Sul 24Ore Sanità (17-23 aprile 2012) il commento di Peppe Dell’Acqua sul nuovo “Testo unificato sull’assistenza psichiatrica“ all’esame della commissione Affari sociali della Camera
Come in tutte le cinquanta proposte di legge che ho avuto modo di leggere dal ’78 a oggi, le prime parole sono dette per rassicurare. Una giustificazione non richiesta: si affermano in premessa principi di garanzia e libertà per le persone con disturbo mentale. Gli articoli che seguono, svuotano di significato i principi affermati. Prescrivono dispositivi e meccanismi che prolungano all’infinito la sottrazione di libertà, di senso e di soggettività. Restituiscono poteri incontrastabili al medico che neanche la Legge Giolitti, quella dei manicomi del 1904, aveva osato immaginare! E di seguito una teoria di luoghi comuni accattivanti (e manipolatori) che alla fine svelano il vero obiettivo di questo strampalato testo: confermare la fragilità dei servizi, rafforzare politiche locali di salute mentale fallimentari, accreditare (caso mai ce ne fosse bisogno) le peggiori psichiatrie farmacologiche, le psichiatrie delle case di cura, delle residenze senza fine, dei diagnosi e cura blindati dove si muore legati ai letti nel trionfo proprio di queste psichiatrie che Ciccioli e colleghi assumono a modello. Il testo si dilunga a prefigurare forme organizzative di servizi, di programmi, perfino di forme di trattamenti. L’incompetenza e la confusione che in questi articoli traspare è davvero proverbiale: i posti letto devono aumentare, dovunque, negli ospedali, nelle cliniche universitarie, nelle case di cura private, nelle strutture residenziali. I trattamenti riabilitativi devono essere prolungati di sei mesi in sei mesi obbligatoriamente, anzi necessariamente, per contenere la cronicità e i malati di mente che non sanno di essere cronici e rifiutano le cure. Nella prescrizione del cd trattamento sanitario necessario prolungato, tra ordinanze del sindaco, giudice tutelare, amministratore di sostegno, dipartimento di salute mentale, psichiatra responsabile, familiare, privato sociale e privato mercantile la confusione, l’approssimazione, l’incompetenza diventa parossistica e svela il fine: spostare ingenti risorse al privato per tempi infiniti. Su questi punti il sottosegretario Cavalieri ha dovuto ricordare alla commissione che si sta discutendo di legge di rango primario, che scelte di politiche sanitarie e di dettagli amministrativi e organizzativi spettano alle Regioni.
Forse i parlamentari che vogliono occuparsi di salute mentale dovrebbero prima di tutto studiare. Cercare di capire come vanno veramente le cose. La commissione Marino prima di essere sopraffatta dalla questione degli OPG aveva diligentemente avviato un programma di visite di studio nei servizi di salute mentale di tutte le Regioni. Voglio sperare che prima dell’ennesima inutile proposta di “cancellare la 180” il lavoro della commissione Marino riprenda. Ne abbiamo bisogno.
Se i parlamentari guardassero veramente quello che accade potrebbero cogliere differenze, malfunzionamenti, esperienze luminose. Potrebbero capire che esistono servizi e programmi, semplici nella loro articolazione, per niente costosi, ricchi di risultati inimmaginabili. Se i parlamentari volessero scoprirebbero che malgrado la persistenza di ostacoli e pregiudizi la riforma ha fatto il suo corso. Le ricerche condotte negli ultimi 10 anni dall’Istituto Superiore della Sanità sulle strutture residenziali, sui Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura e sulle cliniche private e sui Centri di salute mentale sembrano confermare clamorosamente il percorso positivo di cambiamento avviato nel ’78. Le indicazioni del secondo progetto obiettivo nazionale per la tutela della salute mentale sono state in buona misura realizzate. I Dipartimenti e le strutture per la salute mentale sono diffusi in tutte le regioni. Sono presenti 285 servizi ospedalieri per acuti con circa 3.000 posti letto. Esistono strutture residenziali in tutto il territorio nazionale che ospitano circa 20.000 persone. Anche il dato relativo alla presenza dei Centri di salute mentale sembra essere confortante: uno ogni 80.000 abitanti, 14.000 addetti. Le differenze di funzionamento e di pratiche tra le diverse regioni sono talvolta enormi. Intollerabili quando rendono diseguali i cittadini. È questo il problema che dovrebbe interessare i parlamentari che si vogliono occupare delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale, delle loro famiglie, delle migliaia di operatori che intorno a queste persone si muovono con passione.
