Ogorchukwu, l’uomo nigeriano ucciso a Civitanova Marche. Alcune riflessioni ora che piano piano la terribile vicenda via via sembra sbiadirsi, sommersa da altri incalzare…
Il nostro pensiero va alla moglie, alla famiglia e all’intera comunità nigeriana così comprensibilmente sconvolta… mentre, oltre il dolore di chi in questa tragedia è coinvolto, rimangono, pesanti come macigni, gesti e parole, definizioni che lavorano dentro di noi e plasmano il nostro modo di rapportarci agli altri, malintesi per arginare le nostre paure. Malattia, pericolosità, ad esempio…
Pensando al giovane che quell’omicidio ha compiuto, Filippo Ferlazzo. Chi lo ha conosciuto, chi conosce il suo percorso fra problemi di droga e difficoltà dei rapporti familiari, ne parla come di persona in grado di stabilire rapporti amichevoli, affettuosi, anche. Che avrebbe voluto fare il pittore… ché dipingere, leggo, era pure un modo per “sotterrare i suoi demoni”.
Ne ho parlato con Peppe Dell’Acqua che non si stanca mai di spiegare che bisogna sempre riportare e ripercorrere la storia della persona, per comprendere, collocare quello che è accaduto all’interno di una storia, e non si stanca mai di ricordarci che ognuno è la sua storia che non può annegare in un “marchio” da affibbiare in tutta fretta, per catalogare, allontanare da noi ciò che non vorremmo riconoscere come parte, nel bene del male, di noi tutti. A cominciare da tanta violenza, la quantità di sangue che ci viene rovesciata addosso quotidianamente da tv, cinema… e poi ritorna nelle cronache intorno…
Dopo l’omicidio, per Ferlazzo si è parlato subito di “persona socialmente pericolosa” e di “bipolarismo”, per dire di una condizione dove la persona vive oscillazioni periodiche di umore.
“Dare/ricevere subito una diagnosi psichiatrica, significa portare fuori da noi ciò che vorremmo non ci appartenesse. Ricorrere subito a una diagnosi psichiatrica significa dire che la malattia è l’unico colpevole e dimenticare tutto il resto. Di questo dovremmo liberarci, perché la perizia psichiatrica porta su un altro binario che subito cancella la storia individuale e si perde la strada nella normalità. Dimenticando che il gesto di uccidere è cosa che fa parte dell’umanità, con tutte le conseguenze che per ognuno questo deve comportare. Penso ai poliziotti statunitensi che hanno ucciso uomini di colore…”
E l’immagine, fra le tante, che subito torna, quella dell’omicidio di George Floyd. Pensateci, il gesto ultimo è esattamente lo stesso… di uomo che si accanisce, soffocandolo, su altro uomo. Bianco l’uno, nero l’altro. Anche per l’omicidio di Civitanova questione di razzismo?
“Quel giovane ha subito voluto dire di non essere razzista, ma, mi chiedo, avrebbe fatto quello che ha fatto se quell’uomo non fosse stato nero? C’è un razzismo diffuso che è dentro di noi, e che agita tensioni e conflitti nel nostro mondo interno. Chiediamoci se le cose sarebbero andate diversamente se l’altro fosse stato un bianco… il razzismo diffuso è anche dentro di noi e condiziona quando meno ce lo aspettiamo il nostro sentire e i nostri comportamenti… riguardate quel video, dove tutto accade in quattro, cinque minuti…”.
E come non pensare che a comporre quel razzismo diffuso è anche l’indifferenza, e le responsabilità individuali si intrecciano a quelle collettive. Non sarebbe intervenuto nessuno anche se la vittima fosse stata un bianco e viceversa l’aggressore persona di colore? Non ho la risposta certa, ma chiediamocelo…
Ritornando alla questione del disturbo mentale, che da un lato, come si diceva, sposta il male e la colpa lontano da noi, dall’altra viene subito messa in gioco a invocare irresponsabilità, Dell’Acqua mi ricorda un’intervista di qualche tempo fa di Franco Rotelli, a proposito di una serie di tragedie italiane… insomma, la scia di sangue della nostra quotidianità…
“A me molti di questi protagonisti, spiega Rotelli, sembrano davvero matti. Persone fuori di testa, malate. … È gente che non metterei tanto dentro ciò che noi indichiamo quotidianamente come persone normali. Ma, attenzione, l’essere matti tutto dice tranne che uno status di irresponsabilità. Beh, gli avvocati di difesa parlano in quasi tutti i casi di infermità mentale, di incapacità di intendere e volere… No, no. Nella mia decennale esperienza di psichiatra non c’è matto che nel commettere un illecito grave, un crimine, non sapesse che cosa stava facendo. E’ una menzogna quella della ‘incapacità di intendere e volere’ che si rovescia sulla malattia mentale aprendo tutti i varchi alla marginalizzazione delle persone malate e ogni tipo di violazione dei loro diritti – tanto non sono ‘responsabili’. Con la ‘irresponsabilità’ si innesca poi un orrore giuridico con la scomparsa dal processo e dal giudizio della persona incriminata, cosa che non ha alcun senso”.
Non c’è matto, dunque, che nel commettere un illecito grave, un crimine, non sappia che cosa stia facendo. E le parole che, ho letto, Filippo Ferlazzo ha pronunciato in qualche modo sembrano confermarlo: “Quello che ho fatto è la mia condanna”.
“Quasi desiderio – conclude Dell’Acqua – di una porta che si chiuda alle sue spalle e lo lasci nella solitudine del suo pensare. La condanna è ritornare col pensiero sulla propria colpa, e dovrebbe avvenire in un modo o nell’altro…”
E noi che, ricorda Dell’Acqua, siamo tutti figli di Caino, piuttosto che catalogare per allontanare da noi cosa che ci fa paura, dovremmo cercare di comprendere: “Sto parlando di una comprensione che ci aiuti a dire con Jean Paul Sartre che “tutto ciò che è umano ci appartiene”. Solo la comprensione nella normalità può esorcizzare la paura che avvertiamo, dolorosa e “tragica” dentro di noi ed intorno a noi”.
E questo appartenerci non può naturalmente significare giustificare. Significa altro, e ritorno alle parole di Rotelli, che respinge per le persone con disturbo mentale l’orrore giuridico dell’irresponsabilità: “Visto che c’è il carcere come luogo di espiazione, devono andare in carcere come le altre persone che commettono reati. Un carcere magari che sia in grado di costruire sul soggetto la pena. Soggettivare che può voler dire considerarli cittadini come tutti gli altri – nei diritti e nei doveri – nella buona e nella cattiva sorte”.
Visto che c’è il carcere. In attesa, per noi che lo riteniamo necessario, che il sistema delle pene cambi per tutti. Ma qui si aprirebbe altra pagina, a proposito della nostra incivile civiltà…