A cura di Franco Basaglia.
(Baldini&Castoldi, Milano 1997)
INDICE.
Prefazione (di Franca Ongaro Basaglia).
CHE COS’E’ LA PSICHIATRIA?
Che cos’è la psichiatria? (di Franco Basaglia).
La libertà comunitaria come alternativa alla regressione istituzionale (di Franco Basaglia).
Dibattito avvenuto nel corso dell’incontro tra la delegazione di infermieri e amministratori dell’O.P.P. di Colorno (Parma) e il personale sanitario, infermieri e degenti dell’O.P.P. di Gorizia il giorno 20 dicembre 1966.
Il lavoro rende liberi? Commento a due assemblee di comunità dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia (di Antonio Slavich e Letizia Jervis Comba.
John Conolly, dalla filantropia alla psichiatria sociale (di Agostino Pirella e Domenico Casagrande).
Storia e politica in psichiatria: alcune proposte di studio (di Giovanni Jervis e Lucio Schittar).
Presupposti a una psicoterapia istituzionale (di Michele Risso).
Commento a E. Goffman, “La carriera morale del malato mentale” (di Franca Ongaro Basaglia).
Note.
PREFAZIONE.
Sono passati trent’anni dalla prima pubblicazione sull’impresa di Franco Basaglia e del suo gruppo, impresa che avrebbe modificato – fra difficoltà, pregiudizi, inadempienze, ignoranza, fraintendimenti intenzionali e non – il panorama dell’assistenza psichiatrica in Italia e ben oltre i suoi confini.
“Che cos’è la psichiatria?”, il primo dei volumi che ora si ristampano, è uscito nel ’67 e fotografa una realtà in movimento: un manicomio tradizionale che sta aprendo porte, sbarre, cancelli; che ha eliminato contenzioni e violenza, che sta ragionando sulla propria storia, sulla qualità della terapia che offre, sul significato dell’istituzione chiusa e della psichiatria che l’avallava; sulla necessità della propria esistenza. Insieme, internati infermieri medici psicologi e amministratori sono alla ricerca di nuove identità, di ruoli e rapporti qualitativamente diversi, ma soprattutto di ciò che ora appare come l’ovvia negazione dell’essenza stessa della realtà e della logica manicomiali: libertà, responsabilità, disponibilità, dignità, fiducia, confronto, verifica, critica e autocritica che stanno alla base di una possibile reciproca terapeuticità.
Parole allora nuove nel mondo oscuro dove la follia stava rinchiusa, mondo soprattutto di miseria, violenza e soprusi, dove il potere del medico su uomini di scarto, condannati senza colpa, era assoluto; la delega degli amministratori ai tecnici totale, la sentenza della scienza psichiatrica senza appello. Quindi nessun controllo su quanto accadeva oltre quelle mura e, comunque, qualunque cosa vi accadesse era giustificata dalla malattia.
Sono passati trent’anni da questo primo resoconto di un’esperienza – avviata a Gorizia nel ’61- non ancora giunta alla realizzazione della prima tappa: due reparti su otto ancora chiusi, solo alcuni mesi dopo la comunità sarebbe stata completamente aperta.
Questo il punto che mi pare renda di grande attualità la ristampa – “ora” che si chiudono i manicomi e si conferma un diverso trattamento della sofferenza mentale – di un volume in cui i problemi della chiusura, dell’apertura, del significato dell’istituzione, del lavoro, dei farmaci, della terapeuticità dei rapporti, del rischio della libertà del malato come primo elemento di riduzione del potere del medico, rimbalzano di discussione in discussione nelle assemblee di reparto, in quelle di comunità, nelle riunioni dei medici e degli infermieri, nelle analisi degli operatori che già prevedono di dover via via «distruggere l’equilibrio raggiunto per uscire da quello che può diventare un nuovo sistema chiuso».
Sarà il tema centrale dell'”Istituzione negata” che uscirà l’anno dopo, i cui germi sono però presenti qui nella necessità di una verifica costante della realtà, nel partire dal malato in quanto persona (non dall’etichettamento della malattia), dai suoi bisogni più immediati, così crudelmente violentati e annientati; nello stimolo alla riappropriazione di sé attraverso il riaccendersi di una reattività al potere che lo domina e lo annulla, quindi attraverso la conquista di diritti perduti o mai avuti; nel gioco delle contraddizioni, per la cui morte l’istituzione esisteva, rivivificate come spinta verso un’alternativa possibile per entrambi i poli del conflitto: assistiti e curanti, entrambi prigionieri del proprio ruolo istituzionalizzato, funzionale a una società che emargina ed esclude.
Di tutto questo si discute, con la consapevolezza che la comunità «buona» sia comunque solo una fase transitoria verso qualcosa in cui il degente si imponga finalmente come problema sempre presente al medico, all’istituzione, alla società che devono assumersi la responsabilità di dare altre risposte. Tutto questo mi sembra attuale ora che i manicomi devono essere chiusi e si reclama una qualità di servizi dimostratasi nel tempo capace di far fronte alla sofferenza psichica senza ricorrere all’internamento.
I 35 anni che ci separano dall’avvio delle prime esperienze non sono stati facili.
Il coinvolgimento emotivo della popolazione attraverso denunce, servizi giornalistici e televisivi che mostravano, per la prima volta, gli orrori del manicomio, contrapposti a immagini che rivelavano possibile rispondere diversamente al problema, aveva stimolato una nuova cultura, un generale rifiuto della segregazione e della violenza istituzionali che si allargavano ad altre «istituzioni totali» e reclamavano diritti di altri soggetti deboli, privi di voce: giovani, donne, anziani, bambini, detenuti, tossicodipendenti. Fu un periodo di grandi fermenti sociali che sfociarono in importanti riforme. Fra queste, la legge 180 del ’78, che proponeva il superamento del manicomio e l’istituzione di servizi territoriali, fu approvata dal Parlamento quasi all’unanimità, in un clima di consenso e di comprensione diffusa sul problema delle «diversità».
Nel momento in cui si è trattato di cominciare ad attuarla in tutto il paese, sono però incominciate le resistenze e le difficoltà. Di fatto, la legge 180 era una legge quadro, successivamente inglobata nella legge di Riforma Sanitaria, cui doveva seguire la presentazione del piano sanitario nazionale, con il dettaglio di strutture, personale, finanziamenti. Il piano non è mai stato presentato. Nessun governo si è assunto la responsabilità della gestione della riforma che è stata attuata solo nei luoghi in cui c’è stata la volontà politica e tecnica di creare i servizi, mentre restava il vuoto quasi assoluto – con il conseguente scarico del problema sulle spalle delle famiglie – dove questa volontà non c’è stata. Il Parlamento, dal canto suo, ha continuato per anni a discutere di modificare una legge che i partiti al governo giudicavano «sbagliata» prima di aver promosso gli strumenti per attuarla. Così, è stato un gruppo dell’opposizione – la Sinistra Indipendente di cui ho fatto parte per due legislature – a presentare al Senato nell’87 il primo disegno di legge di attuazione della 180, ripreso dal piano per la tutela della salute mentale e approvato solo sette anni dopo (1994) senza, tuttavia, produrre l’avvio obbligatorio dei nuovi servizi.
Di fatto possiamo dire che, per la prima volta, un governo, il governo attuale, si è assunto la responsabilità della riforma, confermando la chiusura dei manicomi, sanzionando i ritardi e riconoscendo una legittimazione ufficiale a quanto è stato fatto per superarli. Si tratta, dunque, di un punto di partenza forte da cui lavorare per esigere finalmente la creazione di servizi di salute mentale adeguati in tutto il paese, pur sapendo che i manicomi esistono ancora, che sono spesso in condizioni disperate e disumane dove non si è fatto nulla, in trent’anni, per modificare il progetto di vita dei degenti.
Ciò che si era capito fin dall’inizio era, comunque, l’uso di questi istituti come contenitori di problemi sanitari che spesso erano soprattutto problemi di disturbo o di svantaggio sociali. In manicomio finivano solo i poveri, perché chi aveva e ha la possibilità di far fronte sia economicamente che culturalmente ai propri problemi aveva e ha sempre altre strade che ne condizionano positivamente il destino. Il servizio pubblico deve quindi farsi carico ora anche dei problemi sociali, fusi e confusi con la malattia, che prima della riforma si potevano facilmente accantonare in luoghi dove – sotto l’apparenza della «cura» – venivano nascosti ed eliminati.
Resta inoltre da sottolineare il fatto che raramente un disturbato psichico ha bisogno di un letto d’ospedale. Ciò di cui necessita è un luogo protetto, anche una casa, con un’alta concentrazione di assistenza, di capacità professionale e umana, di accettazione del conflitto che ogni soggetto produce, ma dove la vita penetri, i rapporti circolino, gli stimoli si rinnovino. L’ospedale non può rispondere a questo tipo di bisogni, non potendo offrire che una vita vissuta solo in funzione della malattia, mentre occorrono spazi di cura ma anche di tutela emancipatoria tesa a stimolare l’autonomia e il riconoscimento, perduto o mai avuto, del peso contrattuale del tutelato. Solo attraverso il riconoscimento del diritto al rispetto e alla tutela la persona può esprimere i propri bisogni e solo attraverso il conflitto che essa rappresenta siamo costretti a tentare di capire cosa siano i bisogni cui si deve rispondere. La definizione classica di malattia era servita soprattutto a escludere e ad allontanare il problema, comportando un giudizio di irrecuperabilità che esimeva dal tentare altre strade. Si è visto però che trattando diversamente il malato, tenendo conto della complessità degli elementi in gioco, in un clima di rispetto e di confronto, si modifica il modo stesso di esprimersi della malattia.
Questo è il senso di quanto è stato fatto fin dai primi anni ’60, richiedendo che la psichiatria tradizionale discutesse su se stessa, sui propri paradigmi, sul proprio sistema di giudizio e di intervento dal momento che la presa in carico globale della persona sofferente modifica anche il quadro della patologia psichiatrica classica.
Ripubblicare “oggi” i resoconti di come sono nate le prime esperienze che hanno portato a questi risultati – controversi, combattuti ma dibattuti e vincenti – è utile a capire la cultura che ha animato questo lavoro. E’ utile, soprattutto a studenti e giovani operatori, capire come la pratica, i fatti e non un cambio di teoria interpretativa sul fenomeno della follia, abbiano resistito – nel naufragare di ipotesi e utopie dell’ultimo decennio – conservando la validità di una messa in discussione radicale di concetti di base come normalità/anormalità, salute e malattia che ha coinvolto a tutti i livelli la cultura, le istituzioni, l’assetto sociale, la politica agendo contemporaneamente sulla struttura materiale del manicomio, sul pregiudizio sociale rispetto al malato mentale, sul pregiudizio scientifico rispetto alla malattia.
Non si è dunque trattato di un semplice cambio di teoria, rimpiazzabile con una nuova ideologia di ricambio che facilmente lascia inalterata la sua funzione essenziale di controllo e di manipolazione, ma della demolizione pratica di una cultura, possibile solo se contemporaneamente costruisci altro: altro sostegno, altra cura, altro supporto, altro concetto di salute e di malattia, di normalità e di follia. Possibile cioè, se insieme allo smantellamento dei vecchi ospedali, non ci si è limitati a organizzare semplici servizi ambulatoriali (come spesso è accaduto), ma si è creata per i vecchi e i nuovi malati la possibilità di vivere e condividere in modo diverso la propria sofferenza.
La tutela di chi, secondo la vecchia legge, poteva risultare «pericoloso a sé e agli altri» è stata, di fatto, tutela della comunità sana, garantita dalla totale prigionia di chi cadeva nella rete di «protezione». L’alibi di una cura impossibile in un contesto di violenza e di repressione ha coperto la funzione puramente carceraria e di contenimento della pratica manicomiale. Di fronte al fallimento di questo tipo di cura, occorreva allora demolire fino alle fondamenta il manicomio ma, insieme a esso, il ruolo tradizionale dello psichiatra come medico-carceriere che operava a esclusiva difesa della comunità; il ruolo della psichiatria come scienza che, sotto l’apparenza della cura, avallava violenza, annientamento e distruzione delle persone. Si è trattato, dunque, della necessità di demolire lo stesso concetto di malattia che doveva essere guardata e avvicinata come uno stato di profonda sofferenza legata a un complesso di fattori biologici, psicologici e sociali e non solo come segno di pericolosità da prevenire e reprimere. Contemporaneamente si assumeva il carico della responsabilità nei confronti del malato e della sua esistenza, creando servizi, luoghi di vita, di opportunità, di lavoro, rapporti interpersonali diversi, puntando – in questo doppio binario di demolizione e contemporanea costruzione – a un cambio di cultura e di politica sociali oltre che sanitarie.
La liberazione della persona, l’emergere di un soggetto pieno di bisogni da quel mondo di «cose» che il manicomio conteneva e insieme produceva, sono stati i primi gesti terapeutici verso la liberazione dell’internato dal manicomio materiale che lo imprigionava e dalla logica manicomiale che egli stesso aveva incorporato. Liberazione che contemplava, come primo passo, il rischio della libertà del malato. Si è trattato e si tratta, tuttavia, di una libertà controbilanciata e supportata dalla forza aggregante del gruppo, dalla capacità degli operatori e della comunità di sostenere il conflitto che ogni soggetto produce e dalla capacità di renderlo positivo come elemento di reciproca responsabilità. Responsabilità che si acquisisce solo nella possibilità di crescere, svilupparsi e misurarsi in un clima di libertà.
La libertà e la responsabilità che il malato gradualmente acquisisce sono infatti strettamente dipendenti da libertà-responsabilità dell’operatore nei suoi confronti. Proveniamo da una cultura che ha condizionato allo stesso modo tutori e tutelati nell’essere carcerieri e carcerati. Quindi lo stesso processo di liberazione e responsabilità vale anche per l’operatore che l’istituzione chiusa e la delega alla custodia di oggetti di scarto avevano completamente deresponsabilizzato. Si ritorna quindi a responsabilizzare operatori, amministratori, famiglia e società rispetto a un problema che il manicomio consentiva di eliminare, nascondere e dimenticare sotto la copertura di una definizione di malattia incurabile per cui niente si poteva fare.
Ciò non significa che questo problema diventi – come troppo spesso è accaduto in questi anni di vergognosa latitanza governativa e amministrativa con conseguente assenza di servizi – compito e responsabilità esclusivi della famiglia. Ma vuole significare che se la famiglia è coinvolta dal servizio ai diversi livelli di necessità, malati e familiari, insieme con operatori e amministratori, diventano allo stesso titolo soggetti di un processo di cura e di emancipazione che passa anche attraverso un’assunzione di responsabilità reciproca e un profondo cambio culturale e sociale. Si tratta dunque di un diverso concetto di tutela che non si appropria delle persone, che non imprigiona i corpi, ma tende a un processo di liberazione contemporaneo sia per il tutore che per il tutelato.
Il problema è, dunque, contemperare bisogni e diritti diversi che, presentandosi spesso come antagonistici, risultano tuttavia entrambi irrinunciabili: l’esigenza che la sofferenza psichica venga affrontata nel rispetto dei diritti del malato come persona e l’esigenza e il diritto dei familiari di essere aiutati (quando occorre, sollevati) nel far fronte a un problema che la riforma psichiatrica non ha inteso minimizzare, né preteso di scaricare sulle loro spalle. Queste esigenze e questi diritti possono trovare risposta solo all’interno di un modello di servizi caratterizzato da alti gradi di flessibilità dall’integrazione con la comunità e dall’uscita dal modello culturale imperante che tende a riconoscere legittimità terapeutica solo al letto ospedaliero. La questione centrale risulta quindi “come” far coesistere gli elementi di questo conflitto (cura/tutela/diritti antagonistici), consapevoli del fatto che può risultare difficile, spesso impossibile, convivere con un disturbato psichico senza aiuti: il che non significa che l’unica soluzione sia il ricovero in ospedale.
In questi anni la scelta più facile è stata invece la creazione di servizi ospedalieri di diagnosi e cura risultati, inevitabilmente, insufficienti, e di ambulatori aperti poche ore al giorno che hanno continuato a proporre, da un lato il carattere puramente medico dell’intervento (mettendo fra parentesi la molteplicità dei bisogni espressi attraverso la malattia), dall’altro, un rapporto psicoterapico classico che di per sé seleziona (per valori, linguaggio, codice di riferimento) i pazienti che possono accedervi, presupponendo l’esistenza di altre risposte più «forti». Infatti quest’ultimo tipo di servizi per appuntamento, a ore, non può fare a meno di istituti di internamento che, in realtà, hanno mantenuto alle loro spalle, non essendo in grado né di concorrere al loro superamento, né di produrre una realtà che non ne richieda la sopravvivenza, provocando essi stessi bisogno di lungodegenza ospedaliera, quindi producendo essi stessi cronicità.
Affrontando invece – come è avvenuto in molte esperienze diffuse nel paese – la molteplicità dei bisogni di cui è fatta la vita quotidiana della gente (stati di sofferenza, di malattia, di impotenza, impossibilità di espressione soggettiva, mancanza di prospettive, di progetto, di significato, ma anche disoccupazione, sottoccupazione, mancanza di casa, convivenze familiari impossibili, diversità di sesso, di opportunità, livelli diversi di potere), la sfera del bisogno strettamente tecnico psichiatrico viene a ridursi in rapporto all’ampliarsi delle risposte agli elementi di altra natura co-presenti nel disturbo psichico.
La stessa terapia farmacologica assume un significato diverso, una volta inserita in un progetto terapeutico che contempli altre aperture. Così come nella realtà violenta del manicomio gli psicofarmaci, agli inizi degli anni ’50, non avevano modificato l’irrecuperabilità dell’internato, nei nuovi servizi – anche se usati come silenziatori dei sintomi secondo quanto diversi autori ormai sostengono – diventano uno dei diversi strumenti di lavoro quando siano in grado di facilitare e non bloccare l’espressione della sofferenza e la capacità di comunicare. Sempre che il lavoro sia un po’ più che lavoro, se include passione e vita.
Le misure più efficaci, nell’emergenza e nella prevenzione della cronicità, risultano dunque quelle che – in servizi diversificati aperti ventiquattro ore su ventiquattro – passano attraverso una visione completa e integrata dei diversi livelli di bisogni della persona sofferente e un’assunzione di responsabilità da parte del servizio nei confronti di questa complessità.
Non si può dimenticare, inoltre, che l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, anche se minato ed eroso da tutti i lati, ha comunque alzato il livello delle esigenze e dei diritti dei cittadini ed è a questo livello che non sono in grado di rispondere la vecchia cultura, i vecchi strumenti, i vecchi modelli operativi. Non si tratta solo di bisogno di formazione professionale secondo i vecchi canoni, ma di una verifica che le stesse discipline devono fare in rapporto a una realtà mutata. Fino a quando scienza, norme e istituzioni avevano anche un’implicita funzione di discriminazione di classe (e il manicomio ne è un esempio esplicito), è stato possibile costruirle in funzione del contenimento del caso «estremo», del caso limite, del più grave e pericoloso, da cui però si deduceva la natura segregativa e violenta dell’intera istituzione riservata ai poveri, riducendo a quel livello di gravità, abbrutimento, pericolosità anche chi vi era entrato senza presentarlo. Ma da quando la conquista del diritto universale alla tutela della salute ha incominciato a confondere, se non ad abbattere, le barriere fra garantiti ed esclusi, tutelati e privi di diritti, scienza, norme e istituzioni si trovano a dover rispondere a bisogni/diritti così diversificati e complessi rispetto ai paradigmi tradizionali da dover studiare nuovi metodi di analisi, di comprensione, di intervento.
I problemi sono dunque aperti. Dal momento che i cittadini hanno via via acquisito una sempre più forte consapevolezza del diritto alla tutela della salute, l’incontro e la verifica delle diverse discipline con la pratica sociale non è rimasto soltanto un incontro o una contaminazione delle discipline con le disuguaglianze, ma è diventato un incontro/scontro con il problema dei diritti con cui ora anche le discipline dovrebbero misurarsi. E’ dunque un problema politico rispetto a diritti riconosciuti e negati, che riguarda però anche i modelli operativi e i corpi professionali che dovrebbero rispondervi.