Oggi si possono raccontare molte storie differenti. Storie di persone, sempre più numerose, che malgrado la severità della loro malattia mai hanno subito restrizioni e mortificazioni. Hanno potuto attraversare Centri di salute mentale orientati alla guarigione, capaci di accogliere e accompagnare nel percorso di ripresa fino a trovare la propria strada. Esperienze esemplari e pratiche diffuse in tutto il territorio, hanno dimostrato che è possibile non fare danni e costruire percorsi terapeutici efficaci e nuove opportunità di partecipazione per le persone, i familiari, i cittadini. Esperienze che privilegiano il territorio, le reti, la prossimità, la domiciliarità contrastano di fatto la crisi, il rischio dell’abbandono e del rifiuto, la cronicità, la pericolosità. Anche la rottura relazionale, la crisi dolorosa, quando non espulsa dal contesto, assume il significato di un evento storico che ritorna sempre alla storia del soggetto. Il Centro di salute mentale aperto 24h, non più l’ospedale (crisi) e le residenze (cronicità), diventa la struttura organizzativa forte che orienta la domanda e sostiene il lavoro terapeutico-riabilitativo a fianco della vita reale delle persone. In molte regioni ormai sono presenti reti di servizi di salute mentale ben articolati e integrati che operano sulle 24h, 7 giorni su 7. Quanto più si riconosce il territorio ( non ospedali, cliniche, case di cura, letti) come luogo del lavoro terapeutico, della riabilitazione, dell’inclusione, tanto più si colloca in questa dimensione il sapere psichiatrico, il farmaco, la diagnosi e tanto più la persona, e la malattia, assume diversa visibilità. La malattia non può che essere in relazione alla persona.
Se i parlamentari prestassero attenzione a tutto questo scoprirebbero il bisogno di inventare “istituzioni” capaci di garantire la permanenza delle persone nel contratto sociale e fronteggiare il rischio di marginalizzazione. Altro che reclusioni necessarie e prolungate! Sistemi di servizi e dislocazioni di risorse in grado di reggere alle nuove scommesse: la “presa in carico”, la continuità delle cure, il sostegno alla famiglia, i percorsi di formazione e di inserimento lavorativo, la cooperazione sociale, il sostegno a tutte le forme dell’abitare. I percorsi di guarigione. Altro che letti, case di cura, porte chiuse, muri e invalidazioni!
I parlamentari della commissione Ciccioli si muovono in direzione (in)comprensibilmente contraria.
Basta riflettere sulla parola necessario che nelle intenzioni del testo dovrebbe qualificare la ragionevolezza della proposta di legge: il trattamento sanitario definito Obbligatorio prima, diventa Necessario ora. A ben vedere tra le due parole si cela una differenza abissale che, se colta, svela la natura dei riferimenti culturali dei proponenti. E la distanza da cosa si deve intendere oggi per disturbo mentale, cura, guarigione.
Per comprenderlo è bene ribadire che la cifra della legge 180 sta in una risposta chiara e quanto mai consapevole alla seguente domanda: il malato di mente è cittadino come tutti gli altri? E’ un cittadino che può godere a pieno titolo del diritto costituzionale? E in particolare del diritto alla cura e alla salute nel rispetto della libertà, della dignità e dell’inviolabilità del corpo come nell’art. 32?
