27 marzo, sabato
Il doppio senso prima di essere qualcosa che ha due o più interpretazioni è una strada, quella che deve percorrere chi parte dall’area flegrea per raggiungere Secondigliano. Le rotonde che la scandiscono il più delle volte prendono il nome del paese che tagliano a metà. La prima fa eccezione: è quella di Maradona, o almeno così è chiamata da tutti. Tutto intorno gli africani infreddoliti aspettano che qualcuno li prelevi e li porti con sé a lavorare. L’asfalto fatto a brandelli dalle piogge costanti di una città con reputazione solare si occupa di svegliare chi, alla guida, è ancora stordito da sveglie a cui non ci si abitua mai.
Insegne di ogni colore e misura si susseguono in un crescendo esponenziale, come in un parco giochi tipografico dove invadenza e fantasia gareggiano sferrandosi colpi alla cieca. Si susseguono rivenditori di statue che oscillano tra il sacro e il profano, non disdegnando scambi di ruolo e contaminazioni: i padrepio e i gesùcristi hanno pur sempre il colore dei sette nani (e viceversa). Altra rotonda, altri africani. All’uscita di Mugnano si guada una discarica attraversando il campo rom prima, palazzi fatiscenti e tossici della buonora poi. A Scampia, una scritta nera su fondo giallo (installazione artistica, ci dicono) troneggia sul vuoto di piazza Grandi Eventi, ora piazza Wojtyla e rammenta: “Se la felicità non la trovi cercala dentro”. Un’altra, in cima a uno dei palazzi detti “le Vele” dice: “Quando il vento dei soprusi sarà finito, le vele saranno spiegate verso la felicità”.
Arrivati a destinazione il quadro si completa, ecco di fronte il carcere di Secondigliano. Ma non è esattamente lì che si svolgerà il nostro lavoro. No, un po’ più in là, sulla destra. In un altro edificio, più piccolo. Non è un carcere e non è un manicomio, piuttosto la loro somma, se possibile la loro moltiplicazione: è una discarica d’umanità. L’ospedale psichiatrico giudiziario.
13 giugno, domenica
Il testo che precede questo che scrivo oggi l’avevo iniziato per pubblicarlo sul numero di aprile di questo giornale. Prima di scrivere chiedo sempre come fare al caporedattore. Lui mi dice «scrivi in terza persona, non se ne può più dell’io narrante, con un buon incipit il resto va da sé, prova abbozzando il tragitto che fai per andare a lavorare».
L’ho fatto, l’avete appena letto. Pensavo che stessi ingranando la marcia giusta, poi, dopo la descrizione del “paesaggio” mi ritrovo, se voglio raccontare seriamente la mia esperienza all’interno dell’Opg, a fare i conti con quello con cui sono entrato in contatto durante i tre mesi del progetto. Doverne scrivere mi obbliga a ripensare cose, volti, odori, racconti che al momento ancora non riesco a digerire. Non sono sicuro che ci riuscirò mai, ma sento il dovere di raccontare, provare a portare fuori dalle mura di quell’edificio spezzoni di racconti captati durante le ore di lavoro lì dentro. Rendere un piccolo omaggio alle “vite degli uomini infami”.
Penso, continuerò a vivere normalmente come ho fatto finora e quando sarà il momento il racconto verrà fuori da solo. Sarà inevitabilmente la narrazione di una sconfitta, di una frustrazione continua, dell’umiliazione fatta norma. Ma sarà comunque necessaria. Almeno al mio io, ritirato come un maglione dopo un lavaggio sbagliato.
