lettodi Serena Romano (*)

In questo momento in Italia, almeno un centinaio di persone sono legate a letti di contenzione. Non solo malati di mente: anche anziani, uomini e donne non autosufficienti e giovanissimi ricoverati in luoghi di cura a “porte chiuse”. Molti di loro rischiano di fare la stessa fine di Franco Mastrogiovanni: il maestro elementare che, legato mani e piedi ad un letto del servizio psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania è stato slegato solo dopo 90 ore. E non perché la “cura” tramite “contenzione” fosse terminata: ma perché era morto. Il fatto è accaduto nell’agosto 2009 e la telecamera a circuito chiuso dell’ospedale ha ripreso tutto: così oggi quelle immagini circolano via internet e sui media.

Io non so questo video che cosa abbia suscitato in chi lo ha visto. So, però, che cosa ha scatenato in me oltre all’umana compassione: l’indignazione per un essere umano che, denudato di abiti e diritti, è stato ridotto a “cosa”; la paura che un simile sopruso possa capitare a ognuno di noi. E questa paura, a sua volta, ha sollevato alcuni interrogativi ai quali spero che qualcuno mi aiuti a trovare una risposta.

Servizi psichiatrici o campi di sterminio?

Il video sulla morte di Mastrogiovanni documenta per la prima volta, ora per ora, gli effetti devastanti di una contenzione. Prima di questo video, molti “camici bianchi” volevano far credere che la contenzione fosse una pratica deprecabile ma “necessaria” dettata dall’”urgenza”, da utilizzare giusto il tempo indispensabile a somministrare un calmante a un pazzo scatenato che rifiuta di “curarsi”. Ma altrettanti psichiatri, medici, giuristi e magistrati responsabili, invece, da anni stanno contrastando questa tesi: non solo dimostrando come si riesce a “guarire” senza ricorrere alla contenzione, ma tentando di attirare l’attenzione del Governo e dell’opinione pubblica sui danni di una pratica inutile, dannosa, violenta, “non medica” e “non terapeutica”, illecita e contraria ad ogni principio costituzionale che, quando non uccide, rende comunque “incurabile” chi l’ha subìta.

Oggi, però, le immagini della contenzione di Mastrogiovanni parlano da sole: e indipendentemente da ogni sentenza della magistratura, smentiscono chiunque – in nome della legge o della medicina – tenti di contrabbandare come “cura” le immagini in diretta di una “tortura”. Le immagini, cioè, di un uomo che benché non fosse agitato, né opponesse resistenza, viene legato nel sonno dove comincia, come in un film dell’orrore, la sua straziante agonìa: per quasi 90 ore non riceve acqua, cibo, nè risposta alle richieste di aiuto. Solo quando dai polsi lacerati, il sangue scorre per terra, qualcuno si avvicina. Ma non per soccorrerlo: per pulire il pavimento. Come una bestia terrorizzata destinata al macello, senza il conforto di uno sguardo o di una voce amica, vive in solitudine il suo martirio: fino a che la Morte – più pietosa dei suoi “aguzzini” – viene a prenderne l’anima. A portare via il corpo, invece, ci penserà il personale: ma solo dopo 6 ore dal decesso. Evidentemente è troppo distratto dalla normale routine ospedaliera per accorgersi di lui: sia da vivo, che da morto. L’occhio vigile della telecamera testimonia, dunque, che una pratica come la contenzione – ammessa solo in casi eccezionali – fa parte della routine quotidiana. E contrariamente a quanto si è lasciato credere all’opinione pubblica, non solo a Vallo della Lucania: perché la contenzione è prassi consolidata nell’80% degli SPDC di Italia e a Milano, Brescia, Cagliari, Bari, ha avuto epiloghi altrettanto tragici. E con quali motivazioni vi si ricorre? Come rivela l’”European Committee for the Prevention of torture and inhuman or degrading treatment or punishment”: “… per punire comportamenti percepiti come “cattivi comportamenti”; per indurre il “colpevole” a comportarsi in maniera diversa; e per motivi di comodità del personale: cioè, per “mettere al sicuro” i pazienti “difficili” mentre vengono svolte altre attività”.

