Mi presento a voi gravato dal peso di due difetti, di due mancanze. Quella di essere influenzato e quella di non essere né psichiatra né antipsichiatra; a dire il vero, rimpiango non tanto il fatto di non essere psichiatra, quanto piuttosto di non essere antipsichiatra, perché ho l’impressione che qui si stia delineando una sorta di investimento teorico che deve cingere d’assedio i temi e le pratiche dell’antipsichiatria, e io non sono sicuro di trovarmi nella posizione migliore per essere colui che respingerà questi attacchi. Sono soltanto uno storico e vorrei, come storico, cercare di spiegarvi in che modo vedo la nascita di questa antipsichiatria. Lo farò di certo con una competenza inferiore a quella, ammirevole, che è appena stata espressa dal dottor Ellenberger. Come lui, anch’io penso che non esista un’antipsichiatria, ma piuttosto degli antipsichiatri, e su questo punto concordo pienamente con lui; tuttavia tra le nostre analisi ci sono forse alcuni punti di divergenza.
Adotterò un punto di vista che probabilmente vi sembrerà troppo lontano, e che non è nemmeno storico, bensì quasi etnologico. Comincerò dicendo quanto segue: credo che, in realtà, l’idea secondo cui la verità sarebbe universale, eterna, che vi sia verità ovunque e sempre, e che dappertutto attorno a noi la verità incomba, ci attenda, sia presente in silenzio, passiva e addormentata, aspettando il momento in cui getteremo lo sguardo su di essa e infine la risveglieremo, l’idea che la verità e l’universale coincidano, sia un’idea da filosofi, dunque un’idea da studiosi che ha avuto corso lungo l’intera storia di quello che potremmo chiamare il nostro imperialismo culturale.
E tuttavia se consideriamo la trama, la fibra della nostra società, della nostra civiltà, delle nostre istituzioni, ci accorgiamo che in fondo abbiamo sempre, anche in uno stadio avanzato, delle tecniche, dei rituali, delle istituzioni che hanno la funzione di determinare, di isolare momenti specifici o luoghi differenziati, a partire dai quali la verità potrebbe infine rifulgere: come se, alla fin fine, la verità non fosse propria di ogni luogo, né di ogni tempo, ma dovessero esserci luoghi in cui la verità esplode e appare, momenti in cui la verità può essere colta, momenti in cui viene alla luce.
Esiste dunque tutta una geografia culturale della verità. E c’è nelle nostre società, o per lo meno c’è stata, nella società, una geografia delle sedi profetiche. I filosofi greci si chiedevano perché, appunto, si ritenesse che la verità dovesse parlare a Delfi e, dopotutto, noi abbiamo ancora, nelle chiese e nelle università, dei luoghi che chiamiamo “cattedre”, da cui si suppone che la verità parli. Anche la cella del monaco, l’isolamento monastico, costituivano a loro volta una modalità di predisporre un determinato luogo geografico in cui la verità avrebbe potuto prodursi. C’è stata inoltre una sorta di cronologia della verità.
Consideriamo nel pensiero medico, a partire da Ippocrate, la nozione assai singolare di crisi; che cos’è stata per secoli la crisi nel pensiero medico dell’Occidente? La crisi è stata il momento, è stata definita come il momento in cui la vera natura della malattia si sarebbe infine potuta manifestare, in cui l’evoluzione effettiva della malattia si sarebbe delineata. Il momento della crisi era quello della decisione, quello in cui viene effettuata la separazione tra la vita e la morte. E il ruolo del medico, rispetto alla crisi, non era quello di chi, in un certo senso, interveniva e la risolveva, ma era piuttosto quello dell’organizzatore, di colui che, ponendosi accanto alla crisi, parallelamente a essa, la spiava, l’appoggiava, la sosteneva, la favoriva; attraverso un certo numero di artifici, un certo numero di tecniche, quasi di incantesimi, egli permetteva alla crisi di essere il momento in cui la verità si sarebbe infine prodotta.
Si potrebbe dire, allo stesso modo, che anche nelle pratiche giudiziarie, per secoli, si è cercata la verità, ma non tanto attraverso il sistema dell’inchiesta, bensì attraverso un sistema che era quello della prova; si organizzava una sorta di rituale, al contempo un luogo e un momento, in cui si pensava che la verità avrebbe potuto prodursi e avrebbe potuto farlo in modo folgorante, prodursi come una folgore. Era infatti il Giudizio di Dio a dover decidere chi avesse ragione e chi fosse nel vero!