22 luglio, giovedì
S. lavoricchia come tanti. Lo chiamano un po’ di qua un po’ di là per la sua esperienza con pitture e cemento. Fa murales da quando aveva dodici anni. Quando gli viene proposto di tenere un corso di pittura murale all’Opg di Secondigliano ha già lavorato con case famiglia, scuole, nei progetti speciali dai nomi ambigui, con quelli che vengono definiti “minori a rischio”, con i genitori dei suddetti “minori a rischio” e così via. Questo per dire che S. non è nuovo al “disagio”, in ogni sua apparizione e travestimento. Del resto, se ha scelto a un certo punto di scrivere ossessivamente sui muri della città, deve essere perché anch’egli è stato nutrito con quel veleno di cui è fatto ogni territorio cresciuto senza progetto alcuno. A ogni modo S. accetta la proposta ricordando una frase che, rubata al manifesto surrealista, aveva scritto tante volte accanto ai suoi dipinti: “Non sarà la paura della pazzia a farci lasciare a mezz’asta la bandiera dell’immaginazione”.
L’impatto
Già dall’ingresso S. capisce che la cosa stavolta è più pesante. Gli danno un cartellino da timbrare all’entrata e all’uscita. Le guardie rinchiuse nel loro bunker sono sempre diverse e ogni volta che S. ritorna a lavorare deve presentarsi, spiegare, se è il caso telefonare a qualcuno dentro che possa confermare il suo ruolo. La cosa più semplice per evitare di rispondere a troppe domande è autodefinirsi volontario.
Il cacciatore di metalli sbircia con i raggi x dentro le tasche di chiunque entri o esca dall’edificio. I telefoni cellulari rigorosamente riposti negli appositi armadietti. Una volta a S. è capitato di dimenticare in tasca la sua macchina fotografica e ingenuamente di usarla per fotografare il disegno di un detenuto che gli pareva particolarmente bello. La guardia, orgogliosa di averlo sorpreso sul fatto ha scatenato il putiferio, generando uno scaricabarile a catena giunto fino all’ultimo anello della catena delle responsabilità: l’uomo del metal detector. Le meschinità si propagano come “memorie del sottosuolo”.
Nella sala che contiene il fornello per la caffettiera c’è la concentrazione più elevata di educatori, preti e secondini. S., napoletano anomalo, non gradisce la bevanda: vaga nel resto dei corridoi ovviamente deserti.
Ad alcuni educatori, quelli che fanno il loro mestiere con caparbietà, puoi leggere sul perimetro delle buche attorno agli occhi tutto il loro consumarsi lì dentro. L’esaurimento nervoso annidato tra le rughe. Uno di loro accompagna S. al suo primo incontro con coloro che poi realizzeranno il dipinto sulla parete esterna. Esterna si fa per dire perché è fuori dalle celle ma ancora nel cortile circondato da un muro di cinta alto dieci metri con finale inclinato verso l’interno, torretta e uomo col fucile. Sarebbe bello, pensa S., fare quattro chiacchiere con gli architetti che firmano questi progetti.
Primi incontri
S. è turbato: per ogni cancello che gli si apre davanti ce n’è sempre uno che gli si chiude alle spalle. Non c’è mai un momento in cui le porte sono veramente aperte e i rumori delle chiavi e del ferro gli si sono impressi nella mente. Vede, con i visi schiacciati sui vetri delle scale, dei detenuti che si ammassano per salutare, chiedere sigarette o semplice attenzione.
Il primo internato che incontra si chiama G., è di Torre del Greco, ha la sua stessa età e come lui nei primi anni Novanta aveva iniziato a scrivere con la vernice spray sui muri, poi, come molti giovani aveva iniziato a fare uso di droghe che l’hanno portato a rubare alla madre dodici euro (forse è il caso di scriverlo in numeri: 12 euro). Per questo reato è dentro da almeno tre anni. Almeno per quello che può saperne S. Le informazioni sui detenuti, che all’Opg qualcuno si ostina a chiamare pazienti, sono riservate ai medici e ai giudici. A questi ultimi in definitiva spetta il compito di stabilire la “pericolosità sociale” dei reclusi e dunque di prorogare o meno le pene, di due anni in due anni, molto spesso fino all’ergastolo. Pene che finiscono col non avere più nessun legame con il reato commesso.
