Le scorse settimane il Forum ha pubblicato i dati della Direzione Generale Sanità della Lombardia sulla contenzione negli SPDC. I dati e un commento sono stati diffusi dalla Campagna per la Salute Mentale.
Nel rimandare al testo, non posso non esprimere stupore. (vedi il testo) Sia per quanto ho letto che per l’assenza di commenti e di critiche ulteriori.
Brevemente: dai dati emerge che, ogni anno, nei 53 SPDC lombardi (va detto che in alcuni, ma pochi, non si ricorre alla contenzione) di media 10 persone su 100 rischiano di subire la contenzione. Sono circa 2.000 all’anno le persone che vengono contenute mentre gli episodi di contenzione totali sono circa 5.000. Il che vuol dire che la contenzione è un intervento che frequentemente si ripete per la stessa persona.
Leggere poi delle ore totali di contenzione (circa 55.000, dico 55.000 ore!) crea sgomento. Se poi andiamo a leggere il dato relativo alla durata delle contenzioni stesse, prendiamo atto che quasi la metà delle persone viene contenuta per tempi non superiori alle 24 ore e circa il 10 % per più di 24 ore. Sappiamo che questo tempo può raggiungere e oltrepassare le settimane.
Il documento riporta come fatto positivo che tutti i 53 SPDC si sono dotati di una Linea Guida per legare le persone e riferisce,non senza una punta d’orgoglio, che la serie storica dei dati dell’ultimo triennio mostra una rassicurante deflessione. Intorno al 1 – 2 %. Evviva!
Di fronte a un documento che assume come dato e strumento indiscusso l’uso della contenzione, credo sia utile ritornare.
Di cosa si parla quando parliamo di contenzione
di Peppe Dell’Acqua
Nella terminologia medica e infermieristica, e in psichiatria, si parla di contenzione fisica per definire l’immobilità totale o parziale di una persona in cura, attraverso l’uso di cinghie, lacci, fascette, spallacci, cinture, polsini, corpetti, sedie di contenzione o altri mezzi, più o meno sofisticati.
Eugenio Borgna, decano degli psichiatri italiani, con bruciante semplicità definisce la contenzione fisica come: “l’essere legati, sottratti a ogni libertà possibile e immersi in uno spietato isolamento”.
Nella storia della psichiatria, e della psichiatria manicomiale in particolare, le forme di contenzione venivano comunemente usate, con strumenti talvolta ancora più violenti di quelli descritti, per controllare comportamenti violenti, oppositivi, contestatari. Venivano anche usati come strumenti di punizione. Frequentemente la contenzione veniva usata (e viene usata) anche in previsione di comportamenti minacciosi o violenti e per mantenere l’ordine dell’istituto o del reparto.[1]
La questione della contenzione, dei mezzi coercitivi, ha sempre accompagnato la storia della malattia mentale e del suo trattamento.
Gli psichiatri e gli istituti più attenti si sono sempre interrogati sulla correttezza, sulla liceità, sull’utilità, sulla funzione terapeutica dei mezzi coercitivi. Molti psichiatri, figure luminose della storia di questa disciplina, si sono battuti per l’abolizione della contenzione e del suo uso ordinario e indiscriminato.
Già dalla seconda metà dell’ ‘800 era noto che la contenzione, ma soprattutto il suo uso ordinario e protratto, produce regressione totale nel paziente e riproduce e alimenta la violenza dell’istituzione. E’ tanto vero questo sentire diffuso di quanti operavano nel campo della psichiatria che la prima legge italiana, del 1904 sull’assistenza psichiatrica[2], nel conseguente Regolamento del 1909, a proposito dei mezzi coercitivi, all’art. 60, raccomanda: “nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del Direttore .. che deve indicare la natura del mezzo, il tempo ..”.
Malgrado queste attenzioni e i successivi, ulteriori, contributi di discipline vicine alla psichiatria, psicologia e sociologia soprattutto, le forme di coercizione e segregazione si sono sviluppate quasi indisturbate.
Anche l’art. 13 della Costituzione[3], che avrebbe dovuto riguardare tutti i cittadini della nascente Repubblica Italiana, lasciò inalterata questa pratica. Quasi che i malati di mente fossero fuori dalla Costituzione.