Esisteva dunque, in un certo senso, tutta una geografia, tutta una cronologia differenziata della verità. In altre parole, la verità non è sempre stata concepita come l’elemento stesso dell’universale. Nella nostra cultura, anzi, è durata per secoli, e forse non si è ancora spenta, l’idea secondo cui la verità è un evento che si produce, e che si produce in certi luoghi e in certi momenti. Si potrebbe quasi dire – lo dico con cautela e a titolo di semplice ipotesi – che il momento in cui l’idea secondo cui la verità è un evento che si produce semplicemente in certi luoghi e in certi momenti, ha cominciato a essere seriamente messa in discussione, mi sembra, con le grandi tecniche legate alla navigazione, vale a dire quando si è stati obbligati a inventare strumenti grazie ai quali fosse possibile individuare, scoprire, definire, formulare la verità in un qualunque luogo e in un qualunque momento. La nave, luogo senza luogo, perduto in uno spazio infinito, che deve a ogni istante determinare la propria situazione, rappresenta, in un certo senso, l’immagine stessa, il problema stesso che si trova al cuore della nostra società: in che modo, ovunque e da qualsivoglia punto di vista, cogliere la verità? Il grande problema della navigazione è stato il momento fondamentale della rottura, non tanto nella coscienza scientifica, ma in quella che chiamerei la tecnologia della verità.
Questa però era solo una parentesi. In ogni caso se si pone il problema in termini di tecnologia della verità, il problema del rituale, del procedimento, grazie al quale far esplodere la verità, si incontra evidentemente fin da subito il problema dell’ospedale. Parlando di ospedale, non intendo solo l’ospedale psichiatrico, ma l’ospedale in generale.
Quali erano nel xviii secolo le funzioni dell’ospedale? Ebbene, credo che fossero precisamente due. Una specie di funzione in qualche modo moderna per l’epoca, propria dell’ospedale del xviii secolo, era appunto quella di costituire un luogo di osservazione in cui la verità era in un qualche modo già presente, tutta quanta dispiegata, e si offriva allo sguardo di chiunque. L’ospedale, nel xviii secolo, era in fondo l’analogo di un giardino botanico; doveva infatti essere un luogo in cui tutte le malattie potevano essere osservate, caratterizzate, confrontate, differenziate, raggruppate in famiglie, classificate ecc. L’ospedale era il giardino botanico del male; era, se volete, l’erbario vivente dei malati.
Sotto un altro aspetto, e secondo la sua funzione non più moderna ma, se volete, arcaica, l’ospedale nel xviii secolo doveva esercitare un’azione diretta sulla malattia. Il ruolo dell’ospedale era quello di permettere alla malattia di produrre la sua verità, non solamente di mostrarla, ma di farla esistere come un evento. In effetti, in quell’epoca si ammetteva che il malato, a partire dal momento in cui lo si lasciava nel suo ambiente, nella sua famiglia, con chi lo circondava, con il suo regime, i suoi pregiudizi, le sue abitudini, le sue illusioni ecc., non potesse che essere colpito, fondamentalmente, da una malattia complessa, aggrovigliata, contorta, una sorta di falsa malattia, mentre si riteneva che solo in quella sorta di spazio di purificazione e di decantazione costituito dall’ospedale la malattia potesse produrre, finalmente, la sua vera natura, potesse esplodere in piena luce mostrando il suo volto autentico. Dunque, l’ospedale era il luogo di osservazione della verità della malattia, ma al contempo anche il luogo di produzione della malattia; ed era un fattore di produzione della verità della malattia. Ebbene, io credo che questa ambiguità dell’ospedale o questa duplice funzione dell’ospedale nel xviii secolo si ritrovi ancora a lungo, e che fin verso il 1860, vale a dire quasi un secolo fa, l’intera pratica, l’intera teoria della specializzazione, direi persino più in generale l’intera concezione della malattia fossero governate da questa specie di gioco, di ambiguità, di equivoco o di surdeterminazione. In un certo senso, le funzioni dell’ospedale in cui risiede uno dei grandi problemi del pensiero medico del xix secolo sono governate dal problema seguente: la terapia deve forse consistere essenzialmente nel sopprimere il male dal momento in cui appare, oppure bisogna, al contrario, che la terapia attenda lo sviluppo, la produzione del male nella sua verità, per poter agire? Stava qui tutto il problema dell’alternativa tra i sostenitori dell’attesa e i fautori dell’intervento.
