di Giovanni Rossi
Franco Basaglia era veneziano e somigliava ai campanili e alle torri di segnalazione che danno verticalità all’orizzonte piatto della laguna.
Da lontano un punto di riferimento, che tuttavia ti avvicinava, alto ma non imponente, e, in men che non si dica ti coinvolgeva divenendoti familiare, attraverso il gesticolare e la parlata che distinguono il veneziano dal veneto, come l’acqua dalla terra .
Quelli della mia generazione che raggiungevano Trieste, dove si stava chiudendo il manicomio, entravano certo in contatto con una straordinaria esperienza collettiva di trasformazione, ma anche con la formidabile forza positiva di un instancabile Franco Basaglia. Quando anni dopo il “penso positivo” di Jovannotti divenne un tormentone popolare, fu naturale per me associarlo a Franco Basaglia.
Nel dicembre del 1979 l’Amministrazione Provinciale invitò Basaglia a Mantova, e così un bel gruppo di mantovani potè familiarizzare con lui, senza doversi recare a Trieste.
Al vederlo e sentirlo così vitale, nessuno immaginava che Franco fosse già consapevole della malattia che dopo pochi mesi l’avrebbe vinto.
Racconta Evelina Soregotti, allora infermiera allo Psichiatrico di Dosso del Corso che Basaglia, mentre lei lo accompagnava a ritirare un oggetto da un antiquario, con negozio vicino al Sociale, le confidò della malattia, di cui aveva appena saputo – E’ possibile che, sulla via di Mantova, avesse fatto sosta a Verona per un consulto con Hrayr Terzian, suo amico fraterno, neurologo e rettore dell’Università.
Basaglia conversando con Evelina si mostrò preoccupato di come sarebbe stato il dopo manicomio. Perchè non bastava chiudere, ma bisognava anche sapere che cosa aprire; e rammaricato per non poter contribuire al superamento dell’unico manicomio che non era stato toccato dalla legge 180, quello giudiziario di Castiglione delle Stiviere.
Nei fatti la partecipazione alla tavola rotonda che si tenne il 16 dicembre rappresentò una delle ultime, se non l’ultima uscita pubblica di Franco Basaglia.
Era in corso da tre giorni il convegno “Le nuove istituzioni della psichiatria” e Basaglia partecipava ad una discussione dal titolo :”Verso una modificazione della normativa psichiatrica?”.
Con la legge fresca di un anno, si discuteva, già allora di una sua modifica, esattamente come si continuò a fare sino ad oggi.
Alla tavola rotonda partecipavano politici e professori universitari. Chi più chi meno tutti concordavano sul fatto che non bastasse la legge, ma che vi fosse un problema di sua applicazione, e tutti, chi più chi meno, avevano la ricetta organizzativa per risolvere il problema.
Infine prese la parola Basaglia :” Ho l’impressione di assistere e di essere anche attore di una sceneggiata (disse proprio sceneggiata e non sceneggiato) televisiva, nella quale si trasmette un giallo, in cui noi siamo già gli accusati, e dove per fortuna non c’è altro commissario che il pubblico, e tutti noi diciamo che non siamo colpevoli; anzi siamo tutti d’accordo e ci sosteniamo uno con l’altro, ognuno è la spalla dell’altro…in questa sceneggiata io vorrei essere modicamente polemico.”
E quale fu l’oggetto della polemica?
Che la riforma richiedeva non solo strutture ma culture adeguate. Era necessario cioè che la formazione degli operatori, soprattutto quella universitaria si mettesse in pari con i principi della curabilità, della integrazione territoriale, della relazione con il sociale. “L’università oggi dice che ha bisogno del reparto perchè deve insegnare; ed è evidente come sia reazionaria questa visione della medicina, della psichiatria che vede nel letto, nel ricovero, nell’internamento la possibilità di insegnamento agli studenti. Ebbene io penso che questo sia totalmente sbagliato, l’università non deve avere letti ma dovrebbe creare le strutture scientifiche a livello territoriale”. Così Basaglia, che poi continuava : ”Il problema della formazione per me è uno dei problemi fondamentali per l’applicazione della legge, perchè se avremo dei tecnici che sanno quello che fanno, potremo applicare la legge; se avremo dei tecnici che difendono la corporazione medica, la legge non potrà essere applicata”.
L’Università doveva abbandonare la turris eburnea, stare nella società e tradurre in piani formativi diffusi a livello nazionale quanto alcune esperienze, come quella di Trieste insegnavano: “come si gestisce e come si distrugge un manicomio, come si può affrontare diversamente la situazione, come si può essere al servizio di chi chiede una risposta pratica, una risposta reale, ..come si può dare una risposta precisa e non istituzionalizzata alla famiglia che soffre, perchè oggi si è scoperto che non è il singolo malato che sta male, ma è una famiglia, un gruppo che è in crisi”.
Secondo Basaglia trasformazione del modello formativo ed applicazione della legge 180 erano la stessa cosa. La scienza non doveva più essere autoreferenziale ma svilupparsi attorno ai problemi reali delle persone. E perchè non ci fossero dubbi così concluse il suo intervento : “ Vorrei terminare ricordando una fiaba, quella di Biancaneve e dello specchio : è quello che succede o succedeva allo psichiatra ogni mattina quando entrava in manicomio e si specchiava, chiedendosi chi era il più bravo psichiatra del reame, e lo specchio rispondeva sempre : TU, TU, TU.
Poi è successo che lo specchio si è rotto e su di esso sono apparse delle facce nuove, indifferenziate, miserabili; quindi la situazione si è sporcata e lo psichiatra non sapeva più cosa fare. Noi ci troviamo in questa situazione : lo psichiatra non ha più identità ed è nella anonimia totale, io direi che è ora di buttar via lo specchio e di sapere cosa si deve fare”.
Sono passati trentanni, gli ospedali psichiatrici sono stati chiusi, i servizi di salute mentale sono stati aperti in tutta l’Italia.
Ogni 5 anni l’Università ha sfornato una nuova generazione di psichiatri, sono sei generazioni in trentanni. Molti di loro pensano che Basaglia sia stato il ministro della sanità che ha fatto la legge 180 e non il più importante psichiatra italiano del 900.
Per questo ancora oggi l’applicazione della legge Basaglia è un problema culturale prima che organizzativo.
Ci diceva Franco Basaglia :” Noi abbiamo una legge che è venuta in vent’anni, non è stata un fulmine a ciel sereno, la legge è venuta dopo uno scontro molto duro che ha fatto parlare per anni il Paese di psichiatria”. Parliamone ancora, forse è il caso.
(Per la Gazzetta di Mantova, febbraio 2010)