E’ questa la natura dei problemi posti dall’esperienza di cui “Che cos’è la psichiatria?” rappresenta la prima fase. Sono problemi ancora aperti perché negli anni di colpevole inerzia in cui la mancanza di servizi ha continuato a tenere vivo il bisogno di internamento, così come non si è potuta cancellare l’altra faccia del malato e della malattia che le esperienze pratiche facevano emergere, non si è potuto procedere nel radicale discorso critico su che cos’è la psichiatria. La chiusura dei manicomi (vera o mascherata?) e l’avvio che speriamo reale di servizi e strutture adeguati sono solo il punto di partenza per la possibilità di un ulteriore processo critico. Ma quale potrà essere l’evoluzione di questo processo nel contesto sociale in cui viviamo? La cultura dell’esclusione è viva e operante in tutti i settori della marginalità, via via aumentati negli ultimi tempi da disoccupazione diffusa, disgregazione dei gruppi sociali, perdita del senso di appartenenza e di identità, fonti costanti di un conflitto che, qualora resti senza interlocutori e senza risposta, può evolvere in disagi e sofferenze che facilmente si organizzano in malattia. Quali discipline saranno in grado di confrontarsi con “questi” problemi? La psichiatria tradizionale che, in gran parte, si continua ad insegnare all’università come se nulla fosse emerso dalle esperienze di questi anni, pare fatichi ad uscire dal modello medico e dal letto ospedaliero. Ma una cultura diversa che – confrontandosi con i conflitti senza cancellarli – sappia intrecciare competenze e disponibilità, tutela e vita, pare fatichi a farsi strada in un sistema che tenta di trasformarsi riproponendo spesso vecchie logiche e vecchi paradigmi.
Franca Ongaro Basaglia
Venezia, 17 luglio 1997
CHE COS’E’ LA PSICHIATRIA?
CHE COS’E’ LA PSICHIATRIA?
di Franco Basaglia.
“Nessuno cerca di serbare per sé, ciascuno attende il fruttificare del dono di tutti della «divisione» tra tutti. Ed effettivamente niente è ancora più fruttuoso. Quando vedo oggi degli spiriti, per altri aspetti notevoli, mostrarsi così gelosi della loro autonomia e così decisi, manifestamente, a portare nella loro tomba i loro piccoli segreti, mi dico che si è andati indietro e che per quanto li riguarda, checché ne pensino, non sono sulla buona strada”.
ANDRE’ BRETON
Nel 1948 J.-P. Sartre, nel saggio “Che cos’è la letteratura?” (“Situations II”, Gallimard, Paris), scrive fra l’altro che «le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte». Questa precisazione sul fissarsi in schemi prestabiliti di ciò che, nato come rifiuto di una realtà data, nella realtà deve trovare il senso del suo continuo rinnovarsi per non tramutarsi in oppressione di sé, è la premessa su cui si basano le discussioni e i saggi qui presentati che formulano tutti un’unica domanda: che cos’è la psichiatria?
Questa domanda – di per sé provocatoria – vuole essere solo un invito ad una discussione. Essa nasce dallo stato di disagio reale in cui ci si trova, oppressi da una ideologia psichiatrica chiusa e definita nel suo ruolo di scienza dogmatica che, nei confronti dell’oggetto della sua ricerca, ha saputo solo definirne la “diversità e incomprensibilità” venute a tradursi concretamente nella sua stigmatizzazione sociale.
Le diagnosi psichiatriche hanno assunto infatti un valore ormai categoriale, nel senso che corrispondono ad un etichettamento, ad una stigmatizzazione del malato, oltre i quali non c’è più possibilità d’azione o di approccio. Nel momento in cui lo psichiatra si trova faccia a faccia con il suo interlocutore (il «malato mentale») sa di poter contare su un bagaglio di conoscenze tecniche con le quali – partendo dai sintomi – sarà in grado di ricostruire il fantasma di una malattia; avendo, tuttavia, la netta percezione che – non appena ne avrà formulata la diagnosi – l’uomo sfuggirà ai suoi occhi, perché definitivamente codificato in un ruolo che ne sancisce soprattutto un nuovo status sociale. Si entra cioè in una sorta di passività che lo «scienziato» viene ad assumere di fronte al fenomeno e che lo porta a risolverlo attraverso una routine tecnicamente perfetta – da lui nettamente separata – la cui finalità pare quella dello smistamento fra ciò che è normale e ciò che non lo è. La sua partecipazione in questa operazione è nulla, perché i parametri su cui la psichiatria ha costruito il suo sistema, lo mettono al riparo dalla problematicità della situazione, così che in questo rapporto a due non esiste né l’intervistatore (che non è «situato»), né l’intervistato (che viene cancellato nel momento in cui lo si codifica).
La necessità della partecipazione diretta alla situazione da parte del ricercatore, è analizzata da Sartre nella “Critique de la raison dialectique” (Gallimard, 1960) quando afferma che «la posizione dello sperimentatore de-situato tende a mantenere la Ragione analitica come tipo di intelligibilità; la sua passività di scienziato rispetto al sistema gli rivelerebbe una passività del sistema rispetto a se stesso. La dialettica si svela solo a un osservatore situato all’interno, cioè ad un ricercatore che viva la propria indagine sia come un contributo possibile all’ideologia dell’epoca nella sua interezza, sia come “praxis” particolare di un individuo, definito dalla sua avventura storica e personale in seno ad una storia più vasta che la condizioni».
Questa distanza del ricercatore dal terreno della propria ricerca è particolarmente significativa nel caso della psichiatria, se si confronta la frattura in atto fra il rigoroso livello tecnico delle dissertazioni scientifiche (con l’enorme castello di classificazioni, sottoclassificazioni, precisazioni e bizantinismi nosografici) e la realtà cui tali dissertazioni si riferiscono: il malato mentale, così come si presenta – dopo anni di ospedalizzazione – nei nostri asili psichiatrici. Da un lato, dunque, una scienza ideologicamente impegnata alla ricerca della genesi di una malattia che riconosce «incomprensibile»; dall’altro un malato che, per la sua presunta «incomprensibilità», è stato oppresso, mortificato, distrutto da un’organizzazione asilare che, invece di agire su di lui con il ruolo protettivo di una struttura terapeutica, ha contribuito alla graduale – spesso irreversibile – disintegrazione della sua identità.
Di fronte ad una tale verifica della realtà non si può dunque esimerci dal domandare che cosa sia la psichiatria e quale sia il suo campo d’indagine. Se cioè si occupi del malato mentale o, limitando il suo contributo ad una elaborazione puramente ideologica, si interessi solo delle sindromi in cui lo rinchiude; e, qualora riconosca nel malato mentale l’oggetto della sua indagine, quale sia la sua giustificazione nel momento in cui se ne esaminino i risultati: l’istituzionalizzato dei nostri ricoveri. Ci si domanda insomma se i fatti “insignificanti” che spesso fanno crollare interi sistemi teorici (nel nostro caso i malati che vegetano negli asili) non siano da troppo tempo entrati in conflitto con la teoria cui la psichiatria si appella, e se non sia il caso che la teoria ceda il passo, per lasciar parlare i fatti. E’ questo che si domanda un gruppo di malati mentali, medici, infermieri, psicologi ed amministratori, impegnati tutti nel campo dell’istituzione psichiatrica. Domanda che nasce dal disagio reale, vissuto a tutti i livelli, nel momento in cui si mette in discussione la validità, e l’arbitrarietà insieme, del rapporto autoritario-gerarchico su cui l’intera vita asilare tradizionalmente si fonda.
Nel momento in cui si esamini il significato globale di un tale tipo di organizzazione e le finalità dei diversi ruoli che in essa si trovano ad agire, non si può non concludere – alla luce delle attuali possibilità terapeutiche nei confronti del malato – di trovarci di fronte ad un insieme di fenomeni che ha in sé qualcosa di paradossale. Il complesso ospedaliero sembra avere in se stesso le proprie finalità, nel senso che il lavorio che lo sottende pare servire soltanto a mantenerlo in vita, senza peraltro tendere verso qualcosa che ne giustifichi la funzione. Se poi ci si avvicini, tanto da individuare i vari livelli che interagiscono all’interno del sistema, la prima impressione globale sarà confermata dall’assenza di evidenti ruoli reali. Quello che si rileva subito è che il malato non esiste (anche se sarebbe lui il soggetto della finalità dell’intera istituzione), fissato com’è in un ruolo passivo che lo codifica e insieme lo cancella. Ma ciò che, inoltre, non si riesce ad individuare è il ruolo dello psichiatra e dell’infermiere. Se si trascura quello dell’autorità e del potere di cui sono generalmente investiti – che fa parte di una catena di imposizioni perpetuantesi da un livello all’altro, fino a chiudersi con “l’aggressività malata” che richiede di essere contenuta – non si riesce a giustificare appieno la loro presenza. Si arriva così a comprendere come – al di là del livello della custodia – la loro azione necessiti di essere continuamente trascesa nell’autorità che li distanzi e che, insieme, mascheri ai loro stessi occhi il niente che non possono riconoscere di essere.
Se infatti la finalità dell’istituto non è esplicitamente la figura del «malato», l’intera organizzazione viene svuotata di ogni significato: che può, però, immediatamente riassumere nel momento in cui venga riconosciuto al malato un ruolo. In questa prospettiva, il primo passo indispensabile è il raccorciamento della distanza che lo separa dagli altri ruoli, raccorciamento che agisca su di lui come il simbolo del riconoscimento del proprio valore. Su questa base può essere instaurato con il malato un rapporto reale che parta da una reciprocità finora negatagli.
Tuttavia sarà questa reciprocità a mettere in discussione il ruolo autoritario dell’infermiere e del medico che, contestati da un malato che li fa uscire dai loro ruoli privilegiati, devono andare alla ricerca di una funzione reale che sostituisca quella – fittizia e spesso di malafede – che l’autorità e il prestigio della loro posizione gerarchica avevano loro conferito. Se la reciprocità dei ruoli tende a negare ogni gerarchia, allora avviare un tale tipo di rapporto con il malato, significa minare il principio autoritario-gerarchico su cui l’intera organizzazione ospedaliera si fonda, per tendere ad un organismo in cui ogni polo della realtà cerchi, attraverso l’altro, il proprio significato. In questo senso se la liberazione del malato si attua attraverso l’azione dello psichiatra e dello staff ospedaliero, lo psichiatra e lo staff trovano la loro liberazione attraverso il malato che – solo – può dare loro il ruolo che non hanno ancora avuto.
La nostra realtà è dunque l’internato degli ospedali psichiatrici, per il quale la psichiatria non ha trovato finora che soluzioni negative, vivendone l’incomprensibile psicopatologico come una mostruosità socio-biologica da allontanare e da escludere. Ma se lo studioso di psicopatologia può trovare legittimo continuare a cercare ideologicamente la soluzione per una tale “mostruosità”, mantenendosi staccato dalla realtà che non gli sta sotto gli occhi, lo psichiatra che faccia parte di un’organizzazione ospedaliera, si trova inevitabilmente costretto ad una scelta immediata. O accetta i parametri della psichiatria tradizionale e, quindi, fa ad essi aderire il malato ed i sintomi con i quali è stato etichettato, sanando il conflitto fra teoria e pratica a solo favore della teoria (e allora instaura con lui l’ovvio rapporto gerarchico-autoritario che il suo ruolo gli richiede). O si avvicina al malato così com’è, cercando di comprendere che cosa è diventato a causa di quei parametri che ne hanno sancito – come con un marchio – la “diversità”, dando la precedenza questa volta alla realtà, come unica fonte di verifica. L’alternativa oscilla dunque fra un’interpretazione ideologica della malattia che consiste nella formulazione di una diagnosi esatta, ottenuta attraverso l’incasellamento dei diversi sintomi in uno schema sindromico precostituito; o l’approccio al «malato mentale» su di una dimensione reale in cui la classificazione della malattia ha e non ha peso, dato che il livello di regressione che lo accomuna agli altri ricoverati, è legato ad una serie di comuni circostanze istituzionali – quelle che Goffman chiama «contingenze di carriera» – più che alla sindrome in sé: non si tratta dunque solo di regressione malata, ma anche di regressione istituzionale.
L. Binswanger (“La conception de l’homme chez Freud a la lumière de l’anthropologie philosophique”, in «Ev. Psych. f.», I, 3, 1938) aveva già puntualizzato il pericolo cui va incontro un metodo di approccio scientifico che «allontanandosi da noi stessi, porta ad una concezione teorica, alla osservazione, all’esame, allo smembramento dell’uomo reale allo scopo di costruirne scientificamente un’immagine». Pure, è solo corredato di una serie di immagini e di categorie precostituite di tal natura, che lo psichiatra si trova ad affrontare il malato mentale; costretto quindi a mettere fra parentesi la malattia, la diagnosi, la sindrome in cui è stato etichettato, se vuole riuscire a comprenderlo e soprattutto ad agire su di lui, dato che risulta distrutto, più che dalla malattia, da ciò che la malattia è stata ritenuta e dalle misure di sicurezza che una tale interpretazione ha imposto.
Tuttavia, nel momento in cui si mette in discussione la psichiatria tradizionale che – nell’aver assunto a valore metafisico i parametri su cui fonda il suo sistema – si è rivelata inadeguata al suo compito, si corre il rischio di cadere in un analogo impasse, qualora ci si immerga nella pratica, senza mantenere anche in questo terreno un livello critico; il che porterebbe lo psichiatra a nuovamente «de-situarsi», seppure in modo diverso.
Ciò significa che, volendo partire dal «malato mentale», dal ricoverato dei nostri istituti come unica realtà, c’è il pericolo di avvicinare il problema in modo puramente emotivo. Capovolgendo, in un’immagine positiva, il negativo del sistema coercitivo-autoritario del vecchio manicomio, si rischia di saturare il nostro senso di colpa nei confronti dei malati in un impulso umanitario, capace soltanto di confondere nuovamente i termini del problema. Liberato dalla sua promiscuità con il delinquente; rinchiuso in un carcere non meno duro del precedente; etichettato in un ruolo non molto diverso da quello del colpevole punito; allontanato e isolato in quanto riconosciuto dalla scienza psicologicamente e biologicamente “incomprensibile”; il malato rischia di diventare ora il «povero malato» che ha pagato per tutti, per il quale necessita progettare nuove strutture a carattere prevalentemente riparatorio. Il «”cattivo”» malato, la cui tutela doveva essere affidata ad un sistema carcerario, rischia di diventare il «”buon”» malato che si tenta di reintegrare – attraverso nuove strutture terapeutiche – alla società, conservando però intatto il sistema di privilegi, prevaricazioni, paure e pregiudizi che la caratterizzano. Ciò, mediante un complesso di istituzioni che continui a preservarla e a garantirla dalla “diversità” che la malattia mentale tuttora rappresenta. Del resto, in un mondo manicheo, la figura del «malato mentale» non può essere vissuta come un problema che lo metta in crisi: tuttalpiù potrà mutare il ruolo all’interno del sistema stesso, la cui tranquillità deve essere, prima di tutto, salvaguardata.
La risposta che, in una recentissima intervista (“J.-P. Sartre répond”, in «L’Arc.», n. 30, 1966) J.-P. Sartre dà, riprendendo il tema da lui affrontato nel saggio del ’47 prima citato, sembra calzare perfettamente al discorso finora impostato, tanto da ritenersi qui opportuno trascriverne uno stralcio. All’intervistatore che gli contesta una sua affermazione secondo cui «nessun libro resiste davanti ad un bambino che muore di fame», J.-P. Sartre risponde che «fra la fame del bambino ed il libro la distanza è incommensurabile. Ma se è l’emozione che io provo davanti alla fame che mi spinge a scrivere – continua Sartre – non è possibile riempire il vuoto. Per lottare contro la fame bisogna cambiare il sistema politico ed economico e la letteratura non può giocare in questa lotta che un ruolo secondario. Un ruolo secondario che però non è nullo. C’è un’ambiguità nelle parole: – da un lato non sono che parole – ‘letteratura’; dall’altro designano qualcosa e a loro volta agiscono su ciò che designano: modificano. La letteratura deve giocare su questa ambiguità. Se si pone l’accento più sull’uno che sull’altro aspetto o si fa della letteratura di propaganda o la si riduce a quel nulla che non vuole essere… Ma se si mantiene fermamente l’ambiguità, se non si sacrifica né l’uno né l’altro aspetto delle parole, si sarà già a buon punto per fare la vera letteratura: “una contestazione che contesta se stessa”» [il corsivo è mio].
Il discorso di Sartre è ancora una volta direttamente trasferibile al nostro. Il «malato mentale» che incontriamo negli asili psichiatrici è, infatti, la realtà che contesta la psichiatria così come il bambino che muore di fame contesta la «letteratura». Ma se è solo l’emozione che io provo davanti al malato che mi spinge ad agire nei suoi confronti, non è possibile riempire il vuoto che lo separa dalla scienza che dovrebbe occuparsi di lui. Quindi, o la parola conserva la sua ambiguità di essere «parola» che contemporaneamente modifica ciò che designa (e allora la psichiatria deve essere una scienza che agisce direttamente sul malato come ciò che il discorso psichiatrico deve designare per modificare); o si prende un solo polo di tale ambiguità e si fa, da un lato, della «letteratura» (discutendo sulle classificazioni e sottoclassificazioni delle sindromi); e dall’altro una analisi emotiva del «malato» e della deprecabile situazione in cui si trova. Rifiutando invece e la sterile «letteratura» psichiatrica e lo sterile rapporto puramente umanitario, si sente l’esigenza di una psichiatria che voglia costantemente trovare la sua verifica nella realtà e che nella realtà trovi gli elementi di “contestazione per contestare se stessa”.
La psichiatria asilare riconosca dunque di aver fallito il suo incontro con il reale, sfuggendo alla verifica che – attraverso quella realtà – avrebbe potuto attuare. Una volta sfuggitale la realtà, non ha che continuato a fare della «letteratura», elaborando le sue teorie ideologiche, mentre il «malato» si trovava a pagare le conseguenze di questa frattura – rinchiuso nell’unica dimensione ritenuta adatta a lui: la segregazione.
Ma, come per Sartre il ruolo della letteratura nella lotta contro la fame è secondario, perché «per lottare contro la fame bisogna cambiare il sistema politico ed economico», così nel nostro campo, per lottare contro i risultati di una scienza ideologica, bisogna anche lottare per cambiare il sistema che la sostiene. Se, infatti, la psichiatria – attraverso la conferma scientifica dell’incomprensibilità dei sintomi – ha giocato la sua parte nel processo di esclusione del «malato mentale», essa è da considerarsi, insieme, l’espressione di un sistema che ha finora creduto di negare ed annullare le proprie contraddizioni allontanandole da sé, rifiutandone la dialettica nel tentativo di riconoscersi ideologicamente come una società senza contraddizioni; così come proverà ora ad ammorbidirne le asperità, cercando di riassorbirle nel suo stesso seno attraverso una “psichiatria di propaganda” (che è appunto la letteratura di propaganda di cui parlava Sartre nella sua intervista) che viene proposta come nuova alternativa.
Per questo, il gruppo di malati, medici, psicologi, infermieri e amministratori, qui presenti con le loro discussioni e saggi sulla realtà asilare, hanno intrapreso – partendo da una verifica della realtà – una lotta che deve muoversi ad un livello scientifico e politico insieme. Se, infatti, il malato è l’unica realtà cui ci si debba riferire, si devono affrontare le due facce di cui tale realtà è appunto costituita: quella del suo essere un malato, con una problematica psicopatologica (dialettica e non ideologica) e quella del suo essere un escluso, uno stigmatizzato sociale. Una comunità che vuol essere terapeutica deve tener conto di questa duplice realtà – la malattia e la stigmatizzazione – per poter ricostruire gradualmente il volto del malato così come doveva essere prima che la società, con i suoi numerosi atti di esclusione, e l’istituto da lei inventato, agissero su di lui con la loro forza negativa.