Vi era anche un altro problema: se è vero che esistono malattie autentiche e poi malattie che sono malattie di malattia, malattie aberranti, malattie deformate, non si può forse ammettere alla fine che esista una sola malattia fondamentale di cui tutte sarebbero derivazioni e come forme indirette e secondarie? In questo consiste fondamentalmente la disputa che si è svolta tra Broussais e i suoi avversari, all’inizio del xix secolo. Si pone anche il problema di sapere cosa sia in fondo la vera malattia. Che cos’è una malattia normale? La malattia normale è forse quella che, spontaneamente, guarisce o quella che fatalmente conduce alla morte? La questione affrontata da Bichat è proprio il problema della malattia tra la vita e la morte. Infine, potete vedere come tutti i grandi problemi teorici della medicina, nel xix secolo, siano ancora dominati fondamentalmente dal ruolo ambiguo della pratica ospedaliera. La scomparsa dei problemi è poi dovuta, evidentemente, alla prodigiosa semplificazione che la biologia di Pasteur ha introdotto in tutto questo. A partire dal momento in cui Pasteur ha determinato qual era l’agente patogeno, il giorno in cui Pasteur ha fissato questo agente responsabile della malattia come un organismo singolare, allora la biologia di Pasteur ha permesso che l’ospedale diventasse un luogo in cui non doveva più svolgersi la produzione della malattia e in cui bastava, da una parte, diagnosticare la malattia, cioè dire cosa essa fosse, e dall’altra interdire a livello stesso di questo agente il momento produttivo della verità della malattia; quel momento poteva essere eluso.
Mi scuso per aver aspettato tanto a parlare di quello che deve essere l’oggetto specifico del mio discorso, vale a dire l’ospedale psichiatrico e il problema dell’antipsichiatria. Mi sembra, tuttavia, che questo breve richiamo fosse un po’ necessario per arrivare a comprendere in modo adeguato la posizione del folle e quella dello psichiatra all’interno della storia stessa dello spazio ospedaliero.
Credo che esista una correlazione storica tra questi due fatti, che cercherò di mostrare. Ancora nel xviii secolo, la follia non costituiva oggetto permanente e regolare dell’internamento. E durante questo stesso periodo oppure almeno sino alla fine del XVIII secolo, la follia non era percepita tanto come un disturbo del comportamento, un modo di agire come non si deve, una sorta di perturbamento delle passioni. Non era questo la follia nel xviii secolo, nell’epoca in cui, appunto, non la si internava. La follia era essenzialmente un certo modo di giudicare male, di percepire male, di ingannarsi. La follia era vista essenzialmente come fondata sull’errore. E, dopotutto, nei confronti della follia si era tanto tolleranti, o relativamente tolleranti, se volete, quanto lo si poteva essere nei confronti dell’errore; la follia faceva parte di tutte le chimere del mondo, e la si internava solamente quando diventava estrema o pericolosa.
Capite bene come in quel momento, se è vero che la follia era essenzialmente una forma di errore, in quelle condizioni l’internamento non fosse possibile. Quali erano di fatto le condizioni per poter guarire la follia o sopprimere quel momento di errore? Evidentemente non poteva essere la tecnica consistente nel rinchiudere il malato in uno spazio artificiale come l’ospedale. I luoghi terapeutici, i momenti terapeutici, i rituali grazie ai quali poter guarire dovevano appartenere a un ordine completamente diverso da quello dell’ospedalizzazione. Oppure si ricollocava, si cercava di ricollocare il malato nella natura stessa poiché, dopotutto, la natura non è altro che il volto visibile della verità. Dunque, ricollocare il malato nella natura, farlo viaggiare, costringerlo a fare passeggiate, indurlo a una vita ritirata, organizzare per lui una condizione di riposo, soprattutto allontanarlo dal mondo artificiale e vano della città, della lettura, dei romanzi, delle passioni, costituiva tutto l’arsenale terapeutico fondamentale nel xvii e nel xviii secolo. E del resto, nel xix secolo, se ne ricorderà ancora Esquirol poiché, quando organizzerà i suoi grandi ospedali psichiatrici, raccomanderà che tutti i padiglioni si aprano su un vasto giardino. Il giardino rappresenta la natura come luogo di guarigione della follia, a partire dal momento in cui essa diventa furiosa. Inoltre, l’altro grande momento rituale terapeutico era costituito dall’esatto contrario della natura, dalla natura rovesciata, ovvero dal teatro, vale a dire dall’organizzare attorno all’errore del malato un mondo fittizio, elaborato, in modo tale che alla fine il malato, all’interno di questa commedia che si rappresentava per lui e che egli doveva appunto accettare poiché assomigliava alla sua follia, si trovasse come in un labirinto, ricondotto finalmente in ultima istanza alla verità e alla realtà. Arrivava a liberarsi dall’errore per mezzo del meccanismo stesso della commedia che si allestiva attorno a lui, e anche in questo caso Esquirol non dimenticherà la lezione, poiché raccomanda proprio che, quando si ha a che fare con un malinconico, gli si faccia credere di trovarsi preda di una serie di processi innumerevoli, così da stimolare la sua energia e il suo gusto di combattere.
