E’ utilissimo leggere le note di Renato Ventura per sentire la vicinanza al gruppo e la condivisione affettuosa di quanto andiamo facendo. Ma anche un qualcosa che lascia sempre perplessi. Come se fossimo gli eterni difensori della legge 180. La proposta del disegno di legge certamente non tocca la legge 180 e, come credo Renato abbia colto, vuole cercare di riavviare percorsi di conoscenza anche per uscire da tanti luoghi comuni che anche in queste note si avvertono.
di Renato Ventura scritto il 12.05.2022
Non avendolo potuto fare durante l’incontro di ieri prendo la parola oggi (metaforicamente) per esprimere qualche considerazione critica integrativa di quanto è stato detto.
Innanzitutto voglio ringraziare Peppe e il Forum per l’opportunità di sviluppare, all’interno di un Agorà particolarmente qualificato e appassionante un confronto che sento sempre più necessario e che altrove mi è apparso di spessore assai modesto e spesso di bassa cucina politica.
Ho scoperto il Forum tardivamente, nell’ultimo anno, e condivido con Peppe, che ho conosciuto in occasione di questa frequentazione, la sofferenza per quanto accade nel campo della Salute Mentale. Ne ho esperienza come genitore e professionista e, più recentemente, come presidente di associazione di familiari (La Tartavela ODV di Milano).
Vorrei innanzitutto dare un parere di ordine pratico: a parte la presentazione di tesi o proposte articolate da parte di oratori scelti volta a volta, gli altri interventi andrebbero limitati rigorosamente a pochi minuti (massimo 5-10) per dare l’opportunità a tutti di parlare.
C’è infatti la cattiva abitudine di pochi (spesso sempre gli stessi) di impadronirsi del microfono e (stra)parlare per un tempo prolungato spesso con argomenti autoreferenziali o con valore di testimonianza o riferiti a piccole realtà locali: tutte le passerelle stimolano il nostro narcisismo oratorio ma francamente provo spesso un senso di fastidio e di insofferenza.
E’ un peccato perché tradisce la filosofia di questi incontri che dovrebbero permettere a tutti di confrontarsi su temi di comune interesse, evitando personalismi eccessivi, anche se, in parte, inevitabili.
La testimonianza personale è fondamentale ma deve essere inserita in un discorso generale.
Ripercorrendo l’incontro e andando a memoria e senza pretesa di una rigorosa disamina, devo confermare il grande interesse della proposta di legge Dirindin, ma sul punto vorrei fare alcune considerazioni.
E’ stato detto che non ci sono le condizioni politiche e culturali perché venga approvata. Con tali premesse dovrebbe diventare una sorta di Bibbia che, se non troverà applicazione legislativa, dovremmo tenere come L’Arca degli ebrei, per conservarla e utilizzarla come difesa dai “nemici della 180”. Non credo a questa visione salvifica e immutabile della legge 180, che pure ho apprezzato e apprezzo per i radicali cambiamenti che ha determinato nel campo della SM. L’appassionante difesa che ne ha fatto il giurista Piccione è apprezzabile ma, a mio parere, rischia di diventare un nuovo muro di Berlino che non permette di modificare gli assetti normativi in profondità e radicalmente in tema di salute mentale.
In un’altra sede ho parlato di “peccato originale” relativo alla legge 180 perché la sua incorporazione nella legge 833/1978 istitutiva del SSN ha sostanzialmente delegato totalmente la Salute Mentale alla psichiatria inserendola pertanto in un contesto di tipo medico. Se all’epoca della 180 questo inserimento dei disturbi mentali nell’ambito di SSN era stata una indiscutibile vittoria degli psichiatri di allora (io ero tra questi) che da “manicomiali” diventavano ospedalieri o facenti parte del SSN, oggi a me sembra che il connotare il disturbo mentale in senso medico biologico comporti di necessità la sua gestione in termini sanitari e giustifica (apparentemente!) il ricorso alla psicofarmacologia come soluzione del problema del disagio e dei disturbo mentale.
Sappiamo che i gravi disturbi mentali (non le malattie mentali che, come malattie della mente, non esistono), le psicosi, non sono curabili nel senso che in medicina si dà solitamente e tradizionalmente al termine cura e che decisivi sono i cosiddetti determinanti sociali che sono causa e conseguenza del disturbo mentale grave. Gli psicofarmaci non curano la malattia mentale. Parlare di malattia mentale è improprio perché non di malattia della mente si tratta quanto di distorsioni e peculiarità di vivere e percepire la realtà e il mondo di certe persone che, per tale motivo, sono marginalizzate e stigmatizzate. Ho proposto di abolire il termine di malattia mentale. Il (troppo) famoso DSM parla infatti di “mental disorders” (disturbi mentali).
Bisogna però tener conto che, d’altro canto, la società si difende da situazioni e persone che mettono in crisi la sua stabilità.
In quest’ottica la 180 e la sua, pur pregevole, rivisitazione e riscrittura adattata alle nuove acquisizioni ed esigenze, rischia di essere la fortezza Bastiani del Deserto dei tartari. In questa ridotta, come accade a Mariupol nei cunicoli dell’acciaieria, si sono asserragliati i difensori della 180 e della e della sua revisione aggiornata. Spero non sia inevitabile la loro caduta da parte dei nemici della 180. Ma il rischio c’è quando ci si difende asserragliandosi su posizioni alla lunga indifendibili.
In sostanza mi sembra necessario un radicale ripensamento della Salute Mentale (che non è rappresentata e non deve essere gestita solo dalla psichiatria) operando, anche sul piano delle proposte legislative, per una valorizzazione della componente psicosociale del disturbo mentale grave e affidando anche ad altri interlocutori politici, per esempio il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la gestione del problema rappresentato dal disturbo mentale grave e delle sue ricadute sociali.