Tuttavia, soltanto tenendo presente l’estrema ambiguità della situazione che stiamo vivendo, si riuscirà ad evitare l’edificazione di una nuova ideologia: quella dell’ospedale aperto, delle comunità terapeutiche, proposte come soluzione al problema del malato mentale. La nostra realtà è affondata in un terreno profondamente contraddittorio e la conquista della libertà del malato deve coincidere con la conquista della libertà dell’«intera comunità». Si tende, infatti, verso una nuova psichiatria basata sull’approccio psicoterapico con il malato, e si è invece ancora invischiati in una realtà psichiatrica legata ai vecchi schemi positivisti; ci si orienta verso la costituzione di nuclei ospedalieri che tengano conto del gioco delle dinamiche interne ai gruppi e dell’apporto delle relazioni interpersonali, non avendo altri modelli cui riferirsi che quelli di un sistema autoritario e gerarchico; ci si sforza di trasformare l’ospedale psichiatrico in un centro retto – per quanto possibile – comunitariamente e si è invece nostro malgrado inseriti in una realtà sociale ad alto livello repressivo e competitivo; si tende ad affrontare comunitariamente il malato mentale per farlo uscire dallo stato di regressione in cui è stato indotto, e si rischia di provocare in lui un nuovo tipo di disadattamento al clima istituzionalizzato della società.
Se quello della comunità terapeutica può essere, dunque, considerato un passo necessario nell’evoluzione dell’ospedale psichiatrico (necessario soprattutto nella funzione che ha avuto e che tuttora ha di smascheramento di ciò che il malato mentale era ritenuto e non è e per l’individuazione dei ruoli prima inesistenti al di fuori della dimensione autoritaria) non può però considerarsi la meta finale verso cui tendere, quanto piuttosto una fase transitoria in attesa che la situazione stessa si evolva in modo da fornirci nuovi elementi di chiarificazione. Ciò che risulta importante, per il momento, è riuscire a mantenere, affrontare ed accettare le nostre contraddizioni, senza essere tentati di allontanarle per negarle. Per questo il compito della psichiatria attuale potrebbe essere quello di rifiutarsi di ricercare una soluzione della malattia mentale come malattia, ma di avvicinare questo tipo particolare di malato come un “problema” che – solo in quanto presente nella nostra realtà – potrà rappresentarne uno degli aspetti contraddittori per la cui soluzione si dovranno impostare ed inventare nuovi tipi di ricerca e nuove strutture terapeutiche.
Ciò si è evidenziato chiaramente nelle organizzazioni ospedaliere aperte: il degente – non più isolato e allontanato dalla vista del medico – si impone come problema sempre presente, quindi come uno dei poli della realtà che non si può negare. Ma è possibile che soltanto lo psichiatra lo viva come problema, mentre la società continua a volerlo rinchiudere nel ruolo di malato, per non doversi impegnare ad affrontarlo nella sua presenza quotidiana? Lo psichiatra non può affrontare una tale esperienza se la società non si allinea nella stessa direzione e l’unica possibilità – che non è e non vuole essere una soluzione – è quella di accettare come parte della nostra realtà la problematica del malato mentale. Solo nel momento in cui il problema sia vissuto da tutti noi, la società dovrà imporsi soluzioni reali attraverso l’organizzazione di strutture terapeutiche, come l’unico modo di far fronte alla sua incresciosa presenza nella nostra realtà. Fintantoché – altrove – altri si cureranno di lui, continueremo a negare il problema nel timore di riconoscerci ed identificarci in esso.
Ciò che si va evidenziando nelle nuove strutture psichiatriche, tuttora ristrette entro i limiti del capovolgimento del sistema tradizionale, è che l’ospedale psichiatrico non è un’istituzione che guarisce, ma una comunità che si guarisce affrontando le proprie contraddizioni, dato che si tratta di comunità reali, ricche di tutte le contraddizioni che caratterizzano appunto la realtà. Per questo, dal momento in cui il mondo istituzionale non sarà più rinchiuso entro i confini di una realtà artificiosa, verrà a trovarsi faccia a faccia con il mondo esterno che, a sua volta, dovrà imparare ad accettare le proprie contraddizioni non avendo più un luogo in cui relegarle. In questo senso si può parlare di un incontro delle due comunità (quella esterna e quella interna), già fisicamente concretatosi nell’espandersi della città fino alla periferia dove, un tempo, era confinata la casa della follia, e nell’evolversi della comunità chiusa che – nel suo manifestarsi una comunità viva, reale e contraddittoria – si troverà a scontrarsi dialetticamente con la realtà da cui è stata partorita. Si potrà così minare contemporaneamente e l’ideologia dell’ospedale come macchina che cura, come fantasma terapeutico, come luogo senza contraddizioni; e l’ideologia di una società che, negando le proprie contraddizioni, vuole riconoscersi come una società sana.
LA LIBERTA’ COMUNITARIA
COME ALTERNATIVA ALLA REGRESSIONE ISTITUZIONALE
di Franco Basaglia.
[Incontro con gli infermieri dell’Ospedale Psichiatrico di Colorno (Parma) nell’autunno 1966].
Nel 1952, un numero speciale dell’«Esprit», fu dedicato al tema “La miseria della psichiatria” e vi collaborarono gli psichiatri francesi che, fin da allora, erano impegnati alla ricerca di un nuovo modo di approccio istituzionale al malato mentale. In un articolo sulla “Condizione del malato nell’ospedale psichiatrico” di L. Le Guillant e L. Bonnafè si legge: «La condizione dei malati nell’ospedale psichiatrico non sembra sia effetto di qualche ‘maledizione’… Se questi malati sono più duramente trattati degli altri… è in definitiva perché si tratta di malati senza difesa, senza voce e senza diritti. Gli alienati sono (agli occhi della classe dominante) i negri, gli indigeni, gli ebrei, i proletari degli altri malati. Come loro, sono vittime di un certo numero di pregiudizii e di ingiustizie. Pregiudizii ed ingiustizie che comunque non concernono affatto la natura della follia».
In Italia, a tutt’oggi, una legge antica, incerta fra l’assistenza e la sicurezza, la pietà e la paura, continua a stabilire i limiti oltre i quali si passa la frontiera fra il cittadino che ha – di fronte alla società – il diritto di essere difeso, e il malato che, solo in quanto tale, perde questo diritto, perché fa ormai parte della schiera di coloro da cui la società vuole difendersi.
«”Pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo”». Questa è la motivazione con la quale il malato mentale entra in manicomio; in un luogo la cui funzione è – in questa motivazione stessa – già precisata come azione di tutela, di difesa del sano di fronte alla follia e dove il malato assume un ruolo puramente negativo, come se il suo rapporto con l’istituzione si svolgesse al solo livello della sua eventuale pericolosità. Da ciò deriva che, se il malato – prima di essere considerato tale – è da ritenersi soprattutto “pericoloso”, le regole su cui l’istituzione che dovrebbe occuparsi della sua cura, si edifica, non possono essere istituite che in funzione di questa pericolosità e non della malattia di cui soffre. Per questo la figura del malato mentale, così come appare abitualmente nei nostri ospedali, è quella dell’uomo oggettivato in un istituto, la cui organizzazione ed efficienza sono sempre risultate più importanti della sua riabilitazione.
E’ qui superfluo dilungarci in descrizioni – ormai ovvie – dello stato di passività, di apatia, di disinteresse in cui vivono i malati nei nostri ricoveri. Esso è stato riconosciuto come una forma di regressione, venuta a sovrapporsi alla malattia originaria, a causa del processo di annientamento e di distruzione cui i malati sono sottoposti dalla vita dell’asilo. Basti dire che il perfetto ricoverato, all’apice di questa carriera, sarà quello che si presenta completamente ammansito, docile all’autorità degli infermieri e del medico; quello che, in definitiva, non complica le cose con reazioni personali, ma si adegua supinamente all’autorità che lo tutela; autorità che solo attraverso la negazione di ogni impulso e bisogno personale di chi le viene affidato, si garantisce l’efficienza ed il buon andamento dell’istituto.
Questa la situazione fallimentare della psichiatria istituzionale tradizionale. Di chi sia stata la colpa, è a questo punto inutile indagare. Ogni società, le cui strutture siano basate soltanto su una discriminazione economica, culturale e su un sistema competitivo, crea in sé delle aree di compenso che servono come valvole di scarico all’intero sistema. Il malato mentale ha assolto questo compito per molto tempo, anche perché era un «”escluso”» che non poteva conoscere da sé i limiti della sua malattia e quindi ha creduto – come la società e la psichiatria gli hanno fatto credere – che ogni suo atto di contestazione alla realtà che è costretto a vivere, sia un atto malato, espressione appunto della sindrome di cui soffre.
Se dunque da un lato è il sistema sociale a determinare una simile situazione, dall’altro la psichiatria stessa l’ha avvalorata scientificamente, riconoscendo l’incomprensibile del fenomeno psicopatologico come una mostruosità biologica che poteva solo essere isolata.
Ora è però la psichiatria, come esigenza di verità scientifica, a riproporre il problema, non già alla ricerca di un capro espiatorio su cui scaricare le aggressività accumulate (il che ci manterrebbe ancora ristretti nei limiti di un mondo manicheo dove si separi nettamente il Male dal Bene), ma nel tentativo di trovare, nel vivo, una soluzione ai problemi che urgono.
Di fronte al volto, mutato dall’era dei farmaci, del malato mentale, è infatti la psichiatria che rifiuta di continuare a trattarlo come un “escluso” da cui la società vuole ancora difendersi. E rifiuta di continuare a tenerlo prigioniero di formule, etichettamenti, qualifiche che corrispondono più ad un’immagine che la psichiatria stessa si era costruita dell’uomo malato, che ad una realtà. L'”agitato”, il “pericoloso”, lo “scandaloso” non corrispondono a modalità umane di cui si vogliano conoscere le più intime motivazioni, ma sono ormai categorie il cui significato risulta «consumato» ed assorbito in un’unica realtà: l’uomo da escludere.
Il piano in cui la psichiatria attuale si pone è, dunque, prima di tutto un piano umano e sociale. Esso richiede un tipo di approccio al malato che, sempre tenendo conto dell’efficacia dei trattamenti biologici, non dimentichi di trovarsi di fronte un uomo e non una malattia cui farne aderire i sintomi, una categoria in cui rinchiuderlo, o una mostruosità da allontanare.
Nel 1838, quando non c’erano i ganglioplegici, né la psicanalisi aveva ancora attuato l’approccio psicodinamico, un coraggioso psichiatra inglese, il dottor Conolly con l’aiuto di trenta infermieri, apriva le porte ed eliminava le contenzioni in un ospedale psichiatrico di cinquecento malati. Aveva impostato intuitivamente quella che più di cento anni dopo Maxwell Jones – sempre in Inghilterra – avrebbe chiamato la «comunità terapeutica». «Ciò che più colpisce gli uomini, anche i più lontani dalla medicina – scrive nel 1858 Morel, dopo aver visitato l’impresa di Conolly – è l’ordine e la disciplina di questi asili, la calma dei malati e i sentimenti d’umanità che animano i sorveglianti e gli infermieri dell’uno e dell’altro sesso. Ho visto malati passeggiare in lunghi corridoi dove circolava liberamente aria e luce; questi corridoi sui quali si aprono le stanze dei ricoverati, sono ornati di tavoli e di fiori e portano a sale di riunioni dove si incontrano i pensionati di diverse classi e dove trovano libri, giornali ed altre distrazioni». Tutto questo accadeva in Inghilterra nel 1838 (1).
Da allora c’è stata la psicanalisi; l’antropologia esistenziale ha ulteriormente umanizzato l’approccio psicoterapico; sono stati scoperti farmaci tali da mutare il volto del malato mentale; sono in atto esperienze già collaudate in paesi stranieri come l’Inghilterra e la Francia (seppure su basi diverse le une dalle altre) e in Italia, tuttavia, siamo ancora legati ad uno scetticismo e ad una pigrizia che non hanno giustificazioni.
L’unica spiegazione può essere data in chiave socioeconomica: il nostro sistema sociale – ben lontano dall’essere un regime economico di pieno impiego – non può essere interessato alla riabilitazione del malato mentale che non potrebbe essere recepito da una società, dove non è risolto il problema del lavoro dei suoi membri sani.
In questo senso ogni esigenza di carattere scientifico da parte della psichiatria, rischia di perdere il suo significato più importante – il suo aggancio appunto sociale – se alla sua azione all’interno di un sistema ospedaliero ormai in sfacelo, non si unisce un movimento strutturale di base che abbia a tener conto di tutti i problemi di carattere sociale che sono legati all’assistenza psichiatrica. Per questo, anche l’esperienza attuata dalla comunità che io qui rappresento, pur avendo ottenuto innegabili risultati in questo campo, continua a correre il rischio di perdersi se non riesce a trovare una risposta nel contesto sociale su cui agisce.
Mi scuso, fin dall’inizio, se – per quanto riguarda l’impostazione del problema psichiatrico relativo alla comunità terapeutica – mi troverò costretto a fare riferimenti ad esperienze personali, senza le quali, d’altra parte, il discorso rischierebbe di rimanere astratto ed inutile. Comunque parlare di un’esperienza i cui risultati ci consentano di esporre brevemente le basi teoriche su cui la nostra impostazione si fonda, penso possa avere il valore di una smentita al senso comune, e possa servire come dimostrazione che mutamenti, anche radicali, sono possibili se solo si incominci ad attuarli.
La comunità terapeutica si presenta come una comunità e non un agglomerato di malati. Come una comunità organizzata in modo da consentire il movimento di dinamiche interpersonali fra i gruppi che la costituiscono e che presenta le caratteristiche di qualsiasi altra comunità di uomini liberi. Questo è l’assunto di base.
Ciò che è più difficile illustrare è il concetto di terapeuticità legato alla comunità. Non tutte le comunità risultano, infatti, terapeutiche. Le caserme, i collegi sono organizzazioni di uomini “liberi” che devono, tuttavia, essere subordinati alle regole della comunità cui appartengono; regole basate sull’efficienza necessaria al buon andamento dell’organizzazione. Tuttavia, anche se tale efficienza è ottenuta solo attraverso la mortificazione individuale, essa non mina che parzialmente la libertà dei suoi membri cui, all’esterno dell’organizzazione stessa, è consentita una vita personale.
Una comunità terapeutica psichiatrica non potrebbe però partire da questi presupposti. Se accettasse, come l’organizzazione psichiatrica tradizionale aveva accettato, la mortificazione individuale dei malati in nome dell’efficienza dell’istituto, dell’ordine, della sicurezza generale, riconfermerebbe il clima istituzionale che vuole distruggere. Deve quindi partire dalle esigenze del malato e da lì cercare di adattare attorno a lui lo spazio vitale di cui ha bisogno per espandersi ed attuare quello che è l’assunto primo della comunità terapeutica: la potenza terapeutica che ognuno dei componenti la comunità sprigiona nei confronti dell’altro. Malato, medico, infermiere, personale amministrativo, chiunque sia presente nell’istituto si trova coinvolto ad assolvere questo compito. Tutto è quindi orientato verso un unico fine: creare un clima nel quale sia possibile avvicinarsi reciprocamente in un rapporto umano che, proprio in quanto spontaneo, immediato e reciproco, diventa terapeutico.
La scoperta della comunità terapeutica – attuata da Maxwell Jones nel 1952 – sembra quindi la soluzione più ovvia per un tipo di malato che risulta disturbato soprattutto nel rapporto con se stesso e con l’altro. Ma se sembra tanto ovvia nella enunciazione, essa si rivela molto più difficile nella sua applicazione pratica. Ciò significa, infatti, l’apertura delle porte dell’ospedale psichiatrico – chiuso finora in un mondo senza contraddizioni perché ogni espressione e ogni bisogno personale era impedito – al mondo della dialettica, dell’opposizione, dell’accordo ottenuto mediante il reciproco convincimento e non con la prevaricazione e la forza.
E’ dunque facile farsi un’immagine falsa della comunità terapeutica come di un mondo ideale dove tutti sono buoni, dove i rapporti sono improntati al più profondo umanitarismo, dove il lavoro risulti altamente gratificante: un po’ come viene presentata addolcita e con una sola faccia, la realtà della pubblicità televisiva, dove siamo invitati a partecipare di una vita irreale, ideologica, senza contraddizioni.
La comunità terapeutica vuole essere appunto la negazione di questo mondo ideale. Essa è un luogo nel quale tutti i componenti (e ciò è importante) – malati, infermieri e medici – sono uniti in un impegno totale dove le contraddizioni della realtà rappresentano l’humus dal quale scaturisce l’azione terapeutica reciproca. E’ il gioco delle contraddizioni – anche a livello dei medici fra loro, medici e infermieri, infermieri e malati, malati e medici – che continua a rompere una situazione che, altrimenti, potrebbe facilmente portare ad una cristallizzazione dei ruoli.
E’ ovvio, tuttavia, che la contestazione si può muovere solo in un clima di libertà. E la libertà ha i suoi rischi. Impostare un’organizzazione psichiatrica sullo sviluppo della capacità di opporsi del malato (capacità attraverso la quale il suo io indebolito riesca a prender forza), significa dover distruggere ogni riferimento al metro con cui la psichiatria tradizionale lo aveva misurato: la pericolosità, la necessità di misure di sicurezza, considerate terapeutiche. La situazione viene necessariamente capovolta: se prima l’architettura stessa dell’ospedale doveva tener conto della necessità del sorvegliante di spaziare col suo occhio vigile il più lontano possibile, ora si deve tener conto della necessità del mantenimento del mondo privato di ognuno, che deve poter sussistere anche in opposizione alla comunità stessa.
Ciò presuppone però il mutamento radicale del rapporto che non può essere improntato che all’autentico rispetto reciproco. Vivere dialetticamente le contraddizioni del reale è dunque l’aspetto terapeutico del nostro lavoro. Se tali contraddizioni – anziché essere ignorate o programmaticamente allontanate nel tentativo di creare un mondo ideale – vengono affrontate dialetticamente, se le prevaricazioni degli uni sugli altri e la tecnica del capro espiatorio – anziché essere accettate come inevitabili – vengono dialetticamente discusse, così da permettere di comprenderne le dinamiche interne, allora la comunità diventa terapeutica. Ma la dialettica esiste solo quando ci sia più di una possibilità, cioè un’alternativa. Se il malato non ha alternative, se la sua vita gli si presenta già prestabilita, organizzata e la sua partecipazione personale consiste nell’adesione all’ordine, senza possibilità di scampo, si troverà imprigionato nel terreno psichiatrico, così come si sentiva imprigionato nel mondo esterno di cui non riusciva ad affrontare dialetticamente le contraddizioni. Come la realtà che non riusciva a contestare, l’istituto cui non può opporsi non gli lascia che un unico scampo: la fuga nella produzione psicotica, il rifugio nel delirio dove non c’è né contraddizione né dialettica.
In che cosa consiste, dunque, praticamente la differenza fra un istituto che si regge in senso tradizionale ed una comunità che vuole essere «terapeutica»?
In entrambe le istituzioni il malato segue l’iter ospedaliero, nel senso che la sua giornata si svolge all’interno di una comunità che deve assolvere particolari funzioni essenziali: mangiare, dormire, far passare il tempo. Nell’istituto tradizionale, però, il far passare la giornata è un atto puramente passivo, vissuto come tale dall’intera organizzazione: i malati aspettano il succedersi dei pasti, interrotti da qualche attività definita «passatempo»; gli infermieri lasciano scorrere le ore sorvegliando. In una comunità che si dice terapeutica, ogni atto di ognuno acquista un significato attivo di reciproca stimolazione, appunto, terapeutica. Ciò significa che ogni momento della giornata, ogni movimento dei componenti la comunità è teso a formulare un clima il cui scopo primo sia la ricostituzione dell’iniziativa personale, della spontaneità e della capacità creativa compromesse, in un primo tempo, dalla malattia e, successivamente, distrutte dall’istituto. La comunità terapeutica tende dunque alla creazione di una struttura – più psicologica che materiale – nella quale ogni suo componente sia impegnato alla stimolazione dell’altro attraverso la creazione di possibilità di rapporti interpersonali che, contemporaneamente, assolvano alla necessità di protezione e tutela reciproca. In questo senso il ruolo protettivo rappresentato nell’ospedale tradizionale da sbarre, grate, reti che, anche agli occhi del malato acquistano il valore di protezione contro se stesso; o nell’ospedale paternalistico dall’enorme figura del medico alla cui bontà e comprensione il malato può abbandonarsi e distruggersi – nella comunità terapeutica viene assolto dalla comunità stessa in cui si trovano a giocare, in un movimento di tensioni e controtensioni, i ruoli dei malati, degli infermieri e dei medici, continuamente messi in discussione, ricostruiti e nuovamente distrutti.