Dunque, vedete che la pratica dell’internamento era in fondo assolutamente contraddittoria rispetto all’idea stessa che ci si faceva della follia nel xviii secolo. La pratica dell’internamento comincerà nel xix secolo, in un momento ben preciso, quello appunto in cui la follia sarà avvertita meno nel suo rapporto con l’errore che non in quello con la condotta regolare e normale. Sarà la nozione di normalità, di comportamento normale, a costituire il correlato teorico della pratica dell’internamento. La follia sarà definita all’inizio del xix secolo non come giudizio perturbato ma come disturbo nel modo d’agire, nel modo di volere, nel modo di avere passioni, di provare sentimenti, nel modo di prendere decisioni, e così via: la follia cesserà di iscriversi lungo il grande asse verità-errore-coscienza, per iscriversi lungo un asse completamente diverso: quello passione-volontà-libertà. È il momento di Hoffbauer, è il momento di Esquirol: “Ci sono sicuramente degli alienati il cui delirio è appena visibile”, dice quest’ultimo, “ma non c’è alcun alienato le cui passioni, le cui affezioni morali non siano disordinate, pervertite o annientate. L’attenuazione del delirio non è dunque una guarigione certa se non quando gli alienati ritornano alle loro destinazioni normali”. E allora, in queste condizioni, se è vero che la follia è essenzialmente lo sconvolgimento dell’asse o dei due poli: passione-azione-libertà-volontà, se è proprio questo, quale sarà il processo di guarigione? Il ritorno alla verità? Niente affatto. Piuttosto un altro tipo di ritorno, e ancora una volta vi cito Esquirol: “Il ritorno alle destinazioni normali nei loro giusti limiti”. Il desiderio di rivedere gli amici, di rivedere i propri figli, le lacrime della sensibilità, il bisogno di aprire il proprio cuore, di ritrovarsi in mezzo alla propria famiglia, di riprendere le proprie abitudini, ecco, secondo Esquirol, cosa caratterizza davvero la guarigione. E allora, in queste condizioni, cosa potrà provocare un simile ritorno? Di certo, non la riscoperta della verità. Ciò che potrà permettere questo ritorno alla norma, al modo normale di agire e di sentire sarà proprio l’ospedale. Inteso non come luogo di osservazione, ma piuttosto come luogo di affrontamento tra, da una parte, la passione e la volontà perturbate del malato e, dall’altra, la passione e la volontà ortodossa del medico e del personale ospedaliero.
L’ospedale diventa dunque il luogo all’interno del quale si organizzerà il faccia a faccia, lo choc inevitabile e, a dire il vero, auspicabile di una volontà malata che potrebbe peraltro restare benissimo impercettibile poiché non delira, e di una volontà retta che è quella del medico. L’ospedale sarà dunque questo luogo di affrontamento, questo luogo di lotta, questo luogo di opposizione, e ci sarà guarigione quando da questa lotta, da questo conflitto, da questa opposizione uscirà qualcosa come la vittoria della volontà retta, vale a dire il dominio del medico e l’assoggettamento del malato. Vi cito ancora Esquirol: “Bisogna applicare un metodo perturbatore, spezzare lo spasmo con lo spasmo. Lo spasmo del malato con lo spasmo del medico. Bisogna soggiogare il carattere arcaico di certi malati, vincere le loro pretese, domare il loro impeto, spezzare il loro orgoglio; tuttavia, si deve eccitare e incoraggiare l’altro”. Si allestisce così, come potete vedere, la funzione molto singolare dell’ospedale psichiatrico nel xix secolo. L’ospedale psichiatrico del xix secolo conserverà sicuramente, porterà con sé il modello dell’ospedale che possiamo chiamare generale, vale a dire che sarà anch’esso il grande recinto botanico in cui le specie delle malattie vengono suddivise nei famosi padiglioni, inquadrate, disposte secondo i piani di Esquirol, quella sorta di grandi padiglioni che fanno pensare a un vasto orto di rape e di carote, ma, nello stesso tempo, l’ospedale sarà lo spazio chiuso per un affrontamento, sarà il luogo di un agone, sarà un campo istituzionale in cui si svolge una gara, non tra la verità e l’errore ma tra la vittoria e la sottomissione. Il grande medico del manicomio, che si tratti di Leuret, o di Charcot o di Kraepelin, è colui che può dire la verità sulla malattia, grazie al sapere che ha su di essa, ma è al contempo colui che può produrre la malattia nella sua verità e che può sottometterla nella realtà grazie al potere che la sua volontà esercita sul malato stesso. Tutte le tecniche o le procedure messe in atto nei manicomi del xix secolo, che si tratti dell’isolamento, dell’interrogatorio privato o pubblico, dei trattamenti di punizione, come la doccia, il trattamento morale (incoraggiamenti, rimostranze ecc.), la disciplina rigorosa, il lavoro obbligatorio, le ricompense ai malati docili, i rapporti preferenziali tra il medico e il tal malato, le relazioni di vassallaggio, di possesso, di appropriazione, di domesticità, talvolta persino di servaggio tra il malato e il medico, tutto questo, come potete vedere, ha la funzione di fare del personaggio del medico il padrone della follia, colui che l’ha fatta apparire nella sua verità, mentre essa si nasconde, mentre tenta di restare sommersa e silenziosa, e al contempo colui che la domina e che, dominandola, la addomestica, la riassorbe, la fa tacere dopo averla sapientemente scatenata.