Questo video, insomma, evidenzia come la contenzione, spogliata dalle false finalità “curative”, mostri solo il suo aspetto odiosamente “punitivo”; e come l’orrore praticato quotidianamente, per “comodità”, non è più percepito come tale da chi lo esercita di routine. L’orrore è diventato “normalità”. Così, per quel meccanismo inconscio che aggancia ogni memoria alla Memoria Collettiva, questa vicenda mi ha ricordato i letti di contenzione di una ex scuola di Phnom Phen, in Cambogia, ora diventata museo del genocidio.

Qui i seguaci del sanguinario dittatore Pol Pot, hanno sterminato migliaia di persone con torture così atroci e prolungate, da rendere invidiabile la rapida morte consentita dalle camere a gas. E la tortura più frequente consisteva nel legare i prigionieri ai letti di contenzione, sui quali, prima di ucciderli, infliggevano maltrattamenti psicologici, oltre che fisici, finalizzati alla “confessione”.

Contenzione : cura o tortura?

La contenzione è devastante anche quando non uccide: perchè annienta la personalità dell’individuo ancora prima del suo corpo. Ed è questo risultato che volevano ottenere gli aguzzini cambogiani. Qualsiasi essere umano impedito nei movimenti, infatti, ha una reazione innata: si divincola per liberarsi. E’ una reazione spontanea: come alzare la mano per pararsi il viso da uno schiaffo. Ma durante la contenzione, la reazione di difesa dettata dall’istinto di sopravvivenza, aumenta il dolore. Perché più la persona legata si agita, più si ferisce e soffre: la pelle dove i legacci stringono, si lacera; la muscolatura si irrigidisce e il corpo si contrae nella morsa dei crampi; il terrore di non avere scampo si concretizza, al punto che la risposta alla violenza subìta inverte la rotta. Andando in senso opposto a quello dettato dall’istinto di sopravvivenza, l’uomo si immobilizza e per evitare che il dolore aumenti, rinuncia ad esercitare il suo “naturale diritto alla difesa”. Diventa così un essere che, privato della sua identità, va “contro natura”: perché accetta la violenza in silenzio, senza muoversi, né protestare. E per ridurre i prigionieri in questo stato, venivano imposte, oltre alla tortura, anche “le regole di comportamento da tenere durante la tortura”, come si legge nel regolamento del lager cambogiano: “Durante le bastonate o l’ electrochoc è vietato gridare forte. Restate seduti tranquilli. Attendete i nostri ordini. E se non ci sono specifici ordini, non fate niente. Se noi vi chiediamo di fare qualcosa, fatelo immediatamente senza protestare. Se non rispettate tutti gli ordini qui elencati, sarete puniti con colpi di bastone, fili elettrici e electrochoc (e vi sarà vietato anche contare questi colpi)…”

Anche la nostra nostra vecchia legge del 1904 “Sui manicomi e gli alienati” puniva uomini “colpevoli” di essere malati adottando regole analoghe e strumenti coercitivi come la contenzione e l’electrochoc: “Legare il paziente al letto o comunque immobilizzarlo mediante camicie di forza, vari tipi di fasce o “fascette”, catene, manette, rappresenta una grave limitazione della libertà personale… che era praticata… per lo più con intenti punitivi e di demolizione della personalità “perversa” del paziente…” scrive Girolamo Digilio uno dei fondatori dell’Unasam (Unione nazionale per la Salute Mentale, parte civile nel processo sulla vicenda Mastrogiovanni). Insomma, anche se l’esito finale non è lo sterminio, la filosofìa dei lager cambogiani e dei “khmer rossi” di Pol Pot, è la stessa della legge del 1904 che per anni ha supportato manicomi e ospedali psichiatrici giudiziari. Strutture che non avevano finalità terapeutiche e riabilitative, ma solo di “custodia” in manicomio di individui ritenuti “pericolosi”, colpevoli di dare “pubblico scandalo” ed “inguaribili”: una volta entrati in manicomio, infatti, non ne uscivano più e venivano considerati prigionieri a tutti gli effetti, con la perdita di ogni diritto di cittadino e l’inserimento del nome nel casellario giudiziario. Una concezione del “matto” e della “follìa” che resiste ancora (non solo nella maggioranza degli SPDC italiani) nonostante l’evidenza scientifica della sua infondatezza .