Quello che infatti occorre è una gestione di tali derive sociali e lavorative, determinate dalla presenza di un disturbo mentale, e dei necessari sostegni a livello individuale e sociale.
Più che voler curare e “normalizzare” le persone affette da disturbo mentale Io credo, dopo molti anni di esperienza sul campo, che vada fondamentalmente rispettata l’individualità e la scelta di vita delle persone con disturbo psicotico garantendo loro una vita il più possibile compatibile con le loro peculiarità e stili di vita, socializzando il problema. Si tratta Infatti più che di curare il disturbo mentale di curare la società che deve diventare aperta e in grado di accogliere le persone devianti senza pretendere l’impossibile normalizzazione o forzandone l’integrazione.
Oggi si parla di metaverso (è la realtà virtuale, accessibile con gli attuali strumenti informatici e internet). Io invece penso al multiverso: l’universo parallelo abitato dagli psicotici.
In questo senso credo che si debbano rispettare le loro peculiarità di pensiero e di modo di essere e, nei limiti del possibile, le loro scelte di vita e le loro inclinazioni.
Questo non significa tentare in tutti i modi di integrarli, anche a livello lavorativo e cercare di controllare le istanze auto distruttive o aggressive che talora, ma più spesso quando non si sentono capiti o accettati, possono caratterizzare i loro comportamenti (gli “agiti” o acting out).
Anche tutta la problematica che ruota intorno all’ obbligo delle cure (Aso, TSO, contenzione, REMS ecc.) deve essere ripensata separando le funzioni dei servizi di psichiatria da quella dell’autorità giudiziaria in modo più netto.
Si parla di “doppio binario”. Ebbene, che allora sia veramente un doppio binario: se una persona delira o minaccia di uccidere i propri familiari sarà il 112 a provvedere e se non lo farà sarà penalmente perseguibile per aver mancato ai doveri d’ufficio. Perché lo psichiatra dovrebbe certificare che la persona deve essere curata? Di cosa dovrebbe essere curata? Chi deve certificare che non sussistono le condizioni per curare la persona a casa o che si rifiuta di farsi curare? E’ discutibile che entrando nell’ordine di idee del doppio binario lo debba fare lo psichiatra. Bisogna avere il coraggio, parlando il doppio binario, di dire che è un problema di polizia, se ci vuole essere coerenti. La mia è in parte una provocazione, ovviamente.
Infatti le cose sono più complesse e bisogna ripensare al concetto di pericolosità sociale (lo si dice da anni) e, a mio parere, riprendere forse il concetto di pericoloso a sè e agli altri che, più limpidamente individuava nella pericolosità sociale il motivo dei provvedimenti restrittivi.
Mi rendo conto di essermi cacciato in un ginepraio ma la mia piccola competenza medico legale mi fa dire che, dal momento che viene posto il problema del doppio binario, coerenza vuole che gli psichiatri si rifiutino di fornire, in sede peritale, giudizi di pericolosità sociale.
D’altro canto anche ieri sono stati denunciati fatti di cronaca che non possono essere misconosciuti: Fatti di sangue, spesso all’interno delle famiglie che concernono persone affette da disturbo mentale non seguite dai servizi o che interrompono i trattamenti. Mi rendo conto che il rischio è che possono essere strumentalizzati, come mi aveva detto Peppe in una conversazione privata quando gli sottoposi un fatto di cronaca sanguinoso originato da una presumibile carenza di servizi psichiatrici nel gestire queste situazioni. Il rischio di una Controriforma è sempre in agguato. Tuttavia ritengo che se si appartiene al cosiddetto “campo largo” non dovremmo avere timore di affrontare queste questioni. Il rischio infatti è di mettere la polvere sotto il tappeto
Su questi argomenti Io credo che dovremmo interrogarci a fondo con l’aiuto di Mezzina che conosce le realtà europee e internazionali. Io sono conoscenza, nei casi nei quali c’è un rifiuto del trattamento, di poche realtà internazionali che sono alternative nostro TSO. Mi piacerebbe che in sede di Forum questi argomenti venissero approfonditi. Certamente le proposte che concernono questo punto estremamente delicato sono presenti nella PDL Dirindin e possono costituire un’ottima base di discussione
Per finire ancora qualche piccola notazione che riguarda quello che ho chiamato il reducismo dei triestini. Ho grande stima di Peppe e lo ribadisco, ma la sua visione di Trieste come faro della psichiatria si scontra con una realtà politica molto diversa da quando lui faceva la rivoluzione con Basaglia e pecca di un certo provincialismo che non tiene conto delle mutate condizioni politiche e delle diverse condizioni di applicazione della legge in sede regionale e sulla base della c.d. devoluzione della sanità alle regioni. Tale legge andrebbe rivisitata.
Un’ultima notazione: quando Peppe parla di rischio che i nostri incontri possano essere quelli di pensionati di una bocciofila e Mezzina segnala l’assenza di giovani al Forum (io aggiungo degli psichiatri che fanno capo all’Università e alla rete che frequenta il Forum) penso si riferisca proprio al, mai abbastanza condannato, rischio della autoreferenzialità particolarmente presente fra gli psichiatri.
E’ pur vero che non si può allargare troppo il camp perché si rischi di inquinarlo.
Come spesso mi accade mi rendo conto di aver posto più problemi che soluzioni ma una impostazione psicoanalitica lungamente perseguita mi impone di fare domande e porre interrogativi più che dare risposte.