Il fatto è che, storicamente, se considerate l’ospedale non psichiatrico, nel xix secolo potete vedere un’evoluzione o piuttosto una grande rottura, che può essere ricondotta al nome di Pasteur. A partire da questa grande rottura, l’ospedale generale, l’ospedale cosiddetto medico è tale per cui la funzione di produzione della malattia è interamente schivata, elusa, stemperata. Al contrario, durante lo stesso periodo, sempre nel corso del xix secolo, si può vedere come l’ospedale psichiatrico assuma una direzione completamente opposta, poiché attorno al personaggio del medico, di cui Charcot può evidentemente rappresentare il nome simbolico per eccellenza, si incentra la funzione di produzione della malattia, di messa in luce della malattia, di scatenamento della malattia, di lotta con la malattia, di dominio della malattia, ed è questa funzione che si esalterà nell’ospedale psichiatrico proprio all’epoca in cui sta scomparendo nell’ospedale generale. E dunque possiamo contrapporre al nome di Pasteur quello di Charcot.
L’ipotesi che vorrei ora avanzare è questa: mi sembra che la crisi sia stata aperta e, di conseguenza, l’età dell’antipsichiatria sia cominciata quando si è avuto il sospetto, trasformatosi presto in certezza, che il grande padrone della follia, colui che la faceva apparire e scomparire, Charcot, era colui che non produceva la verità della malattia ma che ne fabbricava l’artificio. Il giorno in cui si è scoperto che Charcot fabbricava a richiesta le celebri grandi crisi di isteria, ci si è accorti che la Salpêtrière non era il luogo in cui si compiva la tenzone tra la ragione e la follia, ma quello in cui si fabbricava, attraverso oscuri rapporti di potere, qualcosa che doveva sedurre così tanto il medico, e che era la crisi della donna isterica. Ebbene, quel giorno è cominciata, io credo, una crisi che doveva condurre all’antipsichiatria.
Confrontiamo questo evento con quello della storia di Pasteur. Cosa rappresenta Pasteur? Molto semplicemente, l’uomo che ha detto ai medici: “State attenti, sulle vostre celebri mani, le vostre mani bianche, le vostre mani di verità, che mostrano la malattia là dove si trova, voi recate dei volgari piccoli germi che sono apportatori della malattia”. Questa imposizione dei guanti ai medici è stata una ferita narcisistica che i medici hanno perdonato a Pasteur solo dopo molto tempo. Bene, dirò cosa è capitato a Charcot in un’epoca non tanto lontana da quella di cui parlo; la scoperta che Charcot stesso fabbricava la sua malattia, fabbricava le sue malate è stata, come credo, un altro grande trauma. Ma, mentre i medici propriamente detti hanno potuto superare la loro ferita narcisistica e ricondurla al livello della tecnostruttura, della provetta e del laboratorio, la psichiatria invece, davanti alla crisi che si era così aperta, non ha potuto incontrare nient’altro che il problema dell’antipsichiatria. Mi sembra, in ogni caso, che tutte le grandi scosse che hanno colpito la psichiatria dalla fine del xix secolo non abbiano tanto messo in questione il sapere dello psichiatra, ma abbiano soprattutto messo in questione, più che il suo sapere, più che la verità di quello che diceva, il potere dello psichiatra e il modo in cui lo psichiatra non tanto enuncia o non enuncia la verità della malattia ma produce la malattia, in virtù dell’esercizio stesso del suo potere. E da Bernheim a Laing o a Basaglia in questione è stato il modo in cui il potere del medico risultava implicato nella verità e, inversamente, il modo in cui la verità, enunciata dallo psichiatra, poteva essere fabbricata o compromessa o truccata dal potere. Cooper ha detto: “La violenza è al cuore del nostro problema”, e Basaglia: “La caratteristica fondamentale di queste istituzioni: fabbrica, ospedale, scuola, manicomio, è una separazione netta tra coloro che hanno il potere e coloro che non ce l’hanno”. Tutte le grandi riforme, non solo della pratica psichiatrica ma, credo, anche del pensiero psichiatrico sorto attorno al problema del rapporto di potere, tutte le grandi riforme, tutte le grandi crisi, tutti i grandi dibattiti sono altrettanti tentativi per spostare, per smascherare, per eliminare, per annullare, per disarmare questo rapporto di potere. Tutta la psichiatria moderna è fondamentalmente attraversata dall’antipsichiatria, e chiamo e intendo con antipsichiatria – cercando di darne una definizione di cui non dico che sia vera né che sia rigorosa ma almeno che sia comoda – tutto ciò che rimette in questione il ruolo di uno psichiatra, che un tempo era incaricato di produrre la verità della malattia nello spazio dell’ospedale.
