Claudio Magris a colloquio con Peppe Dell’Acqua
Il 12 giugno 1972, il presidente della Provincia di Trieste riceve una lettera firmata «Marco Cavallo», in cui l’animale, che ha sentito l’odore del mattatoio cui è verosimilmente destinato, rivendica il diritto a un meritato pensionamento, dichiarandosi pronto a continuare a svolgere il suo lavoro, documentando la sua capacità di farlo e testimoniando la volontà di molti suoi amici umani, viventi nello stesso Ospedale psichiatrico di Trieste, di provvedere al suo sostentamento vita natural durante e di pagare alla Provincia la medesima cifra che ricaverebbe dalla sua vendita. Il 30 ottobre dello stesso anno la giunta provinciale di Trieste delibera la vendita del cavallo in dotazione dell’Ospedale psichiatrico dal 1959 e addetto al trasporto di biancheria, rifiuti di cucina e altro materiale, decidendo di sostituirlo con un motocarro.
È così che comincia la storia di Marco Cavallo, che non sarà venduto e non morirà, anzi continua a vivere e a galoppare per il mondo, portando in groppa il malato che ha scritto per lui quella lettera e molti altri suoi compagni di sventura. Diventerà il simbolo, ilare e picaresco, di quella liberazione che è stata la cosiddetta riforma Basaglia, la legge 180 che ha trasformato l’istituzione manicomiale e soprattutto la condizione di molti dei suoi degenti e che non sarebbe stata possibile senza l’impegno di tanti che hanno lottato per essa e di quel presidente destinatario della lettera di Marco Cavallo, Michele Zanetti.
Basaglia e i suoi colleghi che hanno condotto quella battaglia non hanno mai negato la malattia mentale né ceduto ad alcuna «ideologia». Non a caso alcuni rapporti nati, nel fervore della lotta, con l’abborracciato e facilone estremismo movimentista degli anni Settanta sono sfociati nello scontro avvenuto a Trieste nel settembre 1977 nel corso del terzo Reseau di alternativa alla psichiatria. Gli psichiatri basagliani (non solo loro, anche altri pure estranei al gruppo, ma soprattutto loro) hanno costretto a vedere quella realtà che ogni ideologia copre e mistifica: la realtà dell’essere umano e della sua sofferenza. Un malato non cessa di essere una persona, cui la Costituzione attribuisce dignità e inalienabili diritti civili. Non si riduce soltanto alla sua malattia; tutti sappiamo che un uomo malato di cancro non è un cancro. Invece il «pazzo» – parola vaga che indicava confusamente le cose più diverse, dalla malattia mentale al disadattamento sociale – era, per la sensibilità corrente, pressoché solo un’incarnazione della follia; non una persona, ma una malattia. Pure i fattori sociali chiamati in causa dalla nuova psichiatria non sono astrazioni ideologiche, bensì elementi che concorrono alla malattia; un cardiopatico è certo malato di cuore, ma se abita al ventesimo piano senza ascensore ciò contribuisce al suo male.
A testimoniare il carattere non ideologico della riforma è ad esempio la rivendicazione anche della punibilità del malato che commetta reati, perché la dignità comporta pure responsabilità e doveri. La questione della punibilità rimanda alle angosciose e arcaiche condizioni degli ospedali psichiatrici giudiziari. La commissione parlamentare presieduta dal senatore Marino, che ha visitato i sei ospedali psichiatrici che sono attivi e che trattengono ancora 1400 internati, ha riferito al presidente Napolitano, che ha pubblicamente espresso la sua pena, invitando la commissione e il Parlamento ad arrivare in tempi rapidissimi alla chiusura di questi ospedali.