“Qual è la legge più importante approvata in questo secolo in Italia?”, chiese un giornalista a Norberto Bobbio. “La legge 180 del 1978 nata dall’esperienza di Franco Basaglia” rispose il grande storico, filosofo e politologo italiano, sottolineandone la portata rivoluzionaria per migliaia di ergastolani della follìa. Quando grazie agli psicofarmaci e a un adeguato supporto psicologico, si è scoperto che è possibile curare, riabilitare e reinserire nella società i malati mentali, l’esperienza di Basaglia porta a cambiare la legge e il suo obiettivo: non più “custodire”, ma “curare”. Nonché il ruolo di medici e infermieri: non più custodi e carcerieri. Di conseguenza cala il clima di violenza tipico dei reparti psichiatrici, a riprova che l’aggressività non è “intrinseca alla malattia mentale” ma provocata soprattutto dalla violenza subita dai pazienti dietro le porte chiuse. E in questa nuova concezione terapeutica, la contenzione diventa una pratica superata, inutile, oltre che incompatibile con la nuova figura del “medico che cura”: perché oggi, in tutti i luoghi d’Italia e d’Europa – compresi gli SPDC – in cui la contenzione fisica è stata abolita e sostituita con il “contenimento emotivo” del paziente, in cui le porte sono aperte e l’atteggiamento degli operatori non è aggressivo ma accogliente “non è quasi mai necessario contenere fisicamente l’aggressività o contrastare il desiderio di fuga del paziente”. Ma nonostante queste esperienze positive che dimostrano che si può fare a meno della contenzione e che, perciò, non ci sono scuse per eludere la legge che la vieta, ignoranza e pregiudizi continuano ad alimentare l’assurda convinzione di potere coniugare il ruolo di medico con quello di carceriere e di potere “imporre una cura” a chi è stata appena “imposta una tortura”.

“Camici bianchi” o “khmer rossi” ?

Si sa che per stabilire una buona relazione terapeutica, il paziente deve fidarsi di chi lo cura, sentirsi garantito e protetto: ma quale malato mentale dopo ore di contenzione, può fidarsi di “camici bianchi” percepiti come “khmer rossi”? Sarebbe come chiedere a una donna di farsi curare dal medico che l’ha violentata. In realtà, l’uomo ridotto all’impotenza da ore di contenzione, non è un malato “tranquillizzato” che poi si può curare, ma l’opposto: è diventato incurabile, perché oltre ai “nemici” che vede attorno a sè, ne ha troppi anche dentro di sé, per farcela. Non solo perché è arduo riaccendere quella “voglia di reagire” – indispensabile per guarire – distrutta dalla contenzione, ma perché chi rema contro, è il malato stesso: o più esattamente, la sua memoria che – nonostante psicofarmaci, psicanalisi o altre terapie – non riesce a cancellare il ricordo dell’abiezione subita stando in contenzione. E questo ricordo insopportabile finisce sempre per sbucare fuori: magari all’improvviso o nel sonno, trasformando i sogni in incubi dei quali rimane traccia anche al risveglio. Così, per sopprimere la propria assordante memoria, c’è chi ricorre all’unico modo ritenuto possibile: sopprimere sè stesso. I suicidi non sono conteggiati nella casistica dei morti e dei danni da contenzione: la casistica, dunque, è più consistente di quanto appaia. Anche perché non tiene conto nemmeno di quelli che dai letti di contenzione passano direttamente nei reparti di rianimazione e medicina di urgenza: perchè la contenzione, aggiunta a una pesante terapia farmacologica, moltiplica rischi e danni fisici da stasi circolatoria, disturbi pressori, ritenzione urinaria, embolia polmonare, disturbi cardiaci che diventano la causa ultima, quella “formale” di morte, ma non la vera.

Del resto, basta “cliccare” la voce “contenzione” su siti come il forumsalutementale.it per trovare la prova di una serie di soprusi che configurano altrettanti reati. Perché, allora, non vengono puniti? Perché troppe complicità ed omertà contribuiscono a tenerli nascosti. E perchè anche in casi eclatanti come quello di Mastrogiovanni, le colpe dei responsabili non vengono percepite nella loro vera gravità dall’opinione pubblica. Il video con l’agonìa di Mastrogiovanni, infatti, ha provocato pena e sconcerto, ma non l’indignazione unanime della fotografia in prima pagina di Leonardo – il bambino prelevato davanti alla scuola dai poliziotti per essere trasferito in una comunità – che ha scatenato perfino una compatta levata di scudi del Parlamento. Perché?