D’altra parte bisognerà attendere la Legge di riforma dell’assistenza sanitaria, nr. 833/78 perché le persone con disturbo mentale riacquistino il loro totale diritto e la loro cittadinanza.
Nei 30 anni successivi alla promulgazione della Carta Costituzionale, nulla mutò negli istituti psichiatrici. Devo qui considerare e sottolineare che né il ricovero coatto nell’Ospedale Psichiatrico allora, né l’internamento a qualsiasi titolo in OPG, la condizione del Trattamento sanitario obbligatorio autorizza e/o regolamenta la contenzione fisica. Per altro l’art. 14 della Costituzione, dove recita che “gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali, sono regolamentati da leggi speciali” precisa che la contenzione, per essere attuata, necessiterebbe di specifiche leggi. Né gli ospedali psichiatrici né gli OPG sono mai stati regolamentati da leggi speciali, o qualsivoglia deroga a leggi ordinarie, che facciano riferimento e giustifichino l’uso della contenzione. Tanto meno i servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC)!
Merita sottolineare che la contenzione fisica è stata specificatamente abolita e vietata nel carcere dalla riforma penitenziaria[4].
La Legge di Riforma dell’assistenza sanitaria (Legge 180/78) cambia radicalmente il quadro dell’assistenza psichiatrica in Italia. Gli ospedali psichiatrici vengono progressivamente chiusi, i diritti restituiti, le cure messe in atto e articolate nei contesti territoriali. Da quel momento e per un lungo periodo, fino alla chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici nel 1998, non si parlò più di contenzione. Si dava per acquisito che, con la chiusura del manicomio, anche la violenza che in esso albergava si fosse dissolta. Molte affermazioni di autorevoli psichiatri e programmatori sanitari facevano ritenere un tanto.
Nella realtà le cose non andarono proprio così.
Una ricerca dell’Istituto Superiore della Sanità (2005), “Progres Acuti”, condotta in tutti i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (i servizi di accoglienza dell’emergenza psichiatrica negli ospedali civili) di tutte le Regioni italiane, fatta eccezione per la Sicilia( che non partecipò alla ricerca), dimostrò che almeno in 7 Diagnosi e Cura su 10 si ricorre alla contenzione. In alcuni in maniera sporadica, in altri in modo routinario.
La ricerca ha messo in evidenza una preoccupante disparità di pratiche e di organizzazioni psichiatriche tra le diverse Regioni. In 2 servizi su 10 si opera con le porte aperte, senza ricorrere alla contenzione e senza che per altro i rischi siano aumentati e la qualità di attenzioni e cure diminuita. Al contrario si è potuto constatare che, laddove si è abolita la contenzione e si operi con le porte aperte, ci si trova di fronte a servizi territoriali più articolati e disposti a farsi carico anche della crisi e dei comportamenti più preoccupanti.
La possibilità di una diversa organizzazione dei servizi e delle pratiche, proprio in rapporto alla contenzione, ha determinato attenzione da parte dei Governi regionali e del Ministero della Salute. Nel 2010, per rispondere a una diffusa interrogazione proveniente soprattutto dalle associazioni dei familiari, dai gruppi di cittadini con disturbo mentale oltre che da operatori del settore, la Conferenza Stato Regioni ha licenziato un documento[5]che il Ministero della Salute ha fatto proprio con la finalità di indicare strategie omogenee perché tutte le Regioni si ponessero l’obiettivo della riduzione massiccia del ricorso alla contenzione, fino a una sua possibile abolizione. L’attenzione della Conferenza e del Ministero era stata stimolata anche da un rapporto del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, delle pene e dei trattamenti inumani e degradanti nei Reparti Psichiatrici in Italia. In questo rapporto, del 2006, una larga parte è dedicata alle misure di contenzione negli istituti psichiatrici per adulti e si riferisce in particolare alle visite negli OPG.[6]
Alcune considerazioni generali del Comitato sono di grande utilità. “Il potenziale di abusi e di maltrattamenti che l’uso dei mezzi di contenzione comporta, resta fonte di particolare preoccupazione per il Comitato. Purtroppo sembra che in molti degli istituti visitati vi sia un eccessivo ricorso ai mezzi di contenzione … la creazione e il mantenimento di buone condizioni di vita per i pazienti, così come un buon clima terapeutico, presuppone l’assenza di aggressività e di violenza … Il rapporto denuncia come stigmatizzante l’uso della contenzione come punizione e/o come intervento pedagogico … [il Comitato] considera che non esistono ragioni, né la mancanza di personale né la particolare condizione del paziente, che giustifichino il ricorso alla contenzione”. E’ un documento estremamente pragmatico che non propone l’abolizione della contenzione ma suggerisce che deve essere regola generale che una persona venga contenuta solo come estrema misura di ultima istanza, per tempi brevissimi, che definisce come strettamente necessari, a operare per introdurre una terapia farmacologica o a evitare, in quel momento, danni per la persona o per terzi. Sottolinea come l’esperienza dell’essere contenuto produca sentimenti di cupezza, di violenza e confusione nel paziente e afferma che la pratica di far durare la contenzione per un periodo superiore a quello strettamente necessario, che deve essere brevissimo, è considerato un maltrattamento. In ogni caso le pratiche di contenzione non possono far parte dei dispositivi ordinari di cura e devono essere considerati interventi di grande straordinarietà, che possono essere conseguenza di uno stato di necessità che andrebbe prevenuto adeguando le condizioni assistenziali, sviluppando speciali strategie per far fronte a situazioni di acuzie. Sempre la condizione di contenzione deve essere superata il più rapidamente possibile.