Ciò si evidenzia particolarmente nella riunione di comunità che si attua ogni mattina nel nostro ospedale e che rappresenta il banco di prova dove ogni componente la comunità stessa si espone di fronte all’altro e ne accetta la contestazione. Questo incontro plenario giornaliero viene, dunque, vissuto come un riferimento psicologico che assolve un’enorme funzione protettiva. Se, di fronte alle contraddizioni, ai contrasti, alle difficoltà personali di ogni membro della comunità, si crea uno spazio reale in cui le difficoltà e i contrasti possono essere discussi, a volte risolti, a volte chiariti, a volte compresi nella loro impossibilità di soluzione – assieme agli altri – contraddizioni e contrasti vengono sdrammatizzati e privati della carica emotiva di cui abitualmente sono pregni, proprio perché il malato – e non solo lui – trova subito un’apertura, uno sbocco in cui incanalarli, prima di incapsularli definitivamente in se stesso.
Questa la funzione principale della riunione di comunità che serve da perno attorno al quale ruota tutta la vita ospedaliera.
Altro elemento in cui un’organizzazione psichiatrica di tal tipo si differenzia dall’ospedale tradizionale è la cosiddetta «ergoterapia»: il problema del lavoro, delle attività verso cui stimolare malati apatici, indifferenti, abulici è fondamentale. Ma, mentre nell’ospedale tradizionale il lavoro ha il solo significato di un riempitivo, nella comunità terapeutica esso deve assumere nuovamente un valore terapeutico, come occasione di incontri, di rapporti interpersonali spontanei e come stimolo all’attuazione di una spontaneità creativa distrutta. Ma oltre a questo, il lavoro può avere una funzione importantissima se si riveli un’occasione capace di stimolare – in malati «cronici» che da anni hanno perso il senso del proprio valore personale – una nuova coscienza lavorativa, tale da far rifiutare il compenso come espressione di beneficenza gratuita. Solo nell’esigere la retribuzione quale logica contropartita di ciò che il lavoratore dà alla comunità, il malato riesce a farsi riconoscere nel proprio valore di scambio. E’ quindi evidente come l’elemento su cui si tende a far leva non sia tanto la rivendicazione salariale in sé, quanto piuttosto il fatto che, attraverso un tale tipo di rivendicazione immediata, il malato trova un riconoscimento, una conferma al proprio valore personale.
Si pensi, ad esempio, alla situazione di un malato cronico in un ospedale psichiatrico tradizionale. L’alternativa che gli viene offerta è la scelta fra far parte dello «zoccolo umano», unico arredo degli enormi androni chiusi; o rivelarsi collaborativo (che significa obbediente, rispettoso, servile, succube) per essere ammesso nella squadra dei lavoratori addetti ai servizi generali. Si trova, quindi, a dover preferire una condizione subumana, quale quella della rassegnazione completa alla perdita della propria individualità e personalità, per poter sussistere. Questo tipo di lavoro, oltre ad essere alienante per il malato, poiché egli si trova a contribuire con le sue stesse mani a mantenere in vita l’istituto che lo segrega, aumenta in lui la convinzione di far parte di una categoria di sub-uomini per i quali la retribuzione al lavoro non corrisponde ad un diritto in diretto rapporto con la prestazione reale: la stessa partecipazione al lavoro gli viene concessa come un «dono», in cambio o in premio della sua buona condotta e docilità.
Per il malato che viva in una comunità terapeutica, il lavoro, inteso in questo senso, non dovrebbe aver significato e lo dichiaro anche se nella nostra questo fenomeno è tuttora presente. L’ospedale non è un’industria ed il lavoro – se è riconosciuto un elemento necessario per il malato, come lo è ritenuto in ogni organizzazione ospedaliera tradizionale – deve però avere un fine soltanto terapeutico e solo in funzione di questa finalità deve essere svolto. La funzione significativa di queste attività lavorative non può, dunque, limitarsi a quella di un passatempo, ma deve agire, soprattutto, come stimolo ai rapporti interpersonali fra i malati e rivelarsi come l’occasione di discussioni capaci di alimentare nel malato le capacità di opporsi in modo personale, per prendere coscienza di sé, dei propri e degli altrui limiti (2).
Ciò richiede, ovviamente, una collaborazione strettissima con un personale preparato al suo compito. Per questo la comunità terapeutica è una organizzazione che tende ad essere orizzontale, in confronto all’organizzazione gerarchica verticale degli ospedali psichiatrici tradizionali. Perché ogni componente la comunità è indispensabile all’andamento della comunità stessa e deve poter, a sua volta, contare sulla sicura collaborazione di tutti.
Primo passo – causa e nello stesso tempo effetto del passaggio dalla ideologia custodialistica a quella più propriamente terapeutica – risulta quindi il mutamento dei rapporti interpersonali fra coloro che agiscono nel campo. Mutamento che, con il variare o il costituirsi di motivazioni valide, tende a formare nuovi ruoli che non presentano più alcuna analogia con quelli della precedente situazione tradizionale. E’ questo terreno ancora informe, dove ogni personaggio ricerca il suo ruolo continuamente distrutto e ricostruito, che costituisce la base da cui prende l’avvio la nuova vita terapeutica istituzionale.
Nella situazione comunitaria il medico, quotidianamente controllato e contestato da un paziente che non si può allontanare né ignorare, perché costantemente presente a testimoniare i suoi bisogni, non può arroccarsi in uno spazio che potremmo definire asettico, dove poter ignorare la problematica che la malattia gli propone. Né può risolversi in un dono generoso di sé che, attraverso il suo inevitabile trascendersi nel ruolo di “apostolo” munito di una missione, stabilirebbe un altro tipo di distanza e di diversità non meno grave e distruttivo del precedente. La sua unica posizione possibile risulterebbe un nuovo ruolo, costruito e distrutto dal bisogno che il malato ha di fantasmatizzarlo (di renderlo cioè forte e protettivo) e di negarlo (per sentirsi forte a sua volta); ruolo in cui la preparazione tecnica gli consenta – oltre il rapporto strettamente medico con il paziente che resta inalterato – di seguire e comprendere le dinamiche che vengono a determinarsi, così da poter rappresentare in questa relazione il polo dialettico che controlla e contesta come viene controllato e contestato. L’ambiguità del suo ruolo sussiste, comunque, fintantoché la società non chiarirà il suo mandato, nel senso che il medico ha un ruolo preciso che la società stessa gli fissa: controllare un’organizzazione ospedaliera nella quale il malato mentale sia tutelato e curato. Si è visto, tuttavia, come il concetto di tutela (nel senso delle misure di sicurezza necessarie per prevenire e contenere la pericolosità dell’internato) sia in netto contrasto con il concetto di cura che dovrebbe invece tendere al suo espandersi spontaneo e personale; e come l’uno neghi l’altro. In che modo il medico può conciliare queste due esigenze, in sé contraddittorie, finché la società non chiarirà verso quale dei due poli (la custodia o la cura) vuole orientare l’assistenza psichiatrica?
La posizione dell’infermiere è, in un certo senso, meno ambigua. Nella situazione comunitaria egli si trova di fronte a delle motivazioni al suo lavoro che mutano il loro significato più intrinseco: esse infatti passano dal puro custodialismo (quindi da un rapporto con oggetti la cui unica motivazione risiede nel compenso economico), ad una finalità terapeutica cui ogni atto e ogni gesto verrebbe ad uniformarsi. In un ospedale che si va facendo comunitario, è la situazione stessa a richiedere all’infermiere una capacità di rapporto terapeutico cui spesso non è preparato. Il problema sorge, infatti, quando non sia possibile immettere nell’organizzazione che va mutando, nuovi elementi tecnicamente responsabili, ma si debba contare solo sulla graduale presa di coscienza da parte dell’infermiere del mutare delle motivazioni al suo lavoro e, quindi, sull’accettazione o il rifiuto dell’impegno terapeutico che un tale tipo di motivazione necessariamente comporta. Questa è la «crisi» del suo ruolo e la maggior difficoltà in cui si imbatte la comunità terapeutica: essa si trova, infatti, necessariamente basata sull’opera essenziale degli infermieri il cui ruolo viene completamente capovolto dalle nuove strutture che si fondano sulla loro partecipazione totale. D’altra parte, la graduale presa di coscienza da parte degli infermieri del mutare delle loro motivazioni al lavoro, diventa essa stessa fonte di terapeuticità all’interno dell’organizzazione, poiché l’opposizione, la contestazione non sono che elementi positivi di chiarificazione, di controllo reciproco, che ci salvano dal pericolo di cadere in una nuova ideologia.
Quello di cui si è finora parlato solo marginalmente resta, comunque, ancora il ruolo del malato e ciò perché nella struttura tradizionale egli è presente come un oggetto accessorio. Il suo ruolo, cioè, nei confronti del medico è essenzialmente passivo, in un rapporto di assoluta dipendenza da chi rappresenta il ruolo tecnico competente. Paradossalmente il medico risulta in stretto rapporto con la malattia del malato, in una sorta di relazione in cui il malato recita un ruolo, appunto accessorio.
Infatti, se per ruolo si intende il complesso di funzioni attraverso le quali l’individuo giustifica la sua presenza nel mondo, il malato mentale – e in particolare il ricoverato di un istituto tradizionale – ne parrebbe completamente privo essendo stato, fin dall’inizio, escluso dalla vita sociale ed essendosi gradualmente costretto – per poter meglio aderire alle regole dell’istituto e, quindi, sopravvivere – ad affidarsi nelle mani di chi dovrebbe curarsi di lui, come chi non ha alcun potere sulla propria vita, né alcun ruolo nel mondo. Nello spazio, psicologicamente oltre che materialmente ridotto che l’istituto gli consente, il malato riesce a sopravvivere alla sua mancanza di individualità soltanto attraverso un processo di fantasmatizzazione del medico che la giustifichi ma che, proprio per questo, lo continua a mantenere legato al suo ruolo di passività.
E’ solo passando nella prospettiva comunitaria che il malato si trova ad agire, contemporaneamente, come causa e come effetto della crisi generale dei ruoli all’interno dell’istituzione: cioè la partecipazione attiva alla vita terapeutica istituzionale da parte del malato, attraverso lo «sfruttamento» della forte componente terapeutica che da lui si sprigiona, ha messo in crisi i ruoli dello staff. Ma lo ha anche fatto uscire dal ruolo tradizionalmente passivo che gli era abituale, immettendolo in una sfera in cui le sue competenze non sono ancora del tutto chiarite.
Si potrebbe incominciare a dire – dall’esperienza che andiamo facendo – che il ruolo del malato, all’interno di una istituzione tendenzialmente comunitaria, sta mutando qualitativamente. Ciò significa che il malato non viene acquistando più libertà, più autonomia, più responsabilità come una somma di possibilità quantitative che gli si aprono. Ma che sta imparando a tradurre queste possibilità in un modo personale di approccio, appunto qualitativamente più evoluto e più maturo, con il gruppo in cui vive. Si è assistito, infatti, nel caso di lungodegenti istituzionalizzati, ad una graduale conquista o assimilazione personale dei vari stadi di liberalizzazione che – all’inizio dell’apertura dell’ospedale – non potevano essere vissuti che come estranei. La libertà donata resta, evidentemente, di proprietà di chi la dona e si presenta come una categoria di cui si conosce l’uso, senza poter appropriarsene, se non attraverso un atto di conquista. Nel caso del lungodegente istituzionalizzato è proprio la conquista del proprio ruolo nella comunità cui appartiene che gli rende la libertà, troppo facilmente ottenuta al momento dell’apertura dell’ospedale.
Il problema del malato mentale che si pone “ora” in contatto con una situazione terapeutica istituzionale è, naturalmente, del tutto diverso. Egli si presenta, infatti, con un ruolo ben preciso nei confronti della malattia di cui soffre, ruolo che consiste nel suo impegno a vincere l’ansia attraverso la produttività psicotica. Un tale ruolo attivo (benché si tratti di attività psicotica) diminuisce o cessa all’ingresso nell’istituto dove, abitualmente, o il livello di iperprotezione (leggi misure di sicurezza più idonee a garantire l’assoluta impossibilità di agire del ricoverato); o il rapporto individuale con il medico su un piano paternalistico, fuori della realtà; o la mancanza di protezioni evidenti del clima comunitario, provocano un ulteriore stato di regressione, immediatamente successivo all’ingresso.
Ora, di questo livello regressivo l’istituto tradizionale su base custodialistica si serve per legare maggiormente a sé e alle sue regole il nuovo affiliato, il quale sarà – appunto dalla coercizione della vita asilare – confermato nel suo sentimento di esclusione e sollecitato nelle sue difese psicotiche. L’istituto tradizionale su base paternalistica riuscirà- attraverso il rapporto individuale con il medico «buono» – a colpevolizzare maggiormente il malato, così da non consentirgli altre possibilità di vita che le sue fantasie psicotiche, esaltate appunto dal clima di falsa tolleranza che lo circonda.
Che cosa accade, invece, al momento dello stadio regressivo iniziale di un malato, entrato in una situazione comunitaria? Immesso in uno spazio dove la figura del medico non si presenta né protettiva, né incombente o coercitiva, il malato si trova solo, in mezzo ad altri malati. Lo stato di regressione si annuncia subito: nell’ospedale non ci sono coercizioni, né mortificazioni, ma non c’è neppure la figura paterna cui abbandonarsi per dimenticarsi e distruggersi. Il malato si trova solo davanti alla possibilità di costruirsi un ruolo o di rifiutarlo ed avverte che – nonostante egli tenda a costruirsi il fantasma del medico che tutto accoglie ed assorbe in sé – ciò che conta è la presenza degli altri attorno a lui: presenza reale, vera, concreta. Attraverso una tale presenza avverte di essere un escluso, ma un escluso in mezzo ad altri esclusi con cui può unirsi e costruire quello che al malato tradizionale non sarebbe mai stato possibile: l’unione in gruppo per difendersi dall’istituzione.
E’ qui che entrano in gioco i ruoli del medico e dell’infermiere che devono essere pronti ad accettare e stimolare il gruppo che viene costituendosi come altamente terapeutico, anche se (e soprattutto se) mette in discussione la loro autorità, la loro competenza tecnica, la loro sicurezza umana.
In questo senso il dividere, da parte del medico, il rischio della libertà del malato poteva essere il primo passo per porsi sullo stesso piano, restando tuttavia un atto volontaristico in cui era sempre il medico a decidere se accettare o rifiutare un tale rischio, mantenendosi egli alla distanza del signore che si fa volontariamente democratico. Ma ora, di fronte a dei malati che prendono gradualmente coscienza del proprio ruolo e della propria forza come un gruppo che ha possibilità di controllo reciproco, di interazione e quindi di azione terapeutica, il medico è messo in discussione e lo sarà, su un piano sempre più reale e meno fantasmatico, a mano a mano che il ruolo del malato si avvierà, attraverso il senso di appartenenza alla comunità, ad uscire dalla serializzazione istituzionale, verso la costituzione di un gruppo in cui possa definire ed affermare la legittimità della sua esistenza.
Restano ancora alcune precisazioni di carattere pratico.
L’organizzazione ospedaliera cui mi riferisco comprende cinquecentocinquanta malati, suddivisi in otto reparti di cui sei completamente aperti. Due – uno maschile ed uno femminile per un totale di circa centosettanta persone – sono ancora chiusi ed accolgono malati organici, dementi, schizofrenici gravemente deteriorati, frenastenici, per i quali si sta elaborando un progetto di graduale apertura nei prossimi mesi. Questi due reparti ancora chiusi segnano, comunque, il limite della nostra esperienza i cui risultati attuali ci autorizzano però a procedere nella direzione ormai tracciata. Problemi pratici, quali il personale insufficiente, reparti troppo affollati che dovrebbero poter essere sfoltiti, ci hanno impedito finora l’attuazione dell’apertura completa di tutto l’ospedale.
Questa presenza del vecchio «manicomio» all’interno della nostra struttura ospedaliera è, dunque, la dimostrazione del punto cui siamo giunti. La nostra comunità è qualche cosa che sta muovendosi, evolvendosi di giorno in giorno e che è ben difficile poter descrivere: è una situazione che non si può definire ma solo attuare e verificare; dove si tende a vivere il positivo ed il negativo come le facce diverse di un problema che ha bisogno di venir dialettizzato per essere compreso. Ciò che, comunque, ci preme precisare sono i limiti raggiunti, poiché rifiutiamo di presentare una situazione mistificata che – proprio in quanto tale – non avrebbe la minima utilità sociale.
Resta ancora da chiarire il grado di “rischio” cui una comunità, così impostata, può andare incontro. Dalla nostra esperienza di questi cinque anni di lavoro (di cui raccoglieremo altrove i dati statistici) credo si possa concludere che gli inconvenienti sono stati di molto inferiori all’aspettativa, e direi inversamente proporzionali ai risultati generali. Ciò significa che i rischi ci sono, ma che non superano quelli di un’organizzazione psichiatrica tradizionale, costruita appositamente per eluderli. Del resto ogni tipo di approccio terapeutico ne accetta e finora pare che solo lo psichiatra non li abbia ancora affrontati direttamente, poiché i rischi verrebbero a ricadere su di lui e sulla società di cui è l’espressione.
Gli inconvenienti cui si può andare incontro possono essere di natura diversa, così come le contraddizioni della realtà si manifestano con tante facce. Ma essi si rivelano sempre strettamente legati al grado di coesione all’interno dell’organizzazione; agli stati di tensione non risolti; ai momenti in cui la comunità non garantisce un livello protettivo sufficiente: motivi questi che mettono in discussione l’azione del medico e dell’infermiere più che la imprevedibilità del malato e della sua malattia.
Questa la conclusione globale della nostra esperienza che – iniziata con scarsissimo personale medico e con personale infermieristico impreparato al nuovo ruolo – è andata svolgendosi abbracciando di necessità tutto il positivo ed il negativo che veniva ad affiorare in una realtà dove la dialettica era stata programmaticamente negata. Per aiutare il malato a guardare in faccia le contraddizioni del reale da cui è fuggito, non può essere di alcuna utilità creare un mondo artificiale nel quale tali contraddizioni non esistano. Ma se si riesce a farlo avvicinare a questo mondo contraddittorio, abituandolo a dialettizzarne le forze, questo sarà il primo passo verso la possibilità, da parte sua, di accettarle o dominarle.
Tuttavia ogni discorso sulla malattia mentale rischia di restare astratto se non si cerchi di risolverlo attivamente, anche attraverso tentativi ed errori. Per questo concludo con le parole dello stesso Bonnafè, cui mi sono riferito all’inizio: «Questa lotta contro il ‘mito’ da cui si sviluppa la follia… non sarà vinta da speculazioni teoriche ma da realizzazioni concrete… Solo una nuova impostazione pratica ci mostrerà l’orientamento verso cui può andare la trasformazione dell’assistenza psichiatrica, della condizione del malato mentale nella società e quali forme prenderà». Ciò che comunque importa, e qui concordo appieno con Bonnafè, è che nel caso del malato mentale «non si tratta più di un problema tecnico, ma di una posizione che ognuno deve prendere: quella della complicità o quella della verità e dell’azione».
DIBATTITO
avvenuto nel corso dell’incontro tra la delegazione di infermieri e amministratori dell’O.P.P. di Colorno (Parma) e il personale sanitario, infermieri e degenti dell’O.P.P. di Gorizia il giorno 20 dicembre 1966 (1).
SIGNOR POIANA (infermiere dell’O.P.P. di Gorizia) A nome di tutto il personale porgo il benvenuto agli amici di Parma con la speranza che dal dibattito pubblico vengano fuori delle cose che a loro interessano; credo che per questo sono venuti qua e speriamo che sia proficuo e positivo questo nostro incontro.
Invito gli amici a fare delle domande e cercheremo di rispondere il meglio che sia possibile.
SIGNOR BIZZI (infermiere dell’O.P.P. di Colorno) A nome del personale dell’istituto di Colorno di Parma, ringrazio per la gentile ospitalità e invito l’assemblea ad iniziare il dibattito attraverso le domande e le risposte; discuteremo in modo fraterno ed aperto i problemi ai quali noi tutti siamo interessati.
Cedo dunque la parola all’Assemblea.
SIGNORINA SQUADRA (degente dell’O.P.P. di Gorizia) Potrei fare questa domanda. Perché nel vostro istituto ci sono degli orari prestabiliti per le visite dei familiari?