Forse perchè la gravità della prevaricazione su un piccolo indifeso trascinato mani e piedi da forzuti tutori dell’ordine salta subito agli occhi, è “più leggibile”. Mastrogiovanni, invece, è un adulto, per di più gigantesco e presunto “pazzo” – quindi “pericoloso” per pregiudizio – e viene legato al letto da medici e infermieri: il che rende tutto più ambiguo facendo rimbalzare i dubbi fino alle aule dei tribunali.

Come emerso da un recente seminario svoltosi a Mantova: “se un insegnante lega un allievo al banco è chiaramente perseguibile per il reato di sequestro di persona o violenza privata, ma non accade lo stesso se uno psichiatra lega un malato di mente: anche se sono entrambi “pubblici ufficiali” che si avvalgono del proprio potere per limitare la libertà di una persona che gli è affidata”.

Insomma, a parità di reato, il giudizio è diverso, perché di fronte al medico il giudice spesso è condizionato “dalla convinzione diffusa che l’arte medica sia per definizione buona”.

Anche se, in psichiatria, questo è un “pregiudizio” ancora più falso di quello sulla “pericolosità della follìa”.

“Stasera vi racconto la storia di uno sterminio di massa di cui si parla solo nei convegni degli psichiatri. Si tratta di 300.000 vite umane che hanno cominciato a morire prima dei campi di concentramento nazisti prima di ebrei, zingari, omosessuali e comunisti, in un edificio del Sud della Baviera dove un cartello indica: “ zona per sanare e curare” . E’ un ospedale psichiatrico i cui responsabili – anche alcune suore cattoliche – non risulteranno coscienti dei propri crimini. Perché quei crimini furono supportati e promossi dalla medicina. In particolare da una nuova scienza: l’eugenetica o scienza dell’ereditarietà”. Così esordisce l’attore Marco Paolini nello straordinario monologo “Ausmerzen: vite indegne di essere vissute” (rintracciabile via internet)

E continua: ““Perché ogni tanto in natura nasce un individuo brutto o storpio? L’ideale sarebbe fare accoppiare solo belli e intelligenti per migliorare la razza umana. Certo, è difficile obbligarli… Ma almeno si può impedire che quelli sbagliati si riproducano”. Questa è la filosofia scientifica dell’eugenetica che all’inizio del secolo trova gambe e consensi scientifici in tutto il mondo: si cominciano a sterilizzare, così, disabili e malati di mente in Svezia, Danimarca, Norvegia, Svizzera, Usa, Giappone, Inghilterra… Un’intera classe di medici e psichiatri si forma su questa disciplina (…) ancora prima che Hitler vada al potere nel gennaio del ’33 annunciando che in giro ci sono 500.000 cittadini geneticamente inaccettabili. Vengono costituite allora 181 “corti genetiche” per esaminare tutte le persone con patologie ereditarie da tagliare sul nascere, per pulire il sangue di una nazione… Non è il nazismo, dunque, che crea queste idee: è da queste idee che si forma il nazismo…”

Insomma, le masse seguono i leader. E i leader in questo caso sono stati gli scienziati: sono loro che, allora, hanno messo il timbro di fattibilità sotto questa operazione. Come oggi sono quegli psichiatri che tollerano e consentono la contenzione ad alimentare nell’opinione pubblica i pregiudizi sulla pericolosità e l’incurabilità della malattia mentale.

La crisi economica giustifica l’orrore?

Il razzismo è una malattia antica: va e viene, ma il suo virus non muore ed è sempre pronto a scatenare una nuova epidemìa. Basta una scintilla: “Io non voglio raccontare le cose come se ci fossero cause e effetti predeterminati – continua Paolini nel suo monologo – ma per capire quanto accade in Germania, è fondamentale ricordare un evento di portata mondiale: la crisi economica del 1929 che in America e in Europa spinge gli uomini sulle strade come topi per la perdita del lavoro… Cosa c’entra? Se in una situazione in cui non hai soldi per badare alla tua famiglia qualcuno ti dice che lo Stato mantiene persone che non lavorano ma che mangiano, la cosa non ti sarà indifferente…. Soprattutto se questa idea diventa una campagna di informazione martellante fatta con manifesti dove si vedono uomini sani e forti che portano sulle spalle mostri inaccettabili (…) e se contemporaneamente si insegna la genetica nei licei tedeschi o la matematica alle elementari con questi esempi: ”In Germania un pazzo costa allo Stato 4 marchi al giorno e uno storpio 5,50 (…) Se gli epilettici, i pazzi, gli schizofrenici sono circa 300.000, quanto costano in tutto? Quanti prestiti di 100 marchi alle coppie di giovani sposi si ricaverebbero risparmiando questa somma…?”