Alcune Regioni italiane hanno affrontato la questione e, nei loro rispettivi Piani Sanitari, hanno disposto raccomandazioni per il divieto, o la massiccia riduzione, della contenzione fisica, tra queste la Toscana, l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia. Altre, come la Lombardia, hanno, al contrario, predisposto l’uso della contenzione approvando regole e dispositivi per la sua attuazione.
La contenzione non può essere considerata un atto medico, vale a dire che non ha funzioni terapeutiche e dunque non può essere giustificata come conseguenza della malattia della persona.
La contenzione, infatti, rende impossibile, limita e ostacola qualsivoglia atto terapeutico, di assistenza o di cura. Rende impossibile qualsiasi percorso di consapevolezza da parte di chi la subisce.
Tutte le ricerche e le osservazioni che si possono consultare consultare arrivano a queste conclusioni. Ed è per questo che non può essere considerata atto sanitario e dunque non ha senso che sia prescritta da un medico né attuata da un infermiere, non può essere protocollata né essere oggetto di linee guida.
A giustificare il ricorso aquesto tipo di intervento si invoca, più o meno coerentemente, lo stato di necessità. L’articolo 54 del c.p.[7]
Il ricorso all’art. 54 è considerato da molti un corretto discrimine e tuttavia, anche quando correttamente citato, rischia di favorire comportamenti illeciti e, alla fine, comportamenti lesivi e dannosi per le persone.
Mi riferisco qui alle molte prescrizioni di contenzione di cui si ha notizia notizia dove la dizione “pericoloso per sè e per gli altri … stato di necessità .. si prescrive la contenzione per il tempo strettamente necessario”, usata dai medici, ricorre con estrema frequenza in circostanze che sembrano poco alludere allo stato di necessità. Come, ad esempio, il rifiuto ostinato di una persona di assumere una terapia farmacologica in quel momento (non stiamo parlando di farmaci salvavita), una persona che inveisce contro il muro, la porta o le suppellettili, una persona che è tesa e confusa, insonne e disturba la quiete del reparto, una persona che rifiuta di fare la doccia o che rifiuta di mangiare.
Lo stato di necessità dovrebbe esaurirsi davvero nell’arco di un tempo brevissimo, e allora è “stato di necessità” la contenzione che dura mediamente 24 ore fino a un massimo che non si riesce a individuare?
Il ricorso alla contenzione, come evidente, èquanto meno molto controverso sia sul piano normativo che etico. Sul piano clinico terapeutico poi, questo trattamento, appare ancora più inaccettabile. Sono noti i rischi che la contenzione comporta sul piano fisico: asfissia, polmonite ab ingestis, trombosi, traumi meccanici, lesioni dei tessuti molli. Negli ultimi 5 anni, in Italia, si sono verificati nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura molti eventi mortali dei quali si viene a sapere a poco. Io sono riuscito a contarne almeno 5.E poco si è parlato anche della morte di Mastrogiovanni e Casu. Senza contare che molti ricoveri dai Diagnosi e Cura ai reparti di Rianimazione e Medicina d’Urgenza sono determinati dai gravissimi danni che le persone subiscono dall’immobilità, l’abuso di farmaci, la malnutrizione, la disidratazione.