Ebbene, in queste condizioni credo che si possa parlare di “antipsichiatri” e, per terminare, vorrei proporvene una breve tipologia che, ancora una volta, non coinciderà affatto con quella certamente molto più esatta che il dottor Ellenberger ci ha presentato. Credo che ci siano, in fondo, tanti tipi di antipsichiatria quante sono le possibilità di modificare il rapporto di potere che esiste e che è stato storicamente instaurato tra lo psichiatra, il malato e la produzione della follia nella sua verità.
In primo luogo, chiamerei “antipsichiatria” la pratica che – all’interno del dibattito a tre termini: psichiatra, malato, produzione della malattia nella sua verità – consiste nel cercare di ridurre quanto più possibile l’ultimo di questi elementi, vale a dire la produzione della follia nella sua verità, per lasciare in un certo senso l’uno di fronte all’altro, nella loro nudità, il malato e il medico.
Ridurre la produzione della follia e portare al contrario al loro maximum di intensità i rapporti di dominio tra lo psichiatra e il malato è il tipo di rapporto che troviamo, credo, nella psichochirurgia o nella psicofarmacologia, che tuttavia non vengono inserite abitualmente, come so bene, nella rubrica antipsichiatrica. Ma credo che anche queste tecniche, nella misura in cui cercano di manipolare e di contenere il grande problema dei rapporti di potere, di semplificarli sopprimendo uno dei termini, debbano essere integrate alla grande crisi dell’antipsichiatria aperta dall’epoca di Charcot. Nella psichochirurgia, nella psicofarmacologia si tratta, in qualche modo, di “pastorizzare” l’ospedale psichiatrico, di ottenere nel manicomio lo stesso effetto di semplificazione che Pasteur aveva imposto negli ospedali.
Si tratta di articolare direttamente l’una sull’altra la diagnosi e la terapia, la conoscenza della natura o dell’origine o del supporto organico della malattia e la soppressione delle sue manifestazioni; di conseguenza, il momento di produzione della malattia nella sua verità, il momento della prova, quello della malattia che emerge, che giunge al suo compimento non deve assolutamente risultare in una pratica di tipo farmacopsicologico o psicochirurgico. L’ospedale può diventare allora un luogo silenzioso in cui la forma del potere medico si mantiene nel suo senso più rigoroso senza dover mai incontrare la follia in quanto tale. Il malato e il medico si trovano faccia a faccia, una volta messa tra parentesi la follia. Chiamerò questa forma asettica, asintomatica dell’antipsichiatria una antipsichiatria o una psichiatria a produzione zero.
In secondo luogo, un’altra forma di antipsichiatria è quella che consiste nell’agire non tanto sopprimendo il momento della produzione quanto piuttosto, al contrario, cercando di rendere più intensa possibile questa produzione della follia, adattando i rapporti di potere tra medico e malato a questa stessa produzione, sovrapponendo in qualche modo esattamente i rapporti di potere medico/malato all’attività produttrice di follia. Dunque, in queste condizioni, in queste forme dell’antipsichiatria, si sopprimono tutte le forme esteriori di tipo coercitivo: quella politica, quella amministrativa, quella istituzionale del potere dello psichiatra. Ci sono solo il malato e lo psichiatra che stabiliscono un’intesa, in un certo senso, in un rapporto più libero che è quasi contrattuale, in modo che i loro incontri, i rapporti d’amore, di desiderio, persino di potere che s’intrecciano tra loro siano esattamente organizzati in funzione della produzione della follia nella sua verità, e di essa soltanto.