Anch’io come Marco Paolini, non voglio raccontare le cose come se ci fossero cause e effetti predeterminati. Ma come giornalista e presidente di un’associazione di familiari di sofferenti psichici, non posso ignorare certi segnali d’allarme che preoccupano anche chi, come Peppe Dell’Acqua, è stato per 30 anni direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste: “Mi ha agghiacciato sentire parlare di togliere risorse alla salute mentale. Mi ha fatto risuonare nelle orecchie in maniera tragica le dichiarazioni del partito neonazista greco “Alba dorata” che di fronte al taglio delle spese in atto in quel paese in crisi, ha detto che bisogna cominciare a ripensare a forme di eutanasia, e dunque di sterminio, di persone con handicap o malattia mentale….”.

Quanto è fondato il rischio che, per tagliare le spese della sanità, non si finisca per “tagliare i malati”? Certo, quando una crisi mondiale come quella attuale si abbatte su una società in cui la corruzione ha contagiato buona parte del potere politico ed economico, mentre l’ambiguità e l’ipocrisia non consentono più di distinguere la cura dalla tortura, la scienza dalla barbarie, il diritto dal sopruso, il lecito dall’illecito, forse qualche rischio c’è. E molti altri diritti costituzionali rischiano di essere calpestati se l’angoscia della crisi distrugge la solidarietà; se si diventa incapaci di indignarsi e di scendere in piazza per difendere i diritti dei più deboli; se l’orrore diventa normalità non solo per chi lo compie, ma anche per chi lo sta a guardare.

Né si può pensare che basti la magistratura per evitarlo. Anche perché quando sulla Bilancia della Giustizia si valuta il peso di una malattia mentale, dietro un magistrato c’è sempre il parere “tecnico” di uno psichiatra che spesso indirizza la sentenza. Ci vuole, dunque, uno sforzo collettivo della società civile per uscire dall’ambiguità e dall’ipocrisia prendendo posizione: e i “camici bianchi” sono i primi che debbono assumersi le proprie responsabilità. Di fronte alla ferocia e alla barbarie rivelate dal video di Mastrogiovanni, debbono dire apertamente con chi stanno: se con quelli che nei convegni condannano la contenzione ma poi, con ipocriti “regolamenti” e raccomandazioni, la tollerano nei reparti; oppure stanno con i medici che l’hanno bandita e gli infermieri “obiettori di coscienza” che si rifiutano di eseguirla.

Gli psichiatri, dunque, debbono essere i primi: ma non gli unici.

Franco Basaglia, utilizzando l’arma della Costituzione, è riuscito ad affermare il diritto dei malati mentali ad essere trattati da cittadini e non come oggetti da manipolare, spostare, curare come è più comodo o redditizio. Perciò anche i politici che fra poco dovremo votare debbono dirci ora qual è la loro posizione di fronte a questi diritti calpestati: così come il Governo dovrebbe sentire il dovere di indagare su che cosa accade dietro le porte chiuse degli SPDC d’Italia e i giornalisti dovrebbero sollecitare queste risposte. Ma se nessuno vorrà farlo, penso che tocchi a noi cittadini far diventare la tragedia di Mastrogiovanni un caso esemplare, da non accantonare appena passata la notizia ed emessa la sentenza: un caso esemplare per offrire un momento di riflessione civile e profonda. Insomma, una sorta di “caso Englaro della psichiatria”.

Franco Mastrogiovanni come Eluana Englaro?