BIZZI In questo istituto di Gorizia ritengo positivo, per la natura più avanzata della terapia, il concedere l’accesso ai familiari in qualsiasi giorno.
A Colorno i familiari dei degenti possono accedere all’istituto il mercoledì, il giovedì, il sabato e la domenica; orari: mattino dalle nove alle dieci, pomeriggio dalle tredici alle ore quindici, fatta eccezione per i giorni festivi infrasettimanali, come ad esempio il Natale, Capodanno eccetera che vengono considerati giorni di visita.
Io non saprei spiegare questo motivo. Indubbiamente questo discorso dovrebbe essere posto ai sanitari e ai dirigenti dell’istituto. Personalmente ritengo che nell’azione generale intrapresa dalla nuova amministrazione debba essere considerata anche una modifica nell’attuale disciplina delle visite, nel senso di facilitare al massimo l’incontro fra ricoverato e familiare. Anche questo è importante per annullare tutti i vincoli e i freni che dànno l’impressione della mancanza di libertà.
SIGNOR PANZINI (degente dell ‘O.P.P. di Gorizia) Vorrei chiedere anche se nel vostro ospedale c’è una netta distinzione fra reparti maschili o femminili, oppure se i degenti sono liberi di trovarsi.
BIZZI Lei mi deve specificare la domanda.
PANZINI Sì, se c’è una separazione netta.
BIZZI Sì, nel nostro istituto c’è una netta separazione tra reparti femminili e reparti maschili. Non c’è una comunicabilità; è fatta eccezione soltanto in casi rari dell’anno, quando ci sono feste danzanti o una festa alla quale partecipano ospiti di altri istituti. Ultimamente nel nostro istituto di Colorno abbiamo fatto un incontro con degenti di Reggio Emilia, di Piacenza, di Mantova e questa festa si è svolta nel parco; festa danzante, gare sportive, pranzo all’aperto e allora, soltanto in quella occasione, gli ammalati e le ammalate potevano essere a contatto, discutere, chiacchierare anche con le altre degenti degli altri istituti; comunque nel nostro Istituto c’è una netta differenza.
SIGNOR BATTORTI (di Gorizia) Lei ha parlato prima, rivolgendosi alla signorina Squadra, nostra ricoverata, di terapia avanzata nel nostro ospedale. Cosa intende per terapia avanzata e quale è la vostra terapia?
BIZZI Io non sono un medico, ma sul problema della psicoterapia anche noi cominciamo a capire e ad avere qualche concetto. Lei voleva chiedere cosa intendo per terapia avanzata? Per terapia avanzata io intendo quello che ho potuto constatare qui in questo istituto, mentre nel nostro istituto devo confermare che non siamo a questo punto in merito alla terapia di cui si parla; l’intercomunicabilità tra reparto e reparto sia maschile che femminile come c’è qua. Noi siamo venuti infatti per apprendere, per imparare; non siamo venuti qui con la presunzione di dire, insegnare, dare dei consigli. Abbiamo fatto questo viaggio con altri quaranta infermieri, superiori, tecnici ed amministratori, perché abbiamo sentito in altre sedi, e ve lo dico io personalmente, dal ministro della Sanità Mariotti, che se si vuole capire quali sono gli sviluppi e dove naturalmente sono più messi in pratica, è in questo istituto.
Ecco uno dei motivi perché ci siamo sobbarcati di fare questo viaggio, in questa stagione, per venire a vedere.
Se lei vuole altri chiarimenti…
SIGNOR MONTINI (degente di Gorizia) C’è un bar nel vostro istituto a Colorno?
BIZZI Qui c’è la nostra collega che può dare chiarimenti in merito.
SIGNORA CAMPANINI (infermiera di Colorno) Nel nostro istituto per ora siamo sprovvisti di un bar per degenti. Avete chiesto cosa intendiamo per terapia avanzata?
Per terapia avanzata io intendo il rapporto nuovo tra medici, infermieri, ammalati, partendo dal rispetto della personalità di ogni singolo membro della comunità.
Nasce senz’altro da questo rapporto la presa di coscienza dell’ammalato di essere ancora parte integrante della società.
La cosa che mi ha profondamente stupito è che nel vostro ospedale da anni avete abolito i mezzi contentivi.
Permettete la mia meraviglia; ma nel mio reparto agitate (ora sala Chiarugi) le ammalate di notte con mezzi di contenimento sono circa in diciotto. Ecco perché vorrei sapere, come vi comportate in caso di eccitamento grave?
SIGNOR GHIOTTO (infermiere di Gorizia) Soprattutto con una grande preparazione che ci è stata insegnata, poi con una grande disponibilità verso l’ammalato e offrendo allo stesso condizioni che in altri ospedali non sono possibili.
BASAGLIA Ha detto giustamente Ghiotto; ciò che conta è una grande disponibilità dell’infermiere verso l’ammalato e mi pare che la risposta sia in sé esauriente. Quando infatti l’infermiere parla della disponibilità verso l’ammalato, mette a fuoco il punto più importante e dà la risposta più adeguata a spiegare come mai non esistono mezzi di contenzione. Forse però sarebbe il caso di chiederci che cosa vuole dire questo concetto di «disponibilità», e mi pare utile soffermarci su questo termine che il nostro infermiere ha così acutamente colto.
CAMPANINI Ad esempio quando un ammalato è aggressivo, autolesionista, basta la comprensione dell’infermiere? Le sue premure, le sue parole? Io non riesco a rendermi conto di come tutto ciò sia sufficiente.
SIGNOR MINARDI (infermiere di Gorizia) Noi qui siamo tutti uniti; in casi eccezionali, quando proprio non se ne può fare a meno, allora portiamo l’ammalato nel reparto ancora chiuso, che voi avete visto, dove ci sono cure più efficaci nel senso di isolamento ed altre cure.
In caso di estremo bisogno c’è sempre questo reparto chiuso, dove l’ammalato viene maggiormente isolato.
SIGNOR BALDASSI (infermiere di Gorizia) Signorina, una sera è entrato qui un ammalato con “delirium tremens”. Per tenerlo un po’ a dovere, perché non si facesse del male, eravamo in tre o quattro infermieri ad assisterlo per tutta la notte. Ma a noi non è neppure passato per la mente di legarlo. Comprende? Perché se non eravamo in numero sufficiente in tre, si chiedeva l’aiuto di altri infermieri in modo da proteggerlo e stare attenti che non sì facesse del male. Ecco perché non occorrono le camicie di forza; perché penso che quattro di noi possano tener testa a un ammalato, sia pure agitato.
CAMPANINI Comprendo le sue considerazioni che ritengo giuste. Da noi comunque nessun infermiere si permette di assicurare un ammalato, di metterlo in contenzione, senza l’ordine del medico.
BALDASSI Intende dire metterlo in contenzione? Ma qui da noi ormai credo sia una cosa già tanto remota che non passa per la mente nemmeno di conoscere, nemmeno di sapere come si fa a mettere in contenzione. Penso che qui non verrà mai più una cinghia, chiamiamola così.
BASAGLIA Vorrei aggiungere qualcosa a proposito di quello che ha detto il nostro infermiere; il nostro ospedale non è tutto aperto; ci sono due reparti chiusi e ci ha detto che se un ammalato presenta una determinata pericolosità viene mandato al reparto chiuso, dove ci sono terapie «più efficaci» e un maggior isolamento. Io inviterei il nostro infermiere Minardi a descriverci questo reparto chiuso.
MINARDI Il reparto chiuso consiste nel fatto che non dispone di porte aperte, e in secondo luogo gli ammalati non possono fare quello che vogliono come fanno negli altri reparti; dunque sono sempre sotto sorveglianza, più e come meglio degli altri reparti. Per questo intendo che è un reparto chiuso, dove c’è un sistema più rigido di terapia.
BASAGLIA Spieghi meglio cosa intende per terapia «più efficace».
MINARDI Non so… con iniezioni, pastiglie…
BASAGLIA Lei ha fatto una affermazione e dovrebbe chiarirla. Deve spiegare meglio cosa intende per terapie più efficaci. Vorrei sapere cosa sono queste terapie.
MINARDI Una terapia più efficace è sempre un sistema per rendere un ammalato innocuo a base di iniezioni, credo. Io non posso dire quali iniezioni bisogna fare. Noi non leghiamo l’ammalato, noi facciamo una iniezione e dorme. Però il reparto è chiuso, noi siamo tranquilli perché l’ammalato dorme, invece negli altri reparti possono andare fuori anche dopo l’iniezione.
BASAGLIA Allora è pura e sola sorveglianza?
GHIOTTO Da quello che ha detto Minardi pare che la sorveglianza ci sia solo nei reparti chiusi. Anche negli altri reparti c’è sorveglianza, ma abbiamo più da assistere; c’è cioè più assistenza. In quanto alle cure sono sempre le stesse sia nel reparto aperto che nel reparto chiuso. Ma negli altri ci sono le porte aperte. Appunto per questo ci deve essere più assistenza. Ma la sorveglianza del reparto chiuso è data solo dalle porte chiuse.
BATTORTI Vorrei delle spiegazioni più chiare. Se il reparto è chiuso e l’ammalato è dentro non significa per questo che ci sia solo sorveglianza. La parola sorveglianza fa pensare al fatto che noi siamo come dei guardiani. Non possiamo in sei sorvegliare settantasei ammalati come abbiamo noi nel reparto C; per cui se viene data una iniezione perché l’ammalato possa dormire e viene data esclusivamente dal medico, l’ammalato dorme quelle sei-sette ore, si sveglia, chiede da mangiare.
DOTTOR SLAVICH (Gorizia) Io sono appunto quel medico di cui parla l’infermiere Battorti, il medico del reparto chiuso.
Minardi è un infermiere del reparto chiuso, ed ha espresso dei pareri personali su quelli che ritiene debbano essere i metodi migliori per curare un ammalato nel reparto chiuso. Mi pare che, implicitamente, abbia anche detto questo, Minardi: che ritiene che nei reparti aperti si possano sì curare dei pazienti, però quando uno è proprio ammalato va nel reparto chiuso.
Ora questo è vero fino ad un certo punto, e per molti aspetti non è vero per niente; il reparto chiuso esiste, però tende ad essere chiuso anche nel senso che non ci vanno degli altri ammalati. Questo è uno sforzo notevole che sta facendo l’ospedale, sforzo che l’ospedale deve fare, se vuole in qualche modo risolvere il grosso problema che è il reparto chiuso. Da tre mesi circa si è deciso di non inviare nel reparto chiuso altri pazienti e, viceversa, si tende a mandar fuori dal reparto chiuso tutti i pazienti che possono stare altrove, un po’ alla volta, e si è dimostrato che sono sempre di più di quanto si pensi, tanto è vero che tre mesi fa nel reparto chiuso i pazienti erano centouno, e oggi sono settantasette. Ora, per quanto riguarda i tipi di terapia che sono applicati nel reparto chiuso, vi è da dire questo: per il solo fatto che il reparto è chiuso il tipo di terapia purtroppo diventa un po’ diverso; questo non perché necessariamente per i tipi di pazienti che vi abitano non si possa fare altro, ma solo perché il reparto è chiuso.
Naturalmente, per rispondere alla domanda che faceva l’infermiera di Colorno (e penso che su questo anche Minardi sarà d’accordo), non ci sono neppure nei reparti C mezzi di contenzione. Ci sono delle camerette, nelle quali stanno due pazienti, che in teoria sono a disposizione per i casi di emergenza. E di queste camerette bisogna fare un uso oculato, qualche volta un uso più oculato di quanto non si faccia, nel senso che queste camerette possono venire usate anche quando non dovrebbero essere usate.
Comunque io penso che il problema non sia questo. Penso che un reparto chiuso di settanta persone con un numero di sei infermieri che è relativamente elevato, non dovrebbe preoccuparsi solamente della sorveglianza, della quale si è parlato fino adesso; si dovrebbe in qualche modo cercare di applicare anche nel reparto chiuso tutte le iniziative terapeutiche che si devono anche in quel reparto applicare; questo si comincia a fare, e se non si fa completamente questo è dovuto anche, bisogna dirlo, a delle riserve e alla mancata disponibilità che ci sono da parte di molti, sia degli infermieri che dei medici. Se qualcosa non si fa è perché ancora non si è pronti per farlo; ma io penso che lo si possa fare anche per il reparto chiuso.
BATTORTI In che modo non siamo preparati a farlo? Il numero elevato degli infermieri in che modo lei lo vede elevato? Oltre che la sorveglianza, l’infermiere del reparto chiuso che compiti ha? Queste sono tre domande.
SLAVICH I compiti che ha un infermiere risultano dalla cultura terapeutica che si è creata nell’ospedale, e non c’è nessuna ragione che essa debba essere diversa nei reparti chiusi rispetto ai reparti aperti. Su questo io penso che siano tanto più d’accordo gli infermieri del reparto chiuso, in quanto loro stessi e, giustamente, molto spesso (questo credo sia un problema di interesse anche per gli infermieri di Parma) hanno lamentato la posizione secondaria che verrebbero ad avere gli infermieri del reparto chiuso in un ospedale aperto.
Secondo me il compito dell’infermiere del reparto chiuso è identico a quello del suo collega del reparto aperto, ma forse reso più difficile e quindi più meritorio dalla chiusura del reparto; ciò quando uno si ponga ad esplicarlo con piena disponibilità.
Per quanto riguarda il numero degli infermieri, noi sappiamo benissimo che nel reparto chiuso C è concentrato il maggior numero dei grossi problemi, specie quelli derivanti dai pazienti che dànno dei problemi. Sono problemi di ordine geriatrico, medico, di riabilitazione; quindi ci sono un po’ tutti i problemi dell’assistenza psichiatrica ospedaliera. Quindi mi pare molto giusto che proprio in quel reparto lavori un maggior numero di infermieri rispetto agli altri reparti.
SIGNOR TOMMASINI (assessore provinciale di Parma) Vorrei fare qualche domanda agli infermieri di Gorizia. Premetto che a Colorno nel nostro ospedale psichiatrico vivono circa 1000 ricoverati – uomini e donne – e tutti i reparti sono chiusi.
Quello che avviene a Colorno l’ho riscontrato anche in altri ospedali psichiatrici; anche qui i reparti sono chiusi; aggiungerò che in questi reparti, anche se un po’ meno di prima, è ancora purtroppo vigente l’uso dei mezzi contentivi.
Nei vostri reparti chiusi, tali li chiamate, in realtà ci sono mezzi contentivi? Nei vostri reparti aperti l’ammalato come è trattato? come vive la sua giornata?
Permettete altre due domande:
L’ammalato è veramente libero di uscire ed entrare nel reparto? E’ libero di partecipare o meno alle riunioni della comunità?
SIGNORA CARLI (ricoverata O.P.P., Gorizia) Qui nel nostro ospedale si è in molti che si lavora, e anche nei nostri reparti aperti abbiamo la massima libertà. Siamo anche a contatto con i nostri amici sia sul lavoro come nelle altre ore della giornata; come la domenica al ballo, al sabato al cinema; siamo sempre assieme. C’è proprio una fratellanza fra di noi e anche quelle poche che non lavorano, lo fanno perché proprio non possono lavorare o a causa dell’età o a causa della malattia. D’altronde anche loro se la passano discretamente bene, perché quando fa bel tempo possono andare in giardino e magari anche fino al parco o verso la colonia, insomma c’è modo di passare il tempo; poi abbiamo qui la biblioteca con molti libri; ogni quindici giorni portiamo molti giornali illustrati per i reparti e poi c’è l’assemblea della mattina che ci porta via un’ora della giornata, poi durante la settimana, insomma cerchiamo di passarla il meglio possibile. Per quelli che lavorano abbiamo anche un orario fisso: per esempio dalle 8 sino alle 11,30; dalle 13,30 fino alle 16,30. Queste sono le ore di lavoro; c’è il riposo a mezzogiorno e poi alle 16,30 il lavoro finisce, abbiamo la cena alle 17,30, dopo incomincia subito la televisione e si può stare qui fin tanto che uno ha piacere, perché la televisione è giù nel soggiorno. Chi ha piacere rimane lì, chi no va a riposare. Poi abbiamo diversi giochi: si gioca a tombola, qualche volta a carte. Insomma è una vita di famiglia la nostra da quando abbiamo il nostro direttore, tanto che anche quelli che si sentono bene, per motivi giuridici o per altri motivi familiari non possono uscire di qui, non sentono troppo il peso della clausura perché in fondo abbiamo una vita libera come di famiglia. Questa è una grande famiglia e nient’altro che una grande famiglia.
CAMPANINI C’è un’ora stabilita per il riposo la sera?
SIGNOR BIANCHI (degente di Gorizia) No, l’ora è fissata solamente quando è ora di aprire il dormitorio, alle 7,30 della sera.
Un medico di Gorizia passa la parola ad un degente di Gorizia dei reparti aperti, il quale può dare una risposta più esauriente su come la comunità terapeutica passa la giornata.
PANZINI Nel reparto A noi abbiamo le camere aperte tutto il giorno; possiamo andare a riposare a qualunque ora e anche la notte sono aperte. Si può andare al bar dalle sei alle ventuno, poi si ritorna al reparto e chi vuole gioca a carte. Volendo si può stare alzati fino all’una e alle due, nessuno obbliga di andare a letto.
DOTTOR PIRELLA (Gorizia) Io mi preoccupo di solito, quando ci sono questi dibattiti, che non ci siano errori o disturbi di comunicazione; talvolta cioè si fanno delle affermazioni che sono senz’altro vere ma poi c’è il rischio che vengano interpretate in modo diverso. Un primo esempio: diceva l’amico assessore Tommasini che dal dibattito non emerge con chiarezza il fatto che il degente può lasciare il reparto e girare per il giardino senza dire niente a nessuno. Questa è una cosa che noi diamo un po’ per scontata, ma non è scontata; in altri ospedali questa possibilità di libero movimento del paziente non c’è.
Un altro esempio: le variazioni di orario, di abitudini, che ci sono tra un reparto e l’altro sono dovute alla storia dei reparti; ogni reparto ha una storia, una storia nel senso che per esempio il reparto in cui lavora il nostro amico infermiere Poiana, è stato il primo ad essere liberalizzato e in cui si sono attuate per la prima volta, nel nostro ospedale, delle modalità di comunità terapeutica, e questo può giustificare il fatto, ad esempio, che ci sono i dormitori aperti, che ci sono abitudini molto più libere. In ultimo volevo dire anche questo: la maggior parte dei reparti ha delle riunioni, oltre all’assemblea generale ci sono delle riunioni di reparto. E’ ovvio che ogni problema di convivenza nel reparto, il problema degli orari, il problema del movimento, il problema di un paziente che per esempio non osserva alcune regole di convivenza vengono appunto dibattuti durante queste assemblee. Io penso che se queste assemblee non ci fossero sarebbe molto più difficile attuare una libera disponibilità di movimento dei pazienti. Per esempio l’amico Panzini ha detto che nel suo reparto talvolta si rimane alzati fino all’una o le due dopo mezzanotte a giocare a carte. Questa è certamente una possibilità; però se ad un certo punto ci sono delle proteste per cui certi degenti si lamentano ad esempio del chiasso che è stato fatto durante la notte, ecco che nel corso dell’assemblea di reparto si discute il problema e si può prendere una decisione comunitaria sul fatto in discussione.
BALDASSI Io vorrei chiedere al dottor Slavich, perché non ho capito, se qualche volta si chiudono le porte delle camerette nel reparto chiuso. Seconda domanda; vorrei chiedere questo: se tutti quei pazienti che sono al reparto chiuso, parlo del reparto maschile, devono veramente stare in quel reparto oppure se hanno delle possibilità di vivere anche altrove.
SLAVICH Per quanto riguarda la prima domanda posso rispondere così: nella équipe terapeutica di reparto che comprende il medico, gli infermieri e adesso, da un po’ anche un’assistente sociale, c’è qualcuno che pensa che si debbano chiudere le porte delle camerette, le quali qualche volta venivano chiuse, anche se da molto tempo in pratica non vengono più chiuse.
Per quanto riguarda la seconda domanda vale la risposta di prima, e cioè già in questi ultimi tempi una ventina almeno di pazienti del reparto C sono andati negli altri reparti aperti; io penso che nella fase attuale solo un piccolo numero ancora non è sufficientemente preparato per poter stare in un reparto aperto, ma anche di coloro che ancora sono al C, moltissimi, potrebbero cambiare reparto.