Le conseguenze, per certi versi ancora più gravi per la vita della persona, sono quelle di ordine psicologico. Tutti i pazienti sottoposti a questo trattamento vivono l’esperienza con una profonda perdita di autostima, con un doloroso senso di umiliazione, con paura. Alla contenzione fa spesso seguito l’insorgere di un sentimento di rancore, di cupezza, di rabbia. Talvolta, alla fine della contenzione, consegue una profonda depressione, una sorta di perdita della speranza, la consapevolezza d’aver toccato il fondo e che non sarà più possibile rimontare. Non è un caso che la maggior parte delle persone sottoposte a contenzione fanno molta fatica a raccontare quell’esperienza.
Naturalmente queste pratiche all’interno di un’istituzione producono effetti nei confronti degli altri, nel sostenere culture di paure e terrore e di profondo condizionamento.
Non ultimo è l’effetto di conferma, assieme all’esuberante uso dei farmaci, del modello di malattia e dei pregiudizi a essa connessa, soprattutto la pericolosità, l’incomprensibilità e l’incurabilità.
Taluni affermano che il ricorso alla contenzione viene fatto in ragione dell’evitamento di un uso, a scopo sedativo e altrettanto dannoso, dei farmaci. Al contrario, alla contenzione si associa, sempre(!!), un uso “largo” di farmaci sedativi. Moltiplicandosi così il rischio di conseguenze talvolta anche mortali.
Massiccio uso di farmaci in aggiunta a quelli già in terapia accompagna tutti i ricorsi alla contenzione di cui ho potuto avere conoscenza dai racconti di persone, operatori, familiari e dalle cartelle che in alcuni lavori e di perizia penale ho avuto modo di consultare.
Si può dire che l’uso della contenzione, non ha mai sortito gli effetti desiderati, se questi si vogliono iscrivere nel campo del terapeutico. Al contrario, ha risposto sempre efficacemente al bisogno di ordineall’interno di un reparto.
Per alcune persone la pratica restrittiva induce ulteriore aggressività e comportamenti di ostinazione e rifiuto. La contenzione incupisce, rende ancora più isolati e ostili, il rifiuto delle cure e di qualsiasi relazione diventa l’ultima disperata linea di difesa di quel che resta.
Per molti, la contenzione si rivela fattore di aggravamento delle condizioni fisiche. Andrebbe avviata una ricerca per contare quanti vengono dimessi dagli SPDC e inviati d’urgenza ai reparti rianimazione, di medicina di urgenza, di medicina interna.
Non c’è da essere contenti che la Lombardia dell’eccelenza di Formigoni esulti perché i 53Spdc della regione si siano dotati di lineee guida e protocolli!
Noi restiamo sgomenti. E con convizione maggiore torniamo al documento di fondazione del forum: Leggi, norme, protocolli, pratichedevono convergere su un solo semplicissimo obiettivo:abolirela contenzione.
[1] Nella stesura di questo capitolo mi sono molto riferito all’articolo di Giovanna Del Giudice Legare si può? Cosa è la contenzione fisica in Appunti sulle politiche sociali ed. Gruppo solidarietà 2010
[2] Regio Decreto Nr.36, 1904, «Disposizioni e regolamenti sui manicomi e sugli alienati»
[3] Costituzione Italiana, art. 13: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale né ogni altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’Autorità Giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”
[4] L. 354/75, all’art. 41 prevede in casi eccezionali l’impiego della forza fisica e l’uso dei mezzi di coercizione per “prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti … Non può essere usato alcun mezzo di coercizione fisica che non sia espressamente previsto dal regolamento e, comunque, non vi si può fare ricorso a fini disciplinari …”
[5]Conferenza delle Regioni edelle Province Autonome, 10/081/Cr07/C7: Contenzione Fisica in Psichiatria: una strategia possibile di prevenzione, 29.07.2010
[6]The EuropeanCommitee for the prevention of torture and inhuman or degrading treatment or punishment” (CPT): “General Report on the CPT’sactivities”, 16 ottobre 2006, nella parte dedicata alle “Misure di contenzione negli Istituti Psichiatrici per adulti”.
[7] L’art. 54 c.p. o Stato di Necessità: “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”
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