Se per secoli la risposta è stata no, i malati di mente non possono e non sono mai stati cittadini da quando i manicomi sono nati, in Italia, alla fine degli anni Settanta, un manipolo di bravi legislatori capitanato da Tina Anselmi, ha risposto che sì, consapevoli delle conseguenze e delle difficoltà di una simile e inaspettata risposta. Per la prima volta al mondo i malati di mente diventavano cittadini. Da quel “sì” in poi si afferma la possibilità di riconoscere l’altro come cittadino, come persona, come soggetto. La tutela della soggettività assume priorità in ordine a qualsiasi altra azione venga messa in atto, anche quando a evidente tutela della salute e del diritto alla cura della persona che rifiuta. Tutto questo è il Trattamento Sanitario Obbligatorio. È la legge 180.
“Obbligatorio” significa prima di tutto che l’altro esiste. Posso “obbligare” qualcuno con un’ordinanza, una norma, una legge quando ho riconosciuto la sua autonomia e la sua possibilità di rifiuto. La parola testimonia una tensione alla negoziazione. Obbligare qualcuno a qualcosa ha a che vedere anche con un’assunzione di responsabilità: un sentirsi obbligato nei confronti dell’altro che sto obbligando, limitando la sua libertà, invadendo il suo spazio intimo e personale.
“Necessario” nega prima di tutto l’esistenza dell’altro. Nega la presenza del soggetto in ragione di qualcosa che trascende dai contesti, dalle relazioni, dalle storie, dagli individui. Sposta completamente il campo a ciò che si deve ritenere in assoluto di estremo bisogno, di cui non si può fare a meno: non c’è trattativa perché la necessità rimanda a un oggetto, la malattia mentale, che rientra nella naturalità, nell’ineluttabile accadere delle cose. Necessario è, nella radice del suo significato, “non cedere”, tenere con forza una posizione. Necessario attiene alla forza “naturale” che la normalità deve esercitare sulla follia dopo averla ridotta a malattia. Nel rapporto con chi vive l’esperienza del disturbo mentale non si può cedere: fare o non fare un trattamento significa, per chi esercita il potere vincere o perdere.
La proposta di legge Ciccioli, con la ragionevolezza della necessità, accoglie le domande gridate, poste da una minoranza ormai esigua di politici disattenti o senza scrupoli, di giornalisti disinformati, di familiari strumentalizzati o peggio esasperati dalla sordità delle amministrazioni locali. Tutte le associazioni dei familiari che si pensa di suggestionare con una luccicante offerta di servizi e ragionevoli soluzioni organizzative e con il paternalismo del necessario, si preoccupano delle stesse cose. Tutti i familiari devono vivere con fatica il “carico assistenziale”, devono fare i conti col vissuto di colpa, devono scontrarsi con la distanza dei servizi, devono accettare la restrizione di diritto e di possibilità per il loro caro. Su queste questioni tutte le associazioni sono concordi. Le differenze si riscontrano sulla concezione della persona con disturbo mentale. Differenze che connotano una chiara scelta di campo.
Per alcune, pochissime oramai, la persona con disturbo mentale è una persona “irresponsabile ed incapace”, che necessita di tutela, di maggiori automatismi nei trattamenti obbligatori, di tempi di ricovero più lunghi, di riconoscimento per legge di uno statuto di “invalidità” e di “incapacità”.
Per altre associazioni invece, egli è una persona che deve avere diritto a una crescita personale, alla sua autonomia, a una collocazione nella società attraverso percorsi di normalità. Sono queste le associazioni che chiedono anche una maggiore disponibilità del servizio a farsi carico o a condividere le situazioni di crisi, un minore ricorso ai ricoveri obbligatori e l’abbandono di tutte quelle situazioni di costrizione che aumentano la drammaticità dei trattamenti e ne riducono l’efficacia.
E benché queste seconde rappresentino ormai l’assoluta maggioranza, l’onorevole Ciccioli ha scelto le prime.