Dice qui l’infermiere Dizorz che negli altri reparti aperti adesso non c’è posto; quindi l’unica soluzione è quella di tendere ad aprire anche il reparto C.
BASAGLIA Vorrei chiedere all’infermiere Minardi se è d’accordo su quanto ha detto il dottor Slavich circa i mezzi di protezione e sulle terapie dei reparti chiusi.
MINARDI Io sono d accordo perché le terapie le fa lui. Io non posso mettermi al posto del medico e fare io le terapie, io sono d’accordo sul fatto che non si chiudano le camerette e che gli ammalati vengano isolati, anche senza chiudere la porta.
BIANCHI Io vorrei che lei fosse più chiaro su quanto ha detto prima, cioè che si faccia una puntura e che il paziente dorma; io non ho mai saputo che qui dentro esista un metodo tale; si tratta una bestia così, almeno così la vedo io…
SLAVICH A proposito di errate comunicazioni o di comunicazioni distorte, alle quali accennava il dottor Pirella: prima si è parlato di cinque infermieri alle prese con un paziente che aveva un “delirium tremens”; bisogna spiegarci bene per evitare equivoci, tanto è vero che qualcuno diceva: «beh! se eravate in cinque bella forza!» Credo che possa risultare illuminante raccontare un po’ l’episodio per vedere come si possa risolvere un problema di questo genere. Erano le dieci di sera, e io ero medico di guardia, quando è entrato con la Croce Verde un paziente dall’Ospedale di Monfalcone, che aveva avuto due giorni prima un incidente stradale; ne aveva riportato un rene rotto, tre costole rotte, una gamba rotta e una contusione cranica; e in seguito come spesso avviene dopo un trauma, essendo un alcoolista, ha avuto una crisi di “delirium tremens”. Nonostante tutte queste lesioni era molto inquieto, e non stava fermo un minuto, cosa particolarmente nociva date le lesioni interne che aveva. Ora, che cosa è successo? gli infermieri di notte erano due, c’era un terzo che faceva la guardia dormita, ma si è pensato che tre persone per tutto il reparto e con questo nuovo problema, non fossero sufficienti, quindi si è dovuta chiamare un’altra guardia dormita di un altro reparto; quindi erano in quattro gli infermieri in reparto, di cui due stavano al capezzale del paziente parlando, parlando, parlando, finché ad un certo punto il paziente non era più così inquieto, straparlava sì, però stava relativamente immobile, senza necessità di ricorrere a mezzi contentivi, senza bisogno che cinque persone lo stessero a tenere. I cinque infermieri sono venuti fuori così; dato che si trattava di guardie dormite che stavano in piedi, a metà della notte essi si sono dati il cambio e altri due infermieri sono subentrati; così cinque o addirittura sei infermieri hanno avuto a che fare a turno con il paziente, però al suo capezzale erano sempre in uno o due.
BOCCHI (vicepresidente dell’Amministrazione provinciale di Parma) Io vorrei, per rendermi conto dell’importanza soprattutto nella vita della comunità e quindi nella cura dei pazienti oltre che dei sanitari e dei medici, quella degli infermieri, avere maggiori chiarimenti sul modo (già è stato detto sommariamente) con cui gli infermieri tengono il paziente nel reparto, soprattutto in questi reparti aperti, e in particolare se gli infermieri sono sempre gli stessi, cioè come si sentono in relazione alle esperienze che possono derivare da altri sistemi, da altri ospedali che qui sono stati citati. Vorrei fossero chiarite le loro funzioni nella partecipazione attiva alla cura del paziente in tutti gli aspetti, oltre a quelli più propriamente di cure mediche.
La seconda domanda che può chiarire maggiormente a chi di comunità terapeutica sente parlare e che oggi abbiamo avuto il piacere di vedere (però non di viverla evidentemente, in così breve lasso di tempo): quale funzione ha una gerarchia, se esiste una gerarchia. Io ho già avuto la sensazione nelle domande, nel sentire parlare di équipe di comunità, nel sentire soprattutto parlare di riunioni, di gruppi, di comunità di reparti, di ospedali nel loro complesso, che sarebbe interessante sapere quale è la funzione di tutto ciò, come queste regole, queste norme vengono applicate o non applicate sempre e anche in modo diverso, da che cosa scaturiscono e quale è la partecipazione a tutti i livelli, dal paziente al direttore dell’ospedale.
Pongo ora la terza domanda: quale, e mi rivolgo in particolare soprattutto ai sanitari, quale è l’effetto di questa parte, quale preponderanza o meno ha questa parte di vita comunitaria nella cura delle malattie.
SIGNOR PECORARI (capo infermiere di Gorizia, risponde alla prima domanda) Gli infermieri sono sempre quelli, si alternano nei turni soltanto in occasione di assenza o per malattia o per ferie; allora si mandano anche negli altri reparti infermieri che siano qualificati in quel genere di reparto.
Qui noi abbiamo infermieri anziani che sono stati preparati già prima, hanno dato una buona collaborazione per questo ospedale così aperto in quanto noi… dovrei rifarmi indietro un po’, al fine di spiegare meglio. Quando noi abbiamo aperto questo ospedale si facevano le ventiquattr’ore, quando poi è stato fatto il turno delle otto ore sono stati assunti circa venti infermieri, sono stati chiamati dei giovani preparati con un corso svolto nell’ospedale. Aprendo questo ospedale il direttore quando ha voluto aprire i reparti, ha trovato un terreno buono sul personale anziano, c’era una certa collaborazione; comunque la responsabilità se la è presa il direttore e noi dobbiamo dire che è andata bene. Nel primo momento in cui è stato aperto l’ospedale il direttore ha fatto delle riunioni prima coi capi reparto poi con gli infermieri, poi ha chiesto anche i pareri e il primo reparto aperto è stato quello dei lavoratori dove c’erano già pazienti che uscivano dal reparto per andare a lavorare. Poi ha fatto l’esperienza di aprire quel reparto cosiddetto terapeutico: ha preso dei gruppi di ammalati che erano in altri reparti e li ha messi là ed il reparto è stato aperto con cinquantasei posti e due infermieri per turno. Situazione che è rimasta tuttora invariata. La domanda era questa: se gli infermieri sono sempre quegli infermieri. Sì, quelli di cui si parlava prima ad esempio sono sempre quelli; non è che siano due infermieri tutti i giorni, in sostanza sì, però uno dei due è sempre fuori ad accompagnare i malati, ne resta uno solo. In certi momenti il reparto resta sprovvisto di personale e può capitare di telefonare nel reparto e chi viene a rispondere può essere un ammalato. Con questo però vi dico che il reparto va bene.
Per rispondere ancora sempre a quella domanda dirò che nel reparto chiuso, ad esempio, abbiamo circa diciotto infermieri e sono sempre gli stessi che si alternano. Può capitare che alcuni di questi vadano in altri reparti, ma solo in caso di sostituzione temporanea. Tutto il personale qui è stato preparato appositamente per questo genere di ospedale aperto. Non vi diciamo, cercate di aprire anche i vostri. Mi permetta di dire, signor direttore, che forse noi ci siamo spinti anche un po’ troppo in là, ma siccome il nostro direttore è un pioniere, per questo credo che si tiri avanti. Non per fare un elogio al nostro direttore, ma bisogna che siano direttori come il professor Basaglia per fare una cosa di questo genere.
TOMMASINI Quanti ammalati avete nel vostro ospedale? quanti nei reparti aperti e quanti nei reparti chiusi?
PECORARI Uomini: 77 nel reparto chiuso, 181 nei reparti aperti; donne: 100 nel reparto chiuso e 180 nei reparti aperti.
TOMMASINI Chiariamo bene il concetto di reparto aperto. Per reparto aperto intende reparto dove l’ammalato può uscire quando vuole, andare nel parco quando vuole, andare al bar quando vuole?
PECORARI Sì, intendiamo tutto questo. Anzi io devo dire che con questo genere di ospedale invece di invogliare gli ammalati ad uscire li si invoglia a restare dentro, perché qui si sta bene, perché qui nessun ammalato è costretto a fare questo e quell’altro; qui sono liberi.
TOMMASINI L’ospedale è tutto contorniato dalle mura?
PECORARI Otto anni fa è stata fatta una muraglia; prima era una siepe.
La muraglia è stata fatta contro la volontà del direttore di allora, tuttavia chi viene dentro non ha l’impressione del carcere, qui c’è una libertà assoluta. Anche come ho detto prima un po’ troppo, ma realmente noi dobbiamo dire che questo esperimento della libertà è andato bene. Devo dire ci è andata bene, tenendo presente dove siamo.
TOMMASINI Il numero attuale degli ammalati è in aumento o in calo rispetto a cinque anni fa?
PECORARI E’ diminuito di circa una trentina; questo per gli uomini; circa altrettanto per le donne.
BALDASSI Siccome Pecorari ha la parola, vorrei chiedergli se la mura di cinta (chiamiamola muraglia in quanto noi la vediamo di malocchio) è stata fatta per volere degli amministratori provinciali oppure per volere dei sanitari di allora?
PECORARI Ho detto già contro la volontà del direttore è stata fatta. E’ stata iniziata una muraglia di cinquanta metri perché gli ammalati lavoratori di allora scappavano con molta frequenza dalla siepe di alloro, per andare all’osteria e al bar poco distanti poi non si sa come è stata allungata; noi saremo contenti solo quando questa muraglia sarà abbattuta. Spero che prima che se ne vada il professor Basaglia riesca ad abbatterla.
BOCCHI La seconda mia domanda era questa: mi sembra di avere capito che tutte le norme di vita qui nell’ospedale vengono decise dalle riunioni, cioè dalla comunità; in queste riunioni si discutono tutti gli ordini, le disposizioni eventuali che venissero al di fuori delle decisioni prese dalle riunioni di gruppo o di reparto o di comunità?
Le riunioni che voi fate possono mettere in discussione le decisioni ad esempio che vengono dalla direzione?
PECORARI Sì certo, tutto può essere messo in discussione. Qui si discute di tutto e in molte cose deliberano i pazienti stessi: una delegazione di ammalati è stata anche mandata in provincia a parlare col presidente.
BOCCHI Dunque posso concludere in questo modo questa risposta e questa mi riguarda anche dopo che il direttore ha detto se la Provincia poi tiene in considerazione o no le decisioni prese dagli ammalati.
BASAGLIA Ma bisogna vedere se la Provincia prende o no in considerazione anche i consigli della direzione dell’ospedale.
BOCCHI Questo mi porta a fare una certa conclusione, proprio perché sono amministratore della Provincia e non sono neanche direttamente interessato al settore dell’ospedale perché non sono assessore delegato a quel settore e quindi mi interessa indirettamente, quando i problemi vengono portati in Giunta e discussi collegialmente; molto spesso ritengo di non dare il contributo che dovrei o potrei dare anche nella soluzione dei problemi che vengono posti non dico dalla comunità, perché da noi non esiste, non dico neanche dai ricoverati perché tra noi e loro esiste un diaframma, ché l’ospedale è chiuso, ma qualche volta anche dalla direzione o dalle organizzazioni stesse dei lavoratori, sindacati, commissioni interne. Quindi io vorrei concludere, e vorrei essere confermato o meno con tranquillità in questo, che la vita dell’ospedale è regolata da una partecipazione collegiale di tutta la comunità dalla direzione all’ultimo paziente.
BASAGLIA Quando la Giunta deve decidere qualcosa che è stata proposta dai degenti o dalla direzione, essendo stato tutto questo precedentemente discusso in riunioni di comunità (non trattandosi quindi di questioni di vertice ma di base) l’approvazione o meno è seguita con la stessa ansia sia dalla comunità che dai medici.
BOCCHI Direi che l’ideale quindi che scaturisce da questo è che alla partecipazione della vita della comunità viene inserita la stessa amministrazione, la stessa Giunta, sempreché questa abbia la stessa ansia nell’accettare, nel respingere, discutere, approvare o meno che hanno i componenti della comunità. Questo mi sembra veramente l’ideale come amministratore, non solo come amministratore ma come uomo, che si può dare alla vita di un particolare settore della società nostra quale questo.
La domanda quindi che credo rivolta particolarmente ai medici è questa: quale peso, in quale misura questo è proporzionato alla cura generale del paziente ricoverato? cioè quale contributo dà questo modo di vita, di elaborazione delle norme di vita della partecipazione alla comunità così collegiale da parte di tutti nel ristabilire un tenore di vita sano, migliore nei pazienti? Quale peso terapeutico ha questo nei confronti delle altre cure che qui sono state un po’ a proposito e forse a sproposito accennate in qualche domanda e in qualche risposta precedente?
SIGNOR ZANELLI (degente dell’O.P.P. di Gorizia) Essendo liberi, siamo responsabili del compito che dobbiamo assolvere, quindi si fa il possibile di essere amici con tutti, di non scappare, di non commettere malegrazie.
BOCCHI Mi sembra che questo, (non sono medico oltre a non essere interessato direttamente), sia già una parte della risposta, cioè questa sia già una cura, già un miglioramento: un inserirsi nella vita che viene trasferita dall’esterno all’interno, proprio nel configurarla il più confacente alla vita normale che fuori si conduce, quindi si ristabilisce una personalità in ognuno, con le proprie responsabilità e lei diceva in noi ricoverati, di non scappare, poi quella di seguire tutti i consigli dei medici, quella di seguire le cure, tutto quello che viene indicato. Poi c’è un’altra parte della risposta che potremo definire scientifica e quella spetta al medico.
BASAGLIA Qui l’amico Zanelli, che è un degente, ha dato una risposta direi pertinente, come era pertinente quella dell’infermiere Ghiotto quando ha detto che la disponibilità è la nostra più importante arma terapeutica. Zanelli ha messo in evidenza un fatto essenziale: che al centro della comunità terapeutica e della terapia di questa comunità sta la «responsabilizzazione». Noi qui nella comunità siamo presenti, programmaticamente, allo stesso titolo. Cioè medici, infermieri e malati agiscono nel campo ospedaliero tutti allo stesso livello: nel senso banale del termine sarebbe una bugia, perché io sono un medico, l’altro è un infermiere e l’altro ancora è un degente. Però siamo allo stesso titolo nel momento in cui cerchiamo di operare tutti nella stessa direzione, cioè verso un unico, determinato scopo terapeutico. Questa mi sembra sia la grossa scoperta della comunità terapeutica, che poi è l’uovo di Colombo perché l’azione che ci si sforza di fare nelle nostre famiglie (quando non ci sia un padre o una madre troppo autoritari) è esattamente quella che cerchiamo di stabilire nella nostra comunità; una certa democratizzazione familiare che si prefigge un armonico sviluppo dei figli nell’ambito di un armonico sviluppo di ciascuno dei componenti la famiglia. Con ciò non si vuole dire che seguiamo i malati come bambini (il che sarebbe proprio la negazione del nostro scopo), né che loro ci vedono come dei padri castratori: però esiste sempre un rapporto particolare tra degenti, medici ed infermieri per cui si riconosce a tutti e tre i livelli, il diverso livello tecnico, pur essendo tutti presenti allo stesso titolo nell’ospedale nello scopo unico verso cui si tende.
Noi medici sosteniamo di essere solo un punto di riferimento per gli ammalati, cioè tendiamo a non essere fonti di autorità (sottolineo tendiamo perché, naturalmente siamo ben lontani dall’aver raggiunto questo stadio), perché conosciamo come il potere, cioè l’esercizio del potere come espressione della compensazione della nostra ansia, agisce nei confronti del malato come l’azione la più antiterapeutica. Infatti si instaura un circolo chiuso: se ad esempio la Provincia esercita un determinato potere su di me come suo subalterno, io lo esercito di rimando sui miei collaboratori, i miei collaboratori sugli infermieri e gli infermieri sui malati. Ora, se l’autorità amministrativa è l’espressione anche dei pregiudizi che sussistono nella nostra realtà nei confronti della malattia mentale, e se vogliamo veramente rompere questa catena di aggressività, noi medici non possiamo scaricare la nostra sugli infermieri, solo perché l’autorità la scarica su di noi per le nostre esigenze; né gli infermieri sui malati. Naturalmente non possiamo sostenere di agire costantemente in questi termini, tuttavia questo è il nostro problema: tendere ad un determinato livellamento, pur sapendo che non sarà facile e forse possibile raggiungerlo, dato che io non posso svestirmi della mia figura di medico (anche se non indosso più deliberatamente e quindi simbolicamente il camice), così come gli infermieri continuano ad essere infermieri, con divisa o senza; i malati, malati. Per questo è mistificato, come spesso si sente, chiamare i pazienti «ospiti» (e noi stessi l’abbiamo fatto); è una bugia che ci diciamo per sfuggire alla nostra e alla loro realtà. Noi siamo medici di ospedale psichiatrico, come i malati sono dei ricoverati in tale istituto. L’importante è mutare la realtà che questi termini rappresentano e non mistificare le parole. Per questo direi che un’altra fondamentale premessa su cui si fonda la comunità terapeutica è la sincerità che può essere anche dura talvolta; ma se si cade nella menzogna, prima o dopo la si paga. Io – in questo momento – mi trovo in imbarazzo con un malato cui ho detto una bugia, perché mi pareva di non avere altre vie di uscita. Questo malato ha rifiutato la vita comunitaria ed ogni volta che me lo trovo di fronte, mi ricorda quello che ho fatto nei suoi confronti e sono costretto a continuare a mentire, negando di avere mentito. Questo malato è la mia realtà e la mia verità insieme perché è il testimone sempre presente dei miei errori. Per questo non è possibile mentire di fronte al malato o di fronte all’infermiere e reciprocamente, perché l’assemblea di comunità agisce come una verifica costante per tutti.
Riassumendo, concluderei che la comunità terapeutica è una comunità in cui tutti tendono ad un determinato livellamento, anche se non si sa se si riuscirà a raggiungerlo, ma già in questo tendere sta la nostra situazione terapeutica fondamentale.
TOMMASINI Una domanda che ritengo indispensabile al fine di permettere agli infermieri di Gorizia e a quelli di Parma di fare uno scambio sul loro lavoro è la conoscenza dell’importanza che ha nella vostra terapia il rapporto infermiere-medico, infermiere-medico-ammalato. Ritengo infatti importante comprendere il significato di questo rapporto con l’ammalato in un ospedale psichiatrico rinnovato nei metodi di cura come il vostro. Un mio amico medico di Parma, in occasione di una discussione sull’impressione mia della visita fatta tempo fa a Gorizia, mi disse che non condivideva questa impostazione: perché? Perché l’Ospedale di Gorizia deve essere un ospedale, mi diceva, deve essere un ospedale psichiatrico, perciò un ospedale dove si curano solamente gli ammalati con le medicine; inutile trasformare l’ospedale in una pensione, in un albergo. Io vorrei sapere nel modo più chiaro possibile, perché voi avete trasformato il vostro ospedale, rendendolo completamente diverso da tutti gli altri ospedali italiani? Quali risultati immediati avete ottenuto e quali risultati in prospettiva pensate di ottenere?
BALDASSI Io penso che quel medico non sia uno psichiatra. Anche qui a Gorizia forse c’è qualcuno, sempre medico, che la pensa come il suo amico, che ritiene cioè non sia una cosa buona il metodo usato qui perché ritiene sia un albergo. Ma che cosa intende quel suo amico per albergo? Io penso che gli ammalati, piuttosto che farli vivere in un manicomio, sia meglio farli vivere in un albergo, dal momento che in un albergo si può stare meglio, si può girare, si possono fare cose che in un manicomio tradizionale non si possono fare. Io preferisco vedere gli ammalati sguinzagliati piuttosto che in contenzione, in celle. Dal momento che devono rimanere in ospedale, penso che sia molto meglio farli vivere così, all’aperto, amici con noi, vivere una vita comunitaria, cioè come ha detto il direttore, di tendere ad un livellamento tra medici, direttore, infermieri, pazienti.
BIZZI Vorrei un chiarimento dal collega Baldassi. Lo scambio di vedute tra l’assessore Tommasini e lei pone un altro argomento su questa particolare questione: ed è questo. Si dice da parte di qualcuno (affermazione che io naturalmente non condivido) «ma se allora si creano degli ospedali psichiatrici in questo modo andrà a finire che nessuno vorrà uscire, vorrà dire che aumenteranno i pazienti anziché diminuire, perché rendiamo loro la vita comoda e alberghiera».