Prima del dramma di Eluana, ce ne sono stati tanti simili, vissuti con dolore, ma in silenzio. Il padre di Eluana, invece, ne ha voluto rendere partecipe la società civile per affrontarlo con chiarezza e trasparenza. E’ stato un gesto coraggioso che lo ha esposto ad attacchi di ogni tipo, ma che è servito a farci fare un passo avanti verso la consapevolezza. Anche la famiglia di Mastrogiovanni ha fatto coraggiosamente questa scelta per gli stessi motivi, decidendo di superare la barriera della vergogna e dello stigma, il dolore delle incomprensioni o di ciniche strumentalizzazioni, accettando che le immagini del corpo nudo e profanato di un congiunto diventassero di dominio pubblico. Ecco perché anche noi dovremmo contribuire a dare un senso al martirio di Franco, impedendo che la vicenda finisca come uno dei tanti fatti di cronaca giornalistica e giudiziaria. Questa dovrebbe diventare, invece, una storia emblematica, da approfondire nelle diverse implicazioni sociali, etiche, politiche, costituzionali, culturali, anche per fare da cassa di risonanza al “Trattato internazionale contro la tortura e le altre punizioni o trattamenti crudeli, inumani o degradanti” che finalmente dopo 10 anni, l’Italia ha firmato proprio qualche giorno prima della sentenza sull’omicidio di Mastrogiovanni: trattato che prevede l’ispezione di carceri, sezioni psichiatriche degli ospedali, centri di accoglienza ecc. da parte di un Comitato delle Nazioni Unite e di un Comitato Nazionale (da creare entro 12 mesi) per prevenire ogni limitazione illecita della libertà personale.

Una storia da analizzare, infine, per capire perché, oggi, c’è chi vuole annullare non solo i risultati terapeutici, ma anche i notevoli risparmi sulla spesa sanitaria resi possibili dalla legge Basaglia, per alimentare il grosso business dei “nuovi manicomi privati” sostenuti dallo Stato.

Anche nel nostro interesse, dunque, dovremmo tentare di mantenere vivi i fuochi dell’indignazione per rischiarare la notte dell’informazione. Ma come si fa? Noi che siamo una piccola realtà territoriale impegnata per la difesa dei diritti dei sofferenti psichici, quando vogliamo farci vedere e sentire, scendiamo in piazza con un segno di riconoscimento: un lenzuolo bianco indossato per sfilare in silenzio. L’abbiamo scelto anche come simbolo del nostro blog (ilenzuolibianchi.wordpress.com), in quanto evocatore dei lenzuoli dei letti di contenzione e delle camicie di forza, dei fantasmi che si agitano nella notte della sofferenza, dei lenzuoli appesi ai balconi delle case siciliane per dire “no” alle mafie, e “sì” alla legalità.

fantasmiE un lenzuolo potrebbe essere indossato anche in questo caso da chi vuole fare di Mastrogiovanni il simbolo di una lotta a favore di quanti stanno legati ai letti di contenzione solo perché altri vogliono sfruttare (anche economicamente) la loro incapacità a reagire. Una lotta, però, che per ottenere qualche risultato dovrebbe avere una strategìa facile da realizzare, ma ampia e di lunga durata: che non si può concludere, cioè, con un’unica manifestazione fatta in un unico luogo. Viceversa, in tutte le piccole e grandi città d’Italia, le persone accomunate da questo obiettivo potrebbero riunirsi in piccoli gruppi di “lenzuoli bianchi” per presidiare ripetutamente luoghi prestabiliti secondo appuntamenti convenuti: per esempio, riunirsi anche solo per mezz’ora davanti ai palazzi di Giustizia d’Italia il 4 di ogni mese, in memoria di quel 4 agosto 2009 in cui è finita l’agonìa di Mastrogiovanni.

Qual è il motivo di questa strategia? Perché per non soffocare i pochi fuochi rimasti a indicare il cammino di una società civile, ci vuole qualcuno che ogni tanto vada a ravvivarli per renderli visibili anche a chi non può o non vuole vedere: magari rivelando ogni volta un’ “emergenza psichiatrica” capace di fare notizia, a cominciare dalla “mappa dell’orrore” che indica dove, in Italia, oggi si pratica la “contenzione selvaggia”. Può darsi allora che così, con “azioni visibili e ripetute” con pazienza, determinazione e costanza, si riuscirà a liberare, uno ad uno, i tanti “matti da slegare”.

(*) Serena Romano, presidente “La Rete Sociale” onlus, giornalista professionista, blogger di ilenzuolibianchi.wordpress.com

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