È in qualche maniera il modello a cui obbediscono la psicanalisi e, più in generale, tutte quelle che potremmo chiamare le psicoterapie di ispirazione psicanalitica. Qui, in questa specie di meccanismo, il medico non interverrà più come istanza di autorità autonoma, che pesa dall’esterno sul malato; non sarà più con le sue domande, le sue minacce, la sua disciplina che il medico svolgerà un ruolo, ma in un certo senso con il suo silenzio. Il silenzio è la famosa disposizione spaziale della cura psicanalitica ed è esattamente rappresentativo di quel singolarissimo rapporto che inaugura l’invisibilità del medico. Di conseguenza, la follia nella sua verità potrà trovare lì il suo luogo, ma resta nondimeno che questa presenza muta e insistente dietro il malato, la natura stessa della consultazione, il prezzo pagato per essa, i conseguenti imperativi economici e sociali di cui tutta la psicanalisi è intessuta investiranno in qualche modo di rapporti di potere, che sono rapporti politici, quello che era solamente un principio di produzione della malattia nella sua verità.
L’adeguazione postulata tra il lavoro del transfert e l’esborso di denaro nella cura psicanalitica o psicoterapeutica è ciò che consente di supporre che in quelle procedure il potere del medico non ecceda mai il movimento con il quale la follia emerge nella sua verità. Potrei dire, se volete, che con la psicanalisi o le psicoterapie abbiamo un’antipsichiatria in cui rapporto di potere e prova di produzione sono sovrapposti con grande esattezza.
Terza forma di antipsichiatria è quella che, al contrario, verterà sull’illusione del personaggio medico. Illusione del personaggio medico e transfert, del malato solamente, del potere di produrre la follia e la verità della follia. Ebbene, in quella forma di antipsichiatria e, beninteso, in quella di Laing e di Cooper la follia non è più ciò che il malato deve confessare, deve mostrare, deve manifestare su ingiunzione del medico, che sia per effetto dell’insistenza delle sue domande o dell’ostinazione del suo silenzio. Per prodursi, la follia non aspetta l’ingiunzione muta o loquace del medico; è piuttosto il compito che il malato deve eseguire, ciò attraverso cui deve passare, ciò a cui deve tendere. In un certo senso, si potrebbe dire, ed è stato detto, che simili tecniche riconducono dopotutto a concezioni mediche molto vecchie.
Cosa significa questa idea secondo cui il malato deve attualizzare, drammatizzare lui stesso le sue virtualità di follia se non riprendere un po’, in fondo, quelle vecchie tecniche di teatralizzazione che si trovavano nel xvii secolo? Di fatto, io credo che se ne sia molto lontani. L’antipsichiatria di Laing e di Cooper assomiglia solo esteriormente a quelle procedure teatrali, nelle quali si trattava di entrare in un certo senso furtivamente nella follia del malato ricorrendo all’astuzia, per far sì che ne uscisse al più presto. Nella psicoterapia, secondo Laing e Cooper, si tratta al contrario di fare in modo che sia il malato stesso a poter entrare nella propria follia, all’interno della propria follia, fino in fondo alla propria follia. Egli deve farne l’esperienza fino ai suoi limiti estremi e solo alla fine deve uscirne, proprio nella misura in cui sarà andato fino in fondo.
Non si dovrebbe dire, non si dovrebbe più farlo, che le tecniche di Laing e Cooper riprendono la vecchia idea secondo cui, dato che le malattie hanno una natura e un percorso proprio, il solo intervento del medico consiste nel non intervenire, nel lasciar fare e nel lasciare libero corso alla natura stessa della malattia. Infatti, se si leggono i testi di Laing e Cooper, si può vedere come non sia mai in questione lo svolgimento naturale o specifico della malattia. Si tratta piuttosto […] di una specie di compito che il malato che vuol guarire [si attribuisce]. E, come emerge molto chiaramente nel testo a proposito di Mary Barnes, il malato che vuol guarire assegna a se stesso il compito di andare proprio fino in fondo all’esperienza della follia. Si tratta di fare questa immersione volontariamente e non di lasciar avvenire un percorso naturale; si deve fare volontariamente questa immersione come unica uscita da una situazione in cui la follia si è trovata a essere precisamente, per il soggetto, la sola forma possibile di esistenza.
Nell’illusione del personaggio medico, il confronto è solo di conseguenza tra il malato e la produzione della follia. Ma quale sarà allora il ruolo degli altri? Il ruolo degli altri è importante, ma degli altri non in quanto sono medici, in quanto detengono un’autorità qualunque, o per il loro sapere, o in quanto rappresentanti di una normalità; il ruolo che gli altri si trovano a dover svolgere è piuttosto quello di partner all’interno e al limite di questa esperienza. All’interno di questa esperienza, nella misura in cui gli altri diventeranno personaggi sui quali si articoleranno i desideri o i fantasmi del malato. Non sarà all’interno dell’opposizione malato/medico, anomalia/conformità, folle/non-folle che svolgeranno un ruolo; al contrario, lo svolgeranno all’interno stesso della follia. E, d’altra parte, essi resteranno sempre ai limiti della follia, in quanto partner, in un certo senso testimoni, che, con la loro comprensione, il loro atteggiamento, la loro capacità di analizzare, di verbalizzare ciò che accade, autenticano, convalidano in questo modo, agli stessi occhi di colui che fa questa esperienza terrificante, ciò che sta accadendo, conferiscono un’autenticazione all’esperienza in corso. Vedete che in questa forma di antipsichiatria, come è praticata da Laing e Cooper, è dunque in questione l’illusione del polo del potere medico, è in questione la demedicalizzazione dello spazio in cui si produce la follia. Un’antipsichiatria, di conseguenza, in cui a essere ridotto a zero è il rapporto di potere.