BALDASSI Ma noi abbiamo visto come un momento fa ha detto il nostro capo che il numero dei degenti è diminuito da cinque anni a questa parte; una trentina di uomini e penso che saranno senz’altro di più, poi più donne dal momento che le donne sono in maggioranza rispetto agli uomini. Allora non è vero che questo si trasforma in albergo che induce gli ammalati a rimanere dentro. Noi prima abbiamo premesso che qualcuno preferisce rimanere dentro, ma qualcuno, e questo non fa la regola, l’eccezione non fa la regola.
BIZZI E’ una domanda che io ho fatto perché di riflesso la risposta servisse a convincere gli altri e domani coloro che non sono presenti. Purtroppo sentiamo anche da persone che rivestono funzioni molto più importanti dal lato professionale, che sono in atteggiamento negativo, o se non negativo, per lo meno riservato, ecco perché avevo posto questa domanda.
BALDASSI Le nostre riunioni comunitarie al mattino, alle dieci, registrano una presenza di circa cento ammalati, ma io vorrei chiedere agli ammalati chi è contento di rimanere qui dentro. Io penso che uno solo potrà risponderci positivamente e quindi cade la faccenda dell’albergo.
BIZZI Vorrei sentire qualche ammalato in proposito a questo problema.
SIGNOR SOMMI (infermiere dell’O.P.P. di Colorno) Vorrei rivolgere una domanda al direttore. Io sono presidente della Commissione interna di Colorno, vorrei sapere se nelle iniziative che vengono prese tramite la direzione, i rappresentanti del personale, la commissione interna, sindacati che sia, sono partecipi a queste iniziative Chiedo che sia il direttore a rispondermi.
BASAGLIA Rimanderei la domanda a qualcuno della Commissione interna. Se è presente qualcuno pregherei di rispondere.
INFERMIERA DI GORIZIA Nessuno meglio di lei, professore, può sapere se lei ci fa partecipe di quello che riguarda la vita sindacale.
BASAGLIA Alla domanda dell’infermiere Sommi se la Commissione interna viene informata prima che le decisioni vengano prese, o se viene informata successivamente devo dire che per quello che riguarda le questioni sindacali, i rapporti con la Commissione interna sono quelli che penso saranno un po’ dovunque. Per quello che riguarda le iniziative che sono state prese fin dall’inizio, i rapporti con la Commissione interna sono stati piuttosto discontinui; cioè non c’è sempre stata una presa di posizione reciproca.
SOMMI Per quello che riguarda le riunioni di gruppo anche noi a Colorno abbiamo cominciato a farle da un paio di mesi o tre e anche noi abbiamo impostato questo sistema. Fra i malati che fanno capo a questa comunità, vi sono quelli che capiscono meno e quelli che capiscono di più. Naturalmente gli svantaggiati sono quelli che capiscono meno e la parte migliore può sempre far valere meglio la propria ragione.
BASAGLIA Intanto vorrei chiedere: che cosa intende per quelli che capiscono di più e quelli che capiscono di meno?
SOMMI Naturalmente quelli che capiscono di più vogliono fare andare le cose a modo loro.
BASAGLIA Guardi, io le ho fatto una domanda specifica. Che cosa intende lei quando dice «quelli che capiscono di più e quelli che capiscono di meno?» Vuole dire forse gli idioti e gli intelligenti?
SOMMI Naturalmente tra gli ammalati ci sono questi e quelli. Questo può influire sull’esito delle riunioni?
BASAGLIA Direi che influisce nella stessa misura in cui influisce in una riunione di comunità esterna. Lei vada in una caserma e faccia una riunione di comunità: anche lì ci sono quelli che «capiscono» e quelli che «non capiscono», quelli che tendono a prevaricare e quelli che non tendono a prevaricare. Direi che è una situazione tipica della nostra società: la nostra società – così com’è – è impegnata a cercare continuamente un capro espiatorio. E come lei trova il suo capro espiatorio, l’ammalato dell’ospedale psichiatrico tenta di trovare il suo. Quindi non troverei alcuna differenza fra le riunioni di comunità e quelle di qualunque altro istituto: caserma, collegio, consiglio. Credo che anche gli assessori di una giunta cerchino il loro capro espiatorio.
SOMMI Io ho fatto la domanda semplicemente perché ho sentito qualche cosa in merito.
BASAGLIA No, siccome lei ha cercato di mettermi al muro io le rispondo dimostrandole quanto sia reale la tecnica del «capro espiatorio». Stiamo facendo il gioco della verità e lei deve chiarire quando dice «ho sentito qualcosa».
Per lei la dinamica della nostra riunione è questa: ci sono dei malati più furbi che capiscono, dei malati meno furbi che non capiscono, quindi i furbi riescono ad avere la meglio.
Questo è il suo punto di vista?
SOMMI No, io ho chiesto se questo qui può verificarsi.
BASAGLIA Certamente che può verificarsi, perché si verifica anche nella sua vita privata, e allora direi che la riunione di comunità è del tutto simile ad una riunione di comunità di partito, di caserma, di collegio.
SOMMI No, io non sono d’accordo a paragonarla ad una riunione di partito o di chicchessia.
BASAGLIA Se lei non pensa così me lo dimostri. Io le ho dimostrato che nella società in cui viviamo tendiamo sempre a trovare il capro espiatorio. D’altra parte è quello che lei ha fatto con me quindi adesso mi dimostri che non è così.
SOMMI Non è che io non voglio dimostrarlo è che io la penso così. Secondo il mio punto di vista la vedo così, posso anche sbagliarmi.
BASAGLIA Lei ha affermato che se nella riunione di comunità c’è quel malato che capisce o più furbo che tenta di prevaricare su quello meno furbo, l’ospedale rimane diretto dai pochi furbi e i poveri scemi ubbidiscono. Io le dico sì, può essere benissimo così, ma le ripeto che questa situazione si verifica anche all’esterno.
SIGNORINA GEROMETTA (infermiera di Gorizia) Con la comunità terapeutica non si dovrebbe cercare di evitare questo? L’ammalato più scaltro ha, in questo modo, sempre la meglio. Ma chi deve soccombere ci rimette le penne.
BASAGLIA Sì, questo è giusto. Per questo ci sono i medici e gli infermieri. Ma i medici e gli infermieri non devono prendere un atteggiamento di autorità dicendo «tu che capisci devi stare attento a chi non capisce». Noi dobbiamo solo dialettizzare la situazione comunitaria: se c’è quello più furbo che tenta di prevaricare dobbiamo mettere in guardia quello meno furbo; e dialettizzare la situazione significa essere presenti in modo tale che sia il furbo che il meno furbo possano avere un ruolo dialettico.
BOCCHI Un esempio l’abbiamo avuto stamattina. Questa mattina è stato fatto lo spoglio di due elezioni e evidentemente abbiamo sentito parlare di una elezione più democratica e di una meno democratica. Vorrei sapere: in quella meno democratica, cioè quella annullata, deve pure esserci stato qualcuno che ha prevaricato, c’è stato qualcuno comunque che non l’ha fatta funzionare come si deve; vorrei sapere se questo può essere uno degli elementi dialettizzanti della situazione, cioè degli interventi della comunità di chi ha una responsabilità ad altro livello.
PIRELLA Vorrei dire una cosa che si riallaccia sia a quanto detto dall’infermiera Gerometta sia anche a questa ultima osservazione fatta dal vicepresidente della Provincia di Parma, e cioè anzitutto che l’osservazione dell’infermiera è stata fatta ora in una riunione in cui si discute della validità della situazione comunitaria, e in un certo senso investe la situazione comunitaria con una critica di fondo. Ritengo che la signorina Gerometta possa fare, nel corso delle assemblee generali, un intervento che moderi o critichi quello che a lei è parso un difetto. Se lei, o qualche altro, ha colto questo inconveniente, questo difetto di fondo, può benissimo intervenire, ogni volta che abbia notato un eventuale atteggiamento di oppressione di degenti su altri degenti. Un intervento che valga a riportare il rapporto su un piano di realtà può limitare eventuali danni che potessero derivare da una prevaricazione, da una oppressione.
Per quello che riguarda le elezioni direi che non c’è stata una prevaricazione di qualcuno: c’è stata semplicemente una elezione in reparti chiusi, ovviamente scarsamente comunitari o meno comunitari di quelli aperti, e popolati da degenti meno capaci di esprimere in modo autonomo la loro opinione. In un primo tempo le elezioni erano state fatte in una maniera che è stata poi ritenuta non valida perché non segreta.
In un secondo tempo sono state fatte in un modo più dettagliato, lasciando ad ogni degente la possibilità di esprimere autonomamente il proprio voto.
Vorrei insistere su questo punto e cioè sulla necessità ed opportunità di esprimere opinioni perché le critiche di fondo possono anche essere utili, ma, come diceva il professor Basaglia, dovrebbero entrare in una dialettica, non dovrebbero essere tenute, per così dire, nel fondo del proprio cuore, ed essere invece fatte circolare in discussione; perché è sugli argomenti concreti, è nella situazione concreta che è possibile confrontare le opinioni e migliorare poi la situazione.
CAMPANINI Vorrei fare una domanda: se in un ospedale strutturato come il nostro, cioè a monoblocco, vi sarebbe possibile applicare una terapia quale la vostra o per lo meno che si avvicini?
BASAGLIA La domanda che lei ha fatto mi sembra molto importante perché mette a fuoco la situazione generale degli istituti psichiatrici. Si pensa che gli ospedali psichiatrici possano migliorare cambiandone l’architettura: il Ministero della Sanità è cioè molto preoccupato di come si devono fare gli ospedali perché pensa che la costruzione architettonica possa influire sulla terapia psichiatrica. Io personalmente credo si possa fare della buona psichiatria in qualunque posto, anche in un vecchio ospedale, anche a monoblocco, perché quello che conta è il rapporto col malato, la disponibilità di cui parlava Ghiotto e la responsabilizzazione di tutti i partecipanti.
CAMPANINI L’ambiente in cui viene ospitato il degente in un tipo di costruzione vecchia presenta un inconveniente: il degente cerca di ricoverarsi il più tardi possibile. Se invece esiste un ambiente più bello, rinnovato, o addirittura nuovo, il degente si ricovera in tempo, ai primi sintomi, ai primi disturbi. Qui abbiamo degli esempi di degenti che si ricoverano spontaneamente, cioè volontariamente: si fermano il tempo necessario alla loro degenza. Però capita spesso, che medio e lungodegenti, per carenza di posti, debbano essere trasferiti ad altri reparti dove le condizioni ambientali sono meno confortevoli.
Il nostro reparto A è stato rinnovato da un anno circa. Quando i degenti sono trasferiti ad altri reparti vanno via a malincuore perché le strutture degli altri reparti sono completamente diverse da quelle del reparto accettazione. Quindi io credo che in un certo senso influisca anche l’ambiente.
SIGNOR BINI (infermiere di Colorno) Vorrei fare una domanda a nome di un mio collega che mi ha dato l’incarico. E’ una domanda che credo sia di carattere sanitario che non collima con la discussione di ora. Mi diceva questo collega in quale modo un tipo di ammalato, un alcoolista, viene ricoverato e poi dimesso, se questo tipo di degente ha un particolare trattamento e come ne consegue la sua dimissione. Forse la struttura dell’ospedale può portare questi tipi di ammalati volontariamente al ricovero?
BREGANT Abbiamo formato appositamente, da poco tempo, un piccolo reparto. Abbiamo cercato di adottare dei sistemi nuovi; ci si adattava giorno per giorno alla situazione del momento. Qual è lo scopo per cui è stato costituito questo reparto? Lo scopo era di mettere insieme persone che avessero gli stessi problemi da risolvere, persone che cercando di discutere questi problemi fossero messe di fronte alla realtà. Questo reparto è completamente aperto, e tutti i lavori, tutto quello che riguarda le attività interne ed esterne, vengono svolti completamente dai degenti: la preparazione del vitto, delle stoviglie, lavori di traforo, attività ricreative. Ma la cosa più importante è che i permessi vengono discussi in comunità di gruppo. Ogni degente può usufruire di uno o più permessi settimanali.
Un degente prima di avere un permesso, mette in discussione la sua situazione e sottopone agli amici i motivi per i quali chiede il permesso; loro poi discutendo vagliano il caso. Più importante ancora, mi sembra sia la discussione di gruppo circa la eventuale dimissione dei degenti stessi. Io credo che loro stessi vedono quando un degente è pronto ad affrontare la vita sociale, cioè si rendono conto se lo stesso è riuscito a superare quei problemi che lo hanno condotto al ricovero. Quindi non si tratta tanto, per l’alcoolista, di un periodo di degenza per la disintossicazione, quanto della possibilità di risolvere quei problemi sociali, familiari che spesso lo conducono in precarie situazioni. Mi sembra che questo in linea generale possa essere esauriente per il collega che mi ha rivolto la domanda.
Un chiarimento dal lato sanitario lo potrà dare il professore o il dottor Pirella circa l’ingresso e la dimissione di questo particolare degente.
PIRELLA Vorrei dire una cosa che credo possa essere utile: noi abbiamo notato una modificazione importante nell’atteggiamento dei pazienti in generale, ma degli alcoolisti in particolare verso l’istituto dalle prime degenze alle successive. Ad esempio un alcoolista che ha bisogno di più degenze in ospedale per eventuali ricadute successive ad un primo periodo di degenza nella nostra comunità e particolarmente nel reparto comunitario degli alcoolisti, ha un atteggiamento verso l’istituzione che non aveva la prima volta, entra spontaneamente ad esempio, si presenta spontaneamente in ospedale o addirittura in reparto perché riconosce di essere ricaduto. In generale l’atteggiamento del paziente verso l’istituto viene significativamente modificato dalla situazione comunitaria, non è un atteggiamento di paura, non è un atteggiamento di rifiuto ad essere accolto, ma è un atteggiamento di richiesta di essere accolto. Non si può dire, come è stato detto, che i pazienti non vogliano tornare a casa e stiano volentieri qua, questo non mi risulta, però si può dire che i pazienti quando si rendono conto in qualche modo di aver bisogno di ritornare, non fanno drammi e si presentano spontaneamente o comunque accettano l’invito ad essere ricoverati. Questo direi che è una cosa molto significativa della nostra struttura ospedaliera che facilita ovviamente di molto, a questo riguardo, sia il compito dei medici, degli infermieri, sia il rapporto tra gli stessi e i degenti.
SIGNOR PINCETTI (infermiere di Gorizia) Volevo chiarire una cosa che toccava sia il discorso del nostro capo infermiere, sia il dottor Slavich e di conseguenza anche il vostro vice presidente.
Il signor Pecorari qui ha detto che gli infermieri sono sempre gli stessi nei propri reparti; ecco, questa è la risposta che volevo dire a lei, il cambio è limitato, perché essendo sempre gli stessi infermieri il cambio da un reparto all’altro è limitatissimo. Il dire, come ha detto il nostro capo infermiere, che questi infermieri che vengono messi nei vari reparti sono specializzati è una cosa assurda, perché tutti gli infermieri, sia i giovani che i vecchi hanno un titolo di studio di licenza media normalmente, poi fanno il corso nell’ospedale stesso, quindi la cultura infermieristica è sempre la stessa per tutti. Varia certamente se uno per conto suo studia, si approfondisce, quindi la specializzazione da un reparto all’altro non esiste. Siccome si è iniziata l’apertura dei reparti gradualmente, è logico che sono andati quei dati tipi di infermieri per cui in verità specializzazione non ne esiste.
La sensibilità, vero dottore? e la disponibilità dell’infermiere, c’è sempre secondo noi, anche se sembra che lei non lo creda. La deficienza di disponibilità nel nostro reparto forse c’è stata più da parte dei medici, in un certo senso. Perché? negli altri reparti, dall’inizio dell’apertura si sono istituiti dei comitati, delle riunioni tra il medico e l’infermiere che provocavano discussioni: nel reparto C queste non ci sono mai state. Questo rapporto tra medico-infermiere è già da cinque anni che c’è, quindi c’è una maturazione che non esiste invece nel reparto C. Non si può pretendere che dopo cinque anni alla distanza di sei mesi da quando un dottore ha preso questo reparto C in consegna, con quattro, cinque o anche venti assemblee, si possa portarlo allo stesso livello degli altri reparti che hanno già una vasta esperienza di cinque anni di rapporto tra medico e infermiere. In fondo la mancanza di sensibilità non è, come diceva lei, da imputare tutta all’infermiere.
DARDI (architetto, risponde alla domanda dell’infermiera di Colorno relativa alla possibilità di adottare una adeguata terapia in un ospedale strutturato a monoblocco) Ho cominciato ad interessarmi di ospedali psichiatrici guardando gli esempi nel mondo, soprattutto in Italia, e ho capito abbastanza che quello che si vedeva realizzato non erano ospedali psichiatrici, erano carceri, tutto fuorché ospedali psichiatrici. Poi a forza di capire che cosa dovevano essere, ho avuto l’incontro con il gruppo dei medici di Gorizia e finalmente ho scoperto che non esiste un problema di architettura e ospedale psichiatrico; questa è un po’ la mia tesi. Cercherò di spiegarvi il perché. Le idee correnti sono quelle abbastanza diffuse che alla microsocietà che vive all’interno di un ospedale psichiatrico debba corrispondere anche una microarchitettura fatta di piccole case costruite nel verde di carattere rurale, pensando che in questo ambiente astratto dalla collettività e dalla società si possano ricostituire quei rapporti che hanno portato il paziente all’internamento. Viceversa, guardando il problema dagli altri punti di vista, si vede che questo schema non regge ad una critica attenta. Ora dire quale sia la formula esatta per un ospedale psichiatrico è molto difficile, direi che si può dire quello che non deve essere un ospedale psichiatrico; non deve avere cioè né quell’aspetto di casa per una piccola società vista in modo paternalistico né può essere un centro di relazioni troppo complesse al di là delle quali la personalità di un uomo non riuscirebbe a ritrovarsi.
Io credo che esista un rapporto tra architettura e psichiatria come esiste in generale un problema tra l’ambiente e le persone che lo abitano. Gli americani hanno diviso le stanze, gli spazi secondo categorie, dicendo che alcuni favoriscono l’incontro e altri non lo favoriscono, i corridoi lo favorirebbero perché ci si incontra, si cammina, e viceversa certe stanze chiuse e un po’ pesanti sarebbero contrarie alla formazione di questi rapporti interpersonali. Io non credo che si possa definire a priori in quale architettura certi problemi vengono risolti meglio che in un’altra. Certo è che lo spazio come tanti elementi così dall’interno fisico in cui ci troviamo come la natura, come il verde, come i grandi spazi esterni all’edificio ospedaliero possono portare delle note atte a favorire una vita migliore, possono invece creare delle situazioni di carattere carcerario pesanti e difficili; quindi in questo senso sono abbastanza sicuro proprio perché oggi l’architettura, l’edilizia, una ricerca molto attenta di questi problemi ci possono permettere di formare le cose in modo molto aperto, molto ricco, di favorire al massimo lo scambio e il rapporto tra le persone. Esiste la possibilità che l’architettura particolarmente attenta sappia diffondere questi problemi, non esiste però credo una formula assoluta per dire: in questa direzione i problemi si risolvono e in quest’altra non si risolvono. Quindi il modo in cui lei ha impostato la domanda credo sia superato da questa mia affermazione, poiché non esiste la differenziazione se l’ospedale è a monoblocco o no, se sia positivo o negativo a priori, non c’è nessuna garanzia di questo tipo. Dipende dal rapporto che si sviluppa all’interno della collettività che vive in questo ospedale. Certo che una architettura concepita in modo molto ricco, molto aperto può favorire questi rapporti, creare gli spazi atti ad avere l’ambiente favorevole a questo tipo di rapporto e una architettura invece schematica, a celle ripetute in modo ossessivo non può far altro che disperdere e portare al rifiuto di queste cose. In questo senso alla fine io credo che non esista un problema specialistico degli ospedali psichiatrici, ma esiste un problema di una buona architettura che, come nel caso dei buoni collegi, dei buoni convitti, dei buoni alberghi, anche dei buoni ospedali creerà degli spazi armonici e viceversa una architettura molto schematica non farà altro che ridurre tutto questo in celle e alla fine non avrà risolto i problemi che si proponeva all’inizio.