J. ha un cognome rumoroso come il titolo di un famoso dipinto di Munch. La sua disperazione oscilla tra momenti di eccessivo entusiasmo e una depressione capace, nonostante la sua mole, di metterlo letteralmente in ginocchio. I suoi dipinti colpiscono dritti allo stomaco con la sola forza del colore. Una volta consegna a S. un foglio più piccolo del solito dove al posto di un disegno c’è la scritta “J: suicida oggi, domani si replica”.
Bisogna anche dire che la lucidità di J. ha non poco contribuito a distruggere fin dalle fondamenta certe convinzioni di S., che appena finiti i tre mesi di progetto ha visto cedere la diga che aveva costruito per autodifesa finendo con l’annegare nel suo stesso pianto. J. è disarmante perché dice senza peli sulla lingua che il laboratorio di pittura di S. serve più ai carcerieri che ai carcerati. È una sensazione latente che affligge chi lavora nel sociale questa. Perciò quando a S. questa inascoltabile verità viene sbattuta in faccia non può far altro che piegarsi. Certo, pensa, restano le relazioni umane, il contatto bruciante, ma non può fare a meno di chiedersi quanto tutto ciò incida sulla vita di queste persone. A volte sembra che il suo stare lì dentro in qualche modo regali un momentaneo sollievo, qualche ora di sguardo distolto dallo squallore delle celle. Glielo fanno pensare i sorrisi, gli abbracci, l’entusiasmo di alcuni di loro. Ma l’impotenza rimonta quando S. non può far finta di notare che quelli che partecipano ai corsi sono in tutto una quindicina, sempre gli stessi. Dove sono tutti gli altri internati? La struttura ne “ospita” centoventi. Che fanno? Che cure gli fanno? S. non è un medico e può solo notare, scrutando neanche troppo attentamente i volti, che i medicinali somministrati fungono da sedativo e da omogeneizzante: le espressioni, gli sguardi, le risate sono identiche da detenuto a detenuto.
Gli altri
C. ha catturato l’attenzione di S. al primo incontro. È pugliese, di Cerignola, e quando scopre che S. ha degli amici che vivono lì scrive piccolo, sotto un grande disegno di un robot dai colori roventi, il numero di telefono di suo cognato pregando S. di chiamarlo per domandare come sta. Piange quasi sempre C., ma quando prende i pennelli in mano s’immerge così tanto nel suo lavoro da dimenticare le lacrime. Spesso un foglio non gli basta e continua le sue opere su quello affianco.
E poi c’è S.S., un omaccione dalle movenze di un pachiderma che sorride allargando la bocca fino a scoprire tutti i suoi piccoli denti neri, risultato di anni di droghe e medicine. Parla piano, alternando le parole alle risate. Quando inizia un lavoro deve finirlo, a costo di litigare con la guardia di turno. Una volta, mentre sta disegnando un uomo tutto giallo S. gli dice: «Cosa pensa? Cos’ha in testa quest’uomo?». S.S. risponde lentamente: «Ha il grigio!». E inizia a disegnargli tra le tempie un’enorme nuvola grigia che contiene, al posto di espellerle, grosse gocce di pioggia. Finisce con calma e poi sorride.
Una volta, mente tutti erano intenti a finire il proprio lavoro, un detenuto si alza e si dirige verso il pianoforte usato per i corsi di musica. Inizia a schiacciare i tasti ma nessun suono sembra volerne venir fuori. Guarda S. perplesso, non capisce dove ha sbagliato. S. gli si avvicina e inserisce la presa nella corrente. Le mani pigiano i tasselli bianconeri, la musica si diffonde, gli altri quasi indifferenti continuano a dipingere. C’è armonia, ma dall’esterno giunge una voce adirata. È il secondino che arriva innervosito chiedendo, o meglio, gridando: «Chi vi ha autorizzato?».