E certamente, come vedete, il problema posto da tale demedicalizzazione della follia, questa organizzazione di una prova di follia nella quale il potere medico sarebbe ridotto a niente, ebbene questa demedicalizzazione non implica semplicemente, credo, un rimaneggiamento istituzionale degli istituti psichiatrici. Si tratta senza dubbio di qualcosa di più di una semplice rottura epistemologica, forse anche più di una rivoluzione politica. La questione dovrebbe essere posta in termini di rottura etnologica. Forse non è semplicemente il nostro sistema economico, e nemmeno la nostra forma attuale di razionalismo, ma piuttosto tutta la nostra immensa razionalità sociale, così come si è intessuta storicamente a partire dai greci, ciò che attualmente contrasta con la tendenza a convalidare al cuore stesso della nostra società un’esperienza di follia che sarebbe prova di verità senza controllo del potere medico. Non dobbiamo stupirci, dunque, se è vero che solo una rottura etnologica permetterebbe di convalidare e di far posto nella nostra società a qualcosa come quelle prove di follia senza potere medico; non dobbiamo stupirci del fatto che le ricerche di Laing si orientino ora verso la rimessa in questione del nostro etnocentrismo. È nella logica stessa della ricerca.
Infine, quarto tipo di antipsichiatria è quella che consisterebbe non esattamente nel supporre, come fanno Laing e Cooper, che il rapporto di potere possa essere eluso, possa essere messo tra parentesi, forse in qualche modo annientato di colpo. Al contrario, è un’antipsichiatria che considera che i rapporti di potere non sorprendono la follia dall’esterno sotto il solo volto del medico o dell’amministratore, ma che in fondo i rapporti di potere hanno intessuto l’intera esistenza del malato e hanno intessuto la sua follia. Di conseguenza, è proprio il far emergere e al contempo la distruzione – la distruzione politica di tutti quei rapporti di potere, tanto quelli che hanno reso possibile la follia quanto quelli che si esercitano contro la follia –, è questa distruzione di tutti i rapporti di potere a dover costituire il compito dell’antipsichiatria. Credo che sia questo a permettere di situare in questo vastissimo panorama le ricerche di Basaglia o quelle che sono condotte attualmente in Francia da persone come Guattari.
E vedete che, infine, se si considerano ora queste ultime due forme di antipsichiatria che sono quelle a cui si riserva abitualmente il termine antipsichiatria – la psicofarmacologia da una parte, e la psicoterapia analitica dall’altra, non entrano in generale nella rubrica antipsichiatria –, se si considerano dunque queste ultime due forme, vedete che alla fine da una parte esse implicano entrambe, con Laing e Cooper, una rottura etnologica con tutto il nostro sistema di civiltà, mentre dall’altra l’antipsichiatria di Basaglia e Guattari implica un lavoro politico: un lavoro di lotta e di azione politica che cerca di sciogliere tutti i rapporti di potere che tramano, che intessono la nostra esistenza. Rottura etnologica e lotta politica. È senza dubbio in questa alternativa che attualmente si trovano prese non solo le correnti dell’antipsichiatria ma tutti i tentativi di qualunque genere che possiamo intraprendere e che si devono appunto intraprendere per cambiare le forme della nostra soggettività, vale a dire, infine e in ultima istanza, le condizioni della nostra esistenza attuale.
(Traduzione dal francese di Valeria Zini)
Da “aut aut”, 351, luglio-settembre 2011.
Vedi anche:
“Sarai un malato di mente” (una risposta ai detrattori di Foucault), di Pier Aldo Rovatti
Trascrizione della conferenza tenuta da Foucault a Montréal il 9 maggio 1973, nel quadro del colloquio organizzato da Henri F. Ellenberger dal titolo “Faut-il interner les psychiatres?”. Si tratta della trascrizione della registrazione della conferenza, di cui non esiste una versione scritta. La prima versione del testo francese è recentemente apparsa in “Cités”, fuori serie, 2010; una seconda versione è apparsa nel recente “Cahier de l’Herne” dedicato a Foucault e pubblicato nel febbraio 2011.