Di Francesco Galofaro
A quanto pare, i grandi manicomi criminali non chiuderanno affatto. Il titolo del decreto svuotacarceri è roboante: “norme per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Ma in realtà un emendamento dei senatori al decreto prevede che le attività che vi si sono svolte finora si tengano in altre strutture sanitarie. Riguardo alle loro caratteristiche, poi, esse sono da stabilirsi attraverso un ulteriore decreto – con mossa politica tipicamente italiana. I luoghi saranno gestiti esclusivamente da personale sanitario, salvo prevedere una attività di vigilanza esterna. Cosa cambia dunque? Niente disumanità, incuria, aguzzini, sporcizia, sofferenze gratuite, indifferenza: ma l’istituzione totalitaria non è vincolata ad una determinata forma architettonica, a certe dimensioni, o alla limitazione della capacità di movimento: è piuttosto quella che impone una disciplina, come la caserma ed il convento. Come fa notare il testo di una petizione, promossa da www.stopopg.it e www.confbasaglia.org, non cambierà in nulla il codice penale, basato sempre su concetti privi di basi psichiatriche come “folle reo” e “pericolosità sociale”; per l’imputato non viene prevista alcuna garanzia; non si risolve il problema di porre un termine certo alla detenzione.
Così, quei liberali, di destra e di sinistra, che proclamano di aver risolto il problema degli OPG, rivelano solo la propria ipocrisia: si danno al problema della sicurezza per spostare in avanti il mantenimento della loro ideologica promessa di libertà: vorrei ricordare che i detenuti degli OPG non sono i crudeli mostri dei film di Hollywood, omicidi incalliti che ti torturano con un sorriso sulle labbra. Accanto a reati più gravi qui c’è anche chi ha reagito male al controllo di un poliziotto; chi ha tentato di dar fuoco all’azienda del padrone che lo ha licenziato; chi ha rubato. Secondo Umberto Raccioppoli, direttore dell’OPG di Napoli, la metà degli internati ha commesso “reati generati da maltrattamenti in famiglia, espressioni del disagio lacerante, che la malattia mentale porta nella famiglia, e del fallimento degli interventi della società civile”. Lo stereotipo sociale (e legale) diffuso è al contrario basato su una dicotomia manichea tra ordine e caos chiaramente paranoide e fascista. E ancora una volta assistiamo all’interferenza tra l’ordine che regge il discorso medico, inteso a curare, e quello legale e securitario, inteso a contenere, di cui mi sono già occupato in Etica della ricerca medica ed identità culturale europea.
Occorrerebbe che il Governo dei supertecnici e la maggioranza di destro-sinistra che lo sostiene riflettessero su qualcos’altro: sul modo di evitare la costruzione di quelle che Goffman chiamava istituzioni totali, organizzatrici della vita dell’individuo che ne è parte in ogni suo aspetto fino all’eliminazione del seppur minimo spazio di autodeterminazione e di libertà. Dopo la legge Basaglia, lo sappiamo, i manicomi sono stati chiusi. Ma questo equivale alla scomparsa dell’istituzione totale?
Nel suo noto articolo Des espaces autres, Foucault sostiene che le case di riposo, le cliniche psichiatriche, le prigioni, sono altrettanti esempi di eterotopie di deviazione, dove collocare individui il cui comportamento non è riconducibile alle norme imposte. A differenza di una utopia, luogo virtuale e non connesso con il mondo, l’eterotopia è un luogo reale dove la società si trova in connessione con ogni luogo. In esso, la rappresentazione utopica della società si trova effettivamente realizzata. Foucault indica anche una serie di criteri che definiscono una eterotopia. In una mia recente ricerca, nata da una collaborazione tra il Centro Universitario Bolognese di Etnosemiotica (CUBE), il dipartimento di salute mentale di Pordenone, l’associazione di volontariato delle famiglie AITSAM – DDN e la Regione Friuli Venezia Giulia, ho notato che perfino alcune esperienze all’avanguardia di Social Housing possono ritornare ad essere eterotopie di deviazione. In queste case protette, piccoli gruppi di pazienti psichiatrici vivono insieme dopo percorsi terapeutici a volte anche molto lunghi. Sono seguiti dal personale sanitario ma si autogestiscono, con l’aiuto di una assistente familiare. Nonostante si tratti di spazi aperti verso l’esterno e gli utenti siano liberi di condurre una vita lavorativa e sociale, se il rifiuto della società respinge queste persone entro la casa, a trovarvi un rifugio, in essa si manifestano nuovamente almeno due caratteri eterotopici: un tempo ciclico, scandito dai turni della cura della casa e del sé, si sostituisce al tempo biografico lineare (eterocronia); un ordine perfetto fa apparire caotico agli utenti il mondo esterno. Da qui la necessità di progetti che favoriscano ulteriormente la responsabilizzazione delle reti sociali intorno agli utenti e che restituiscano loro pienamente il diritto di cittadinanza: fortunatamente, gli operatori e le istituzioni sanitarie con cui ho avuto a che fare mostrano grande sensibilità al riguardo.