Ma anti-ideologico è anche l’elemento giocoso, la capacità di creare momenti di festa e di inventare la vita anche nella dura guerra contro il dolore. Ne è una prova tangibile pure Marco Cavallo, il destriero azzurro come quelli di Franc Marc costruito da Vittorio Basaglia in un laboratorio corale di degenti, artisti, infermieri, medici e tanti amici. Quel cavallo ha iniziato a girare il mondo il 25 febbraio 1973, quando Franco Basaglia ha spaccato con una panchina di ghisa il muro di cinta dell’Ospedale psichiatrico triestino – il muro della reclusione – perché Marco Cavallo era così grande che non riusciva a passare attraverso l’uscita normale. Da allora sono cominciati i suoi viaggi nei più diversi Paesi, viaggi da cui nascevano spettacoli, poesie, incontri in cui i singoli contributi e le storie drammatiche da cui nascevano si fondevano in una creatività diffusa che sarebbe piaciuta a Novalis o a Lautréamont. È stato uno scrittore e poeta dalla fantasia metamorfica, Giuliano Scabia, a scrivere questa storia, in un libro affascinante e plurimo – scritto fra il 1973 e il 1976 e ora ripubblicato, Marco Cavallo. Da un ospedale psichiatrico la vera storia che ha cambiato il modo di essere del teatro e della cura (ed. Alphabeta Verlag, Merano, pp. 247, € 20) – che contiene pure testi di Franco Basaglia, Umberto Eco, e un racconto dei viaggi del corsiero azzurro, scritto da Peppe Dell’Acqua ed Elisa Frisaldi.
È a Peppe Dell’Acqua che chiedo, incontrandolo a Trieste, cos’è stato, cos’è, cosa potrà ancora essere Marco Cavallo. Direttore del Dipartimento di salute mentale, Dell’Acqua è stato ed è uno dei protagonisti più concreti, più vivi di quel percorso di liberazione. Rigoroso e ironico, autorevole e fraterno, consapevole della complessità di ogni destino che non è mai solo un caso clinico e insieme aperto alla misteriosa semplicità della vita, Dell’Acqua smentisce già con il suo modo di essere ogni «ideologia». Nel suo libro Non ho l’arma che uccide il leone ha raccontato con precisione e felicità narrativa l’avventura della rivoluzione psichiatrica, ascoltando tante voci prima inascoltate di chi non poteva parlare e cogliendone non solo il dolore o l’infamia che l’ha provocato, ma anche la sorgiva creatività, quella capacità d’infanzia e di favola che talora perfino la sventura e la violenza non riescono a soffocare del tutto.
Cos’è stato veramente, gli chiedo, Marco Cavallo, quale è stata la sua strada?
Dell’Acqua – Marco Cavallo è la storia della libertà riconquistata dagli internati. È il testimone di una restituzione: il diritto di cittadinanza a tutti i cittadini, anche se folli. È una grande straordinaria macchina teatrale che la visionarietà di Giuliano Scabia ha reso capace di testimoniare storie intense, singolari e collettive, felici e drammatiche. Testimone di una svolta epocale, il cavallo è l’evidenza della «possibilità» riaffermata contro il destino segnato e ineluttabile della malattia mentale, come di ogni altra condizione umana di oppressione, di fragilità, di limitazione di libertà. Forse è per questo che non ha smesso mai di viaggiare.
Magris – Quale è stato l’impatto di Marco Cavallo sui ricoverati, sul gruppo che vi ha lavorato, su chi invece se ne è tenuto in disparte? C’è stato qualche malato che lo ha rifiutato? Talvolta si ha comprensibilmente paura di uscire da una reclusione; la si desidera come si desidera la tana. Ci si rifugia nel disagio per sentirsi paradossalmente protetti dalla difficoltà di cercare la vita vera e dalla frustrante amarezza di non poterla raggiungere…
Dell’Acqua – Vedi, i matti non hanno costruito Marco Cavallo. Solo Dino Tinta, un paziente del reparto sudici, saliva sulla pedana e quando fu pronto il corpo del cavallo, non ci fu verso, volle entrare nella sua pancia. I matti hanno costruito qualcosa che faccio fatica a definire. Qualcosa di più duraturo. Hanno riempito la pancia del cavallo di storie e di desideri: l’orologio che Tinta desiderava più di ogni altra cosa, il porto con le navi e il capitano della giovinezza di Ondina, le tante agognate Marie, il paio di scarpe nuove… Quel 25 febbraio un corteo di più di 600 matti attraversa con il cavallo le vie della città. L’uscita non può che essere festosa e tuttavia contiene paure profonde. Sembra ora veramente possibile che si potrà andare per il mondo ognuno con la sua storia. Zoran Pangher non uscì quel giorno. Poco più di 40 anni, carsolino, colto, orfano, i genitori morti in un campo di concentramento nazista, in collegio prima e in manicomio dopo, si oppose a quella festa. L’ipotesi, soltanto l’idea, che il manicomio potesse finire lo terrorizzava. Nelle lunghe e rigorose discussioni cercava di dirci che a San Giovanni c’erano i matti veri e che Basaglia era incosciente se solo pensava che potessero vivere altrove. Solo quelli come lui, forse, che matti non erano, avrebbero potuto uscire. Anzi non avrebbero mai dovuto essere rinchiusi. Ma, aggiungeva, lui, perseguitato da sempre e da sempre impedito ad una sua normale vita, non poteva che restare in manicomio. Era suo diritto restarci. Quel cavallo con le sue promesse di libertà per tutti lo disorientava. Comprese che il manicomio veramente poteva sparire. La sua angoscia divenne incontenibile. Il bisogno di «certezza» di Zoran segnerà negli anni a venire il percorso difficile e durissimo del cambiamento.