Il contatto
Prima di iniziare il suo lavoro nell’Opg S. aveva letto un libro, Se non t’importa il colore degli occhi, un’inchiesta sui manicomi giudiziari. A un certo punto, quando si racconta di una visita dell’autore, di un parlamentare e di Sergio Piro al vecchio manicomio di Sant’Eframo, si legge che lì dentro nessuno o quasi stringe le mani ai detenuti. Incredulo S. ha dovuto prendere atto della cosa in prima persona. Non solo nessuno offre il proprio saluto ma se, con perseveranza che intenerisce, un internato porge la sua mano, questa gli viene puntualmente scalzata. Forse per questo S. si ostina ad abbracciare, baciare se è il caso, mettersi in contatto, anche fisico con quelli che partecipano ai suoi corsi. Perché nonostante la coabitazione forzata delle celle quello che sembra mancare lì dentro è una vera prossimità, un contatto sincero tra esseri umani alla pari.
2 agosto, lunedì
La condizione che S. aveva posto al suo progetto era che alla fine del laboratorio e del murales si fosse organizzata una mostra in un luogo pubblico alla quale avrebbero partecipato anche i detenuti. Sarebbe stato un modo per fargli trascorrere una giornata fuori si era detto, o, come più pomposamente aveva scritto nel progetto di presentazione, la mostra “…è necessaria all’accrescimento dell’autostima dei partecipanti e in quanto momento di analisi e riflessione generale sul proprio operato”. Allora decide di chiedere la collaborazione del Palazzo delle Arti napoletano, che a sua volta pone a S. la condizione, peraltro molto sensata, di realizzare un video della fase conclusiva del percorso: quella in cui i “pazzi” realizzano il murale. In questo modo i fruitori dell’esposizione, vedendo i disegni preparatori e un breve filmato del dipinto esterno, si sarebbero fatti un’idea di ciò che è stato il laboratorio e avrebbero anche potuto conoscere di persona gli autori. Il dubbio latente è di mettere in piedi una farsa, pura mondanità. S. ripensa a quando disse a J.: «È bello il disegno che hai fatto», e lui rispose: «No, non è bello, però la gente abbocca».
A ogni modo S. decide di rischiare, pensa che la gente deve sapere dell’esistenza di quel posto e del tipo di umanità che contiene. Chiede l’autorizzazione per introdurre una telecamera con il richiesto anticipo e a parole gli viene concessa, solo che quando si presenta alla guardia, di primo mattino, gli viene detto che lui non ne sa niente, che deve chiedere. Ping pong di telefonate, preludio di sconfitta. Nessuno sa nulla, il direttore non è ancora arrivato e quando dopo due ore arriva fa sapere a S. che la richiesta non era stata inoltrata in tempo. Un così bel lavoro si consumerà all’interno di quelle spesse pareti e non potrà essere condiviso che con guardie e psichiatri.
S. congettura che l’istituzione totale voglia sottrarsi agli sguardi della città, che punti a vivere nell’ombra autorigenerandosi. Fin qui tutto è abbastanza logico, osserva. Nota però che anche l’interesse delle persone alle quali racconta cosa sta vivendo là dentro è parziale. Si sente ascoltato a mezz’orecchio: come se raccontasse un “lo sapevate che…” della Settimana Enigmistica. Il fatto che la città non voglia vedere la brutalità delle istituzioni totali è una scoperta nuova, ingenua forse, ma pur sempre dolorosa.
28 luglio, mercoledì
Una scritta di risposta alla installazione artistica giallo-nera che campeggia all’ultimo piano di una delle Vele è comparsa ai piani bassi, quelli che la luce del sole ostinatamente ignora. Si tratta di uno striscione giallo di plastica che ricalca lo stile di quello dei piani superiori ma in versione ridotta, proporzionata all’investimento economico di chi l’ha realizzato. Dice così: “Perché il male trionfi basta che gli uomini del bene non facciano nulla”. S., dall’autobus che circumnaviga il quartiere, la guarda e sorride.
(da Napoli Monitor: http://napolimonitor.wordpress.com/2010/09/27/il-manicomio-e-criminale/)