Le microstrutture che sostituiranno gli OPG condividono i due caratteri eterotopici che ho introdotto, e ne sommano altri: ad esempio la giustapposizione di due luoghi incompatibili come lo spazio della repressione e quello della cura; l’isolamento ovvio verso l’esterno. Foucault è stato anche il primo ad accorgersi della tendenza, negli ultimi decenni, ad eliminare le grandi istituzioni, perché i dispositivi di controllo si sono fatti più capillari e diffusi. Sono più efficienti, e più attraenti per il privato che si già si candida a gestirli. Già in Inghilterra la chiusura dei manicomi, per mere ragioni di liquidazione della sanità pubblica, ha portato al risultato di spostare l’internamento dal manicomio al carcere, come denuncia Colin Gordon sul numero 351 di Aut Aut. Ecco che la scelta delle piccole dimensioni, nel caso delle alternative all’ospedale giudiziario, non discute davvero la struttura del potere che relega queste persone ai margini della società, ma finisce paradossalmente per rappresentarne i rapporti economici e di classe. Invece di un unico grande manicomio, avremo tante piccole strutture disciplinari e contenitive economiche disperse sul territorio: una galera distribuita. Il prossimo passo sarà prevedere in ogni fabbrica alcune piccole celle in cui ospitare criminali comuni, definitivamente assoggettati alla produzione.
E allora, quale futuro per la follia? Oggi, pochi tra gli assistiti dei servizi psichiatrici riescono ad avere delle relazioni sociali, superando la stigmatizzazione; alcuni di loro mi hanno raccontato di come siano gli sguardi della gente a riportarli alla loro condizione di esclusi. Qualcuno limita le proprie passeggiate al circondario, ad un andirivieni dal centro diurno, o le relega in orari in cui possono evitare brutti incontri, ossia incontri con persone “normali”. Nessuna azienda vuole assumere queste persone, preferendo pagare le penali previste dalla legge. La cronica mancanza di denaro porta alla stigmatizzazione: i prezzi delle vetrine sono proibitivi, e così vestono come possono; affollano le macchinette automatiche dove i generi di conforto costano meno. Non è chiaro se sono poveri perché pazzi o pazzi perché poveri. Come conseguenza, pochi tra loro esprimono una progettualità, pochi immaginano un lavoro, una fidanzata, una casa popolare. E’ ovvio che ogni riforma delle istituzioni psichiatriche dovrebbe comportare, se volesse essere efficace, maggiori spese, e non risparmi – lo scrivo perché i precedenti del Governo attuale sono noti.
E che dire degli altri, i “sani di mente”? Secondo Allen Frances, che supervisionò la redazione del Manuale dei disturbi mentali (DSM) IV, la nuova versione del manuale, la quinta, ci renderà fatalmente tutti soggetti alla cura psichiatrica. Sotto la spinta delle case farmaceutiche, l’astinenza da caffeina o il dolore da lutto diverranno nuove sindromi psichiatriche. Il giro di affari è enorme e già oggi il 25% della popolazione USA si vede diagnosticare questo tipo di problema. Occorre riflettere sulla reale portata della psichiatria di massa. Dettato da motivazioni economiche, l’abuso di antidepressivi e di droghe legali diventa senz’altro un nuovo strumento di controllo, ancora una volta capillare e diffuso, come aveva ben veduto Foucault. Ci siamo sbarazzati dei manicomi perché i farmaci li hanno resi antieconomici, e ora, paradossalmente, una società che non riesce a includere tutti nell’insieme dei sani e dei normali, risolve il problema spostando tutti nel novero dei malati – e dei regimi delle diete, dei farmaci omeopatici, del fitness – cui assicurare con una pillola quella felicità che l’economia, il lavoro, le relazioni affettive non possono più dare.