Pier Aldo Rovatti si interroga sull’attuale situazione socio-politica
I filosofi sono animali scomodi. Si intrufolano e ficcano il naso dovunque. Per esempio, nelle tasse, argomento diventato per tutti di stringente attualità. Quello che forse è il più agguerrito tra i filosofi viventi, almeno nel cosiddetto ambito continentale, parlo di Peter Sloterdijk, condensa la sua provocazione in un’immagine: c’è una mano che prende (ed è lo Stato) e c’è una mano che dà (i cittadini “attivi”). Della “mano che prende” abbiamo un’idea vecchia e autoritaria, come se lo Stato che riscuote fosse ancora il sovrano e i cittadini che pagano (passivamente e con riluttanza) fossero ancora dei sudditi. Mentre della “mano che dà” sappiamo poco e non ci interessa saperne: non è un problema degno di riflessione. Ci vorrebbe un’etica delle tasse che rovesci il luogo comune, restituendo ai cittadini una funzione attiva, trasformando i sudditi in soggetti. E allora Sloterdijk butta là l’ipotesi della donazione volontaria, o che almeno una parte del contributo cominci ad avere questo carattere. Una dissennata utopia? Può darsi, ma intanto potrebbe muovere le acque stagnanti di un vincolo che diamo automaticamente per assodato. Questa provocazione non mi sembra davvero inutile: porta allo scoperto alcuni aspetti del nostro attuale legame sociale, demoralizzato e demoralizzante, alimentato quasi sempre dal risentimento.
È una palude dalla quale dobbiamo cercare di uscire prima che cada il sipario sulla società cosiddetta democratica e ci si avvii a occhi chiusi verso una compagine post-democratica. Osservo, di sfuggita, che lo scenario italiano di oggi, cioè dopo i segnali che arrivano dalla recente consultazione elettorale, è a suo modo eloquente: c’è una reazione nei confronti della “disattivazione” dei cittadini (appunto, rispetto all’essere cittadini attivi) che non è più possibile liquidare con l’etichetta di “apoliticità”. È chiaro che c’è ben altro. Un inquinamento del clima sociale che produce “emissioni” morali che ci avvelenano. Sloterdijk aveva diffuso le sue strane elucubrazioni nel 2009, con un intervento sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung intitolato «La rivoluzione della mano che dà». Seguirono una valanga di interdetti: un lettore rispose a caldo che il filosofo era uscito di testa, poi iniziò un’aspra polemica, aperta da Axel Honneth, sulle pagine del settimanale Die Zeit. Se l’idea di portare alla luce gli aspetti “timotici” della nostra esperienza (la benevolenza, la generosità, l’orgoglio, il desiderio di prestigio) era così balzana, perché scaldarsi tanto? Se l’ipotesi che le tasse possano diventare qualcosa di condiviso, una specie di donazione volontaria, è una pura e semplice follia, basta un sorriso di commiserazione. Ma il punto è che, lanciando un simile messaggio, si tocca il carattere amorfo, quasi letargico, della nostra vita sociale (e politica), e si propone un’interpretazione non consueta dell’indignazione che sta circolando ovunque. E se i cittadini ne avessero piene le tasche della demoralizzazione sociale e della passività? Se la teoria che l’uomo sia istintivamente egoista e avido – cioè la visione che da sempre ispira il nostro sguardo antropologico – cominciasse a fare acqua? Se, insomma, i cittadini non volessero più stare al gioco (un gioco di furti e contro-furti, di costante e unilaterale disciplinamento delle avidità)? Infine, perché mai dovremmo negarci un simile esperimento mentale in un orizzonte privo – a quanto sembra – di linee di fuga percorribili e produttive di soddisfazione sociale? Sloterdijk (il cui discorso è ora leggibile in un piccolo libro, La mano che prende e la mano che dà, tradotto presso l’editore Cortina) ha da tempo messo in circolazione la parola “psicopolitica” per connotare questo allargamento, di ciò che intendiamo normalmente per politica, a un’esperienza sociale e soggettiva che comprenda i desideri e le emozioni dei cittadini. A me pare una bussola opportuna per uscire dagli stereotipi e dalle ideologie che tuttora stringono le nostre menti in un realismo conservatore, di cui sono soprattutto le “sinistre” a pagare i pesanti prezzi. È ovvio che noi, i “contribuenti”, dobbiamo pagare le tasse, ma è poi così ovvio? Perché non dedicare qualche energia intellettuale allo scavo critico di questa ovvietà? A riflettere su cosa siano effettivamente le tasse, quale sia la loro storia, quali automatismi abbiamo ereditato? A interrogarci su quel “dobbiamo”, sulla natura di tale dovere, se sia possibile sostenerlo solo come debito e colpa o se non sia invece necessario immettere in esso anche il desiderio di un volere e di una condivisione sociale?
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Tutti oggi ci definiamo ‘democratici’. Ma è probabilmente il caso di fermarsi a riflettere sul senso del termine, nonchè sull’area semantica ad esso connessa. ‘Democrazia’ è l’unione di due parole greche: ‘demos’ che significa popolo e ‘kratos’ che significa potere. Ora domandiamoci, il potere è davvero nelle mani del popolo? Oggi, nell’era del crescente assoggettamento fiscale, è ancora corretto parlare di democrazia? Il popolo è ancora colui che vuole e fa le leggi o al contrario il soggetto passivo di una civiltà vittima di “furti e contro-furti” da parte dell’élite ai vertici?
Vorrei, da buona filosofa che, come ha ben detto Pier Aldo Rovatti, “ficca il naso un pò ovunque”, far notare che, stando così le cose, c’è probabilmente un feedback nettamente diverso tra la recezione della parola ‘democrazia’ oggi e la recezione della stessa parola nell’antica Grecia ad esempio. Ad Atene il cittadino era davvero parte attiva di una polis che poteva essere definita ‘democratica’. Le cariche pubbliche rotavano tra i cittadini; ognuno aveva sincero potere propositivo nei processi decisionali della città e, soprattutto, cosa fondamentale, la maggiore tassazione di feste e opere pubbliche che la polis avrebbe dovuto sostenere sarebbe spettata ai più ricchi.
Non era dunque così immediato e deterministico come lo è oggi il passaggio dalla consultazione all’imposizione. Innanzi tutto la stessa consultazione avveniva in un contesto di effettiva coralità sociale: il singolo era parte attiva della decisionalità. Tutti i cittadini greci avevano diritto di parola (isegoria) e pari diritti giuridici (isonomia) nell’ecclesia. Le votazioni avvenivano per alzata di mano. E non è difficile comprendere come nell’erezione di una mano da parte del soggetto vi fossero sinceramente dispiegati tutti i significati connessi a quella concezione di ‘psicopolitica’ di cui parlava sopra Pier Aldo Rovatti. Le emozioni, i desideri, i pareri, le opinioni del votante. Tutto. Ogni cittadino era, ontologicamente parlando, la sua posizione socio-politica.
Mi si potrà facilmente obiettare che l’Atene democratica appena elogiata prevedeva, però, anche l’inaccessibilità alla praxis politica per gli schiavi e le donne, ma replicherei prontamente chiedendo se fossero stati di più gli schiavi e le donne di allora esclusi al voto oppure NOI oggi, uomini ‘democratici’ del XXII secolo, liberi e uguali sui libri di scuola o sulle carte giuridiche, ma non nella fattualità di una tassazione sempre più passiva, schiacciante e irrefutabile.