Magris – Non c’è stato forse, in qualche momento, un pericolo di entusiasmo facile, l’illusione di aver risolto festosamente i problemi? Alcuni degli stessi psichiatri protagonisti della vostra battaglia come Rotelli, una delle figure guida, e alcuni pazienti si erano opposti alla sortita di Marco Cavallo, temevano che quello squarcio nel muro desse la falsa idea di aver creato il mondo nuovo, mentre le cose erano e talora sono ancora terribili.
Dell’Acqua – L’opposizione all’uscita del cavallo, quella animatissima e crudele discussione che per quasi tutta la notte del sabato precedente alla festa coinvolse Basaglia, che voleva l’uscita, gli artisti e tutti noi (anch’io, anche se capivo poco, volevo l’uscita) costruì un’altra immagine del cavallo: «l’animale della buona coscienza», così lo chiamò Rotelli. L’animale che avrebbe potuto mettere a tutti l’anima in pace davanti alle orribili condizioni del manicomio invece di denunciarle. Il compromesso fu un volantino che diceva degli internati, del lavoro degli infermieri, della lentezza del cambiamento di fronte ai bisogni violenti degli internati di casa, di lavoro, di relazioni.
Magris – Marco Cavallo ha creato spettacoli, poesie, favole, testi letterari, lirici e teatrali. Pensi che quell’esperimento – a parte il suo valore liberatorio terapeutico, che è la cosa più importante – possa incidere direttamente sul linguaggio letterario o, per poterlo fare, debba essere tradotto, filtrato da una scrittura letteraria, come nel libro di Scabia?
Dell’Acqua – Credo che il filtro del linguaggio letterario, della traduzione poetica, come tu dici, sia stato e sia utilissimo. È quasi banale citare Alda Merini, John Nash, il premio Nobel, nel racconto di A Beautiful Mind. E tanto altro ancora.
Magris – La storia di Marco Cavallo è finita o continua, e come?
Dell’Acqua – Il cavallo continua a correre senza sosta, nei più diversi Paesi, anche oltre oceano. Dovunque va c’è sempre qualcuno che deve dire, denunciare, domandare: …quando ero ricoverato, mi hanno legato per una settimana… io ho visto mio figlio dietro una porta chiusa per più di 15 giorni… mio padre è morto dopo una settimana che era legato a letto nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Cagliari… Viaggia per allontanare la smemoratezza che rischia di cancellare dal presente ogni traccia del passato profondo; per restituire ai giovani una storia che non hanno potuto sapere. Ha cominciato a fermarsi davanti ai servizi psichiatrici chiusi, vigilati da sgradevoli telecamere, dove le persone sono legate; davanti ai luoghi dove le persone muoiono di psichiatria, davanti al dolore degli ospedali psichiatrici giudiziari e delle carceri, davanti ai centri di salute mentale vuoti, sporchi e privi di significato, davanti alle cliniche private, private di senso, che privano le persone di futuro e di storia: cliniche e imprese sempre sostenute dai contribuenti con centinaia di milioni di euro che ogni anno bruciano al di fuori di ogni sensata politica di salute mentale senza produrre un briciolo di salute nel Lazio, in Piemonte, in Sicilia, in Lombardia, in Puglia, in Emilia Romagna.
È per questo che vuole continuare a correre.
(da Il Corriere.it)