BOCCHI Vorrei porre ancora una domanda non all’architetto, ma probabilmente ai medici e comunque anche alle assistenti sociali e agli infermieri. Richiamavo questo paragone della riproduzione della microsocietà, e ciò in particolare oggi non è stato ancora oggetto di una aperta discussione. L’assistenza postospedaliera: che cosa avete fatto in merito, che cosa fate, soprattutto per quanto concerne il grave problema dopo la dimissione dall’ospedale e dell’inserimento nella società di chi lascia l’ospedale?
SIGNORINA BUDIN (assistente sociale di Gorizia) Per quello che riguarda l’assistenza extraospedaliera io posso dire che noi abbiamo un servizio di igiene mentale funzionante tutti i giorni tranne il sabato, e l’igiene mentale viene effettuata in questo modo: può venire chiunque, sia persone inviate dal medico che ex degenti, è aperto a tutti ed è gratuito. Noi facciamo delle riunioni di gruppo, queste però da poco tempo; prima l’igiene mentale veniva fatta dal medico individualmente e veniva poi segnalato all’assistente sociale se c’erano dei problemi da risolvere ad esempio nei rapporti familiari o altri di cui si occupa di solito l’assistente sociale. Ora invece facciamo dei gruppi, il medico e l’assistente sociale si riuniscono e si discute per circa un’ora con i pazienti che sono ex degenti mandati da medici o venuti spontaneamente a queste riunioni; sono invitati anche i familiari e si parla dei loro problemi. Questa riunione dura circa un’ora e poi il medico vede i pazienti assieme all’assistente sociale o separatamente per dare delle indicazioni più specifiche, di carattere medico (la cura da mantenere) o di carattere sociale (indicazioni particolarmente di enti a cui rivolgersi ).
Queste riunioni secondo me sono molto utili, almeno dal mio punto di vista, perché mentre il medico o l’assistente sociale possono dare dei consigli che sono sì ad un livello tecnico ma sono anche umani, il paziente che porta un problema da discutere può anche lui dare dei consigli sperimentati. Questo per quanto mi riguarda.
Volevo poi dire che durante queste riunioni di gruppo, riunioni che si sono sviluppate in questi ultimi tempi, si evita «la grossa ricaduta» di qualche paziente, perché quando questi viene all’igiene mentale si nota che è alterato o che non sta bene o che ci sono dei gravi fattori sociali che lo rendono ansioso e possono aggravare il suo stato di salute. Lo si consiglia quindi di ricoverarsi, parlandone, evitando così i ricoveri drammatici.
BASAGLIA Vorrei rispondere all’amico dell’assessore Tommasini il quale temeva che la comunità terapeutica fosse un mondo chiuso in sé che al massimo può diventare un bell’albergo o un pensionato.
Da un certo punto di vista il pericolo della comunità terapeutica è proprio quello di diventare una gabbia dorata in cui tutti si trovano incarcerati, compresi i medici e gli infermieri. Ad un certo momento c’è bisogno di ossigeno ed occorre uscire dalla situazione chiusa. Noi tuttavia siamo in una situazione in cui non sentiamo ancora questa necessità – dico non ancora perché la nostra organizzazione comunitaria non ha raggiunto un livello comunitario reale, completo. Non appena lo raggiungerà, però, allora la comunità terapeutica dovrà rompersi ed uscire nella comunità esterna. In ciò sono quindi d’accordo con l’amico dell’assessore Tommasini che, in caso non accada, la comunità terapeutica fallirebbe il suo compito. Il compito della psichiatria oggi è cioè quello di ridimensionare gli ospedali psichiatrici, nel senso di renderli comunità vive, reali e quindi terapeutiche. Ma l’importante è che, una volta raggiunta una determinata fase di assestamento, si sia pronti a distruggere l’equilibrio raggiunto, per uscire da quello che può diventare un nuovo sistema chiuso. Questo sarà il secondo momento dell’organizzazione psichiatrica, però il primo passo non può non essere il riassestamento degli ospedali da dove è partita l’immagine orrenda del malato mentale chiuso, legato, mortificato.
Se alle nostre spalle non avremo prima smitizzato la figura del malato mentale e quella del suo ospedale, la paura di un ricovero agirà sempre negativamente sui malati che ci accingeremo a curare in centri mandamentali esterni, perché noi saremo sempre, ai loro occhi, i medici cattivi che legano e terrorizzano i malati all’interno degli ospedali.
SIGNOR ROSSI (infermiere dell’O.P.P. di Colorno) Gli ammalati, i denari che hanno a disposizione possono spenderli personalmente o sono controllati? Hanno delle somme stabilite dai medici o dagli infermieri? O i loro denari sono amministrati dall’economo?
BASAGLIA A me spiace molto che dobbiate andare via perché fra mezz’ora c’è la riunione del Comitato nel quale si discuteranno questi problemi. I denari che vengono dati ai malati vengono spesi come meglio credono e qui ci sono delle prevaricazioni talvolta, perché si gioca a carte e si perdono delle somme relativamente considerevoli, cioè ognuno può fare quello che vuole con i suoi denari.
SIGNOR ANDRIAN (infermiere dell’O.P.P. di Gorizia) Io vorrei dire qualcosa, così come noi abbiamo superato quelle difficoltà per arrivare dove siamo arrivati, vincendo in parte i pregiudizi che sono in noi e che ancora sussistono, faccio l’augurio che anche voi di Parma facciate uno sforzo in questo senso e che vediate diversamente l’ammalato, non con il pregiudizio (cioè che vada curato in un ambiente chiuso) ma che possa essere curato anche in un ambiente dove c’è una certa liberalizzazione, dove la personalità sia rispettata.
BOCCHI Abbiamo soltanto il dispiacere di dover partire perché giustamente questa mattina durante la visita un medico ci diceva che per capire fino in fondo la comunità bisogna sentirla parlare e vederla e poi viverla, e avremmo veramente voluto che questa nostra visita si trasformasse, per lo meno, in un periodo seppur breve di vita della comunità.
Noi non abbiamo parole per ringraziarvi, d’altra parte i convenevoli credo che non siano necessari al dibattito e poco utili. Il dibattito che c’è stato, la franchezza direi, il modo e la franchezza con il quale è stato affrontato, le cose che, seppur non approfondite però sono emerse e in particolare l’augurio che ci è venuto da molte parti, non dico di seguire soltanto il vostro esempio, ma di far sì che possiamo anche noi con il nostro ospedale, con la nostra assistenza più generale nel campo provinciale, avere risultati e successi è la cosa migliore che resta in noi. Credo che, anche a nome di tutti gli altri portiamo un ricordo che per il momento è ancora così, probabilmente incapsulato da un certo choc che vive e che ha vissuto per un lungo periodo in una situazione che direi sotto alcuni aspetti non ha limiti di paragone, per lo meno se non nei fini dichiarati e qualche volta neanche sempre voluti della cura dei pazienti che ci sono affidati; certamente nella rimeditazione, nell’impegno che d’altra parte è già stato detto anche stamattina sta a dimostrarsi un po’ la mezza avventuretta del viaggio fatto nel modo come noi l’abbiamo fatto, credo sia un impegno che si ripeterà e noi ci auguriamo di avere altre occasioni e vorremmo anche farci l’augurio di avere un giorno la possibilità di avervi da noi con qualche realizzazione che possa essere degna di essere considerata.
Ancora grazie a tutti, alla direzione, al personale tutto, ai ricoverati che ci hanno dato, credo, uno dei contributi più validi.
IL LAVORO RENDE LIBERI?
Commento a due assemblee di comunità dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia
di Antonio Slavich e Letizia Jervis Comba.
Alcuni problemi posti dal lavoro dei ricoverati nelle istituzioni psichiatriche, e dalla retribuzione di questo lavoro, sono stati argomento di discussione per le due assemblee di comunità svoltesi il 7 e 9 gennaio 1967, alle quali hanno partecipato pazienti, medici ed infermieri; se ne trascriverà integralmente la registrazione commentando i passaggi che sono sembrati di maggior interesse.
Non è molto usuale che le persone più direttamente interessate al problema – i pazienti lavoratori – si trovino a discuterne insieme: ma non vi è alcun dubbio che il lavoro, anche se sotto forma di «ergoterapia», sia vissuto dal paziente come un importante punto di riferimento della sua vita quotidiana ospedaliera; un punto di riferimento nel quale egli spesso finisce per investire un valore e un significato che trascendono quelli propriamente terapeutici. E, dalla parte delle istituzioni, da sempre è stato fatto non poco perché il lavoro del paziente assumesse una posizione centrale, e alla fine insostituibile, nella loro struttura. Nel secolo diciannovesimo, in epoca prepositivistica, il lavoro faceva già parte dei principi del trattamento morale del paziente negli ospedali, allora aperti; poi l’orientamento ufficiale della psichiatria positivistica mutò, al riguardo: ma non per questo molti pazienti cessarono di collaborare con la loro attività silenziosa, nel chiuso degli ospedali; e infine, per opera soprattutto di “H. Simon” (1929) una quadrata ideologia medica propose una rivalutazione del lavoro nelle istituzioni psichiatriche, reinvestendovi un valore «terapeutico»; con “Simon”, esso è divenuto un mezzo di «terapia più attiva» del malato, uno specifico per ricostruirne e riplasmarne la personalità attraverso varie tappe scalari di attività lavorativa. Da allora l’«ergoterapia» è in ogni ospedale psichiatrico. Mutuando l’ideologia ergoterapica la psichiatria asilare postsimoniana ha agevolato una suddivisione in classi dei pazienti che ne venivano in contatto: da un lato coloro che ai riteneva possibile curare con altri mezzi, per restituirli al più presto «reintegrati» alla società; poi quelli che rimanevano rinchiusi come oggetti passivi di assistenza, e coloro, infine, che avrebbero riacquistato lentamente la loro libertà “all’interno” dell’ospedale, lavorando nella – e per la – istituzione, reintegrandosi ed adattandosi in tal modo alla microsocietà istituzionale
E’ molto probabile che alla base delle contraddizioni inerenti al lavoro dei ricoverati stia il tentativo di stabilire una equazione fra due entità – lavoro e terapia – che per almeno un aspetto appaiono irriducibilmente incommensurabili. Infatti l’attività lavorativa del paziente da un lato può essere un’azione sociale più o meno spontanea, e in quanto tale principalmente terapeutica; dall’altro però essa è sempre reale forza lavorativa, energia prodotta, che può essere alienata solo o con un libero contratto o con un atto di imposizione. Dinnanzi a questa contraddizione la istituzione è sempre ambigua, perché ha bisogno contemporaneamente di entrambe le caratteristiche del lavoro: del suo aspetto terapeutico per mobilitare la partecipazione attiva del paziente alla interazione terapeutica, e del suo esser sempre anche forza-lavoro, per muovere e tenere in vita il funzionamento del meccanismo istituzionale. L’etica prevalente non consente all’istituzione di scambiare dichiaratamente il lavoro con la prestazione terapeutica o assistenziale (e poi, come attuare questo scambio se il partner del contratto non esiste in realtà, dato che è privato, per definizione, della sua libertà?); l’istituzione non può quindi che identificare i due termini del problema: dunque il lavoro “è” terapia. Le idee di “H. Simon” si rivelano subito risolutive: con il lavoro-terapia il malato riacquisterà la sua libertà, lavorerà senza contratto per essere in grado di stipulare ancora un vero contratto di lavoro, ma una volta reso libero, in un futuro non precisabile.
Il lavoro rende liberi, dunque? Nelle due assemblee sono accennati molti tentativi di risposta a questo interrogativo implicito, talora contraddittori, che spesso dimostrano una presa di coscienza ancora assai parziale; soprattutto sarebbe inutile cercarvi una risposta negativa, una chiara denuncia o, meno ancora, espressioni «toccanti» di autocommiserazione: anche perché non è questo un discorso obiettivo e distaccato “sul” lavoro in ospedale, bensì, nella massima parte, un discorso “dei” pazienti lavoratori; un discorso fatto all’interno del sistema, dunque: e la sua logica richiama spesso esplicitamente le ferree regole logiche imposte dalla istituzione totale.
L’occasione per la discussione è data da un problema contingente che, considerato da una posizione esterna, può apparire marginale: la somma destinata alla retribuzione del lavoro in ospedale è stata spesa e superata, e si è creata in tal modo una situazione deficitaria; grava sui pazienti la minaccia di una diminuzione della «paga» settimanale; si discutono le cause del deficit e i provvedimenti da prendere.
Il commento vuole tenersi lontano da qualsiasi inutile agitazione polemica, limitandosi a sottolineare, via via che emergeranno dagli interventi, gli aspetti generali più significativi (anche nei riflessi teorici) di un problema che è certo presente in tutti gli ospedali psichiatrici. Si cercherà inoltre di collegare fra loro gli interventi che sembrano esprimere analoghi punti di vista, e di sottolineare infine alcuni movimenti dinamici della assemblea, nel momento in cui si confronta con questi problemi.
[Seguono i testi degli interventi e del dibattito sviluppatisi nel corso della seduta (in tondo e numerati progressivamente). Gli stessi sono intercalati dal commento di Antonio Slavich e Letizia Jervis Comba (in corsivo e preceduto dallo stesso numero dell’intervento, della battuta o delle battute cui fa specifico riferimento)].
COMUNITA’ 1.
Sabato, 7 febbraio 1967.
Presenti alla seduta:
68 degenti
8 infermieri
5 monitori
4 assistenti sociali
1 psicologo
5 medici
Tutti i nomi dei degenti sono fittizi.
1.
SIGNORA BASSANI Io avevo pensato, siccome la paga diversi la percepiscono anche tre, quattro, cinque mesi senza lavorare, ed è ingiusto che prendano via a uno che lavora come a uno che non lavora, se il lavoro non rende; e in più non abbiamo lavoro, non c’è lavoro, questo lavoro che abbiamo noi nel nostro reparto e negli altri reparti in diversi punti manca; e allora ho pensato così: quelli che hanno sulle 300, 400 lire di fare metà, una specie di disoccupazione continua fino a che non venga lavoro certo, e poi se viene il lavoro, riprende la paga di prima: io credo che sarebbe una cosa giusta con la quale si potrebbe anche risparmiare appunto le 25 mila lire che ci mancano: tra quelle e quelle si fa un resoconto giusto, perché sono duecentosettanta malati che prendono la paga, e mediante questo credo che arriveremo a levar fuori queste 25 mila lire, dato che siamo in deficit. E’ una cosa certo non bella quella che dico, e non parlo per rabbia perché io non ho mai avuto una paga, parlo realmente perché ci si trova in difficoltà in tutti i modi, non si può andar avanti così. Il dottor Tesi ha fatto facile lui le cose, quando uno insisteva sull’aumento qui si alzava la mano «facciamo 200 di più, va bene, la paga è fatta». Questo è stato sbagliato per conto mio, perché in generale lavorano quelli che lavorano, a quelli che non lavorano si dà una specie di disoccupazione, torno a dire, perché anche fuori un operaio che non lavora e che rimane a casa tre, sei mesi di seguito, finché ha la cassa malati ha 1000 lire, anche 800, poi gli fanno 600, anche 300 prendono i disoccupati, conforme che pagano; e a mio modo di pensare, in generale l’unica cosa da fare è così: fare una paga base uguale a tutti quelli che non lavorano, a quelli che lavorano certo bisogna dare, ma anche bisogna vedere il lavoro che fanno, il rendimento che dànno, quello che fanno, perché va bene, come il nostro direttore dice, che è una specie di terapia, ma una terapia fino ad un certo punto, e quando ci si trova in difficoltà di trovare questi soldi e di poterci mettere a posto di nuovo, credo che il mio modo di pensare sia questo. Adesso dite voi, è giusto o è sbagliato?
COMMENTO 1.
1. Siedono dietro al tavolo della presidenza tre degenti: un presidente, il signor Massi, una presidente, la signora Bassani, e la segretaria, signorina Danieli.
Queste cariche vengono designate con modalità variabili, non di rado per acclamazione, e durano una settimana. A volte, ma non spesso, le cariche vengono rinnovate per varie settimane di seguito: ciò si verifica quasi sempre quando vi è un dibattito di particolare importanza, che si protrae per un lungo periodo di tempo. Attualmente la presidenza è alla sua quarta settimana.
In questo primo intervento della presidente, che riassume un punto di vista abbastanza diffuso fra i pazienti (confronta “comm. 6” ) sono contenuti alcuni riferimenti impliciti all’organizzazione del lavoro terapeutico nell’ospedale, che può essere utile chiarire brevemente per la ulteriore comprensione del testo.
I pazienti che lavorano sono attualmente circa duecentosettanta (in numero quasi eguale fra uomini e donne) su cinquecentotrenta presenti; erano circa ottantacinque anni or sono, e tutti lavoravano ai «servizi generali» dell’ospedale, o alla pulizia dei reparti, o nella colonia agricola. Un incremento assai rapido del numero dei lavoratori, fino a raggiungere pressocché il livello attuale, si è avuto già nei primi due anni, quando la necessità di smuovere la stagnante situazione asilare ha imposto come una delle prime iniziative quella di mobilizzare in qualche modo il grande numero dei pazienti affondati nel vuoto motivazionale della routinaria vita quotidiana nel reparto. La uscita del paziente dai reparti ha rappresentato la prima tappa per la concreta apertura dei reparti stessi; e il suo recarsi sul lavoro, svincolato dal rapporto di custodia, la prima alternativa offertagli sulla via di una liberalizzazione dei suoi rapporti interpersonali all’interno dell’istituzione. Insieme con questi lati certo positivi, l’avvio di un così rilevante numero di pazienti a una attività ha comportato notevoli problemi, ed ha forse anzi accentuato alcune delle contraddizioni del lavoro terapeutico nella istituzione. I luoghi e le caratteristiche del lavoro sono rimasti in grande misura gli stessi; in molti casi è rimasto immodificato il tipo di rapporto tra il leader istituzionale (infermiere-operaio addetto ai servizi) e l’agglomerato, solo più numeroso e ipertrofico, di individui più o meno attivi. Sono, sì, iniziate delle attività industriali (gruppi di lavoro imperniati sulla presenza di un monitore, che eseguono prestazioni commissionate da piccole industrie locali: impagliatura sedie, confezione di bambole, fiaschi, scatole, parchetti, eccetera); ma vi sono attivi attualmente solo quaranta pazienti su duecentosettanta: un numero insufficiente dunque a dare un tono e una impostazione nuovi al lavoro nell’ospedale, e che per di più corre il rischio di istituzionalizzarsi, di assumere cioè molte delle caratteristiche della «ergoterapia» tradizionale in favore dell’istituzione. Un fatto nuovo è rappresentato invece dalla comparsa del denaro come forma di retribuzione: questa era in origine corrisposta in natura, sotto forma di tabacco o altro, per lo più solo agli uomini, e certo non a tutti i pazienti lavoratori; la introduzione del denaro contante come unica forma di retribuzione, la maggior perequazione fra uomini e donne, e soprattutto la retribuzione di tutti i lavoratori, hanno formalmente e apparentemente sanato alcune delle più stridenti forme di privilegio: ma non hanno certo risolto le contraddizioni della ergoterapia ospedaliera, e sotto alcuni aspetti le hanno anche accentuate. La somma a disposizione per i compensi è progressivamente aumentata da meno di uno a 6 milioni annui; e la retribuzione media settimanale per paziente da un valore minimo, difficilmente precisabile, a 480 lire settimanali (distribuite al sabato, in busta paga nominativa, sul luogo di lavoro). La contraddizione maggiore è rappresentata appunto da questa cifra media, che nasconde divari tra le 100 e le 1300 lire settimanali: la retribuzione non ha fatto che sancire una gradualità di valore tra le varie attività, lontana in definitiva sia dalla valutazione terapeutica sia da quella economica del lavoro ospedaliero. Si sono così riproposti gli squilibri fra le diverse carriere retributive; l’intervento medico, teso fin dall’inizio ad una generica giustizia distributiva («innanzitutto la paga a tutti») non è certo riuscito, a meno di interventi autoritari rifiutati per scelta, ad impedire il riproporsi di tali squilibrii.
Essi hanno avuto origine in un primo tempo dalla concorrenza fra i diversi gruppi, rappresentati paternalisticamente dal relativo infermiere; in un secondo tempo principalmente per la iniziativa liberistica dei singoli pazienti, forti della loro efficienza sul lavoro per la istituzione, al di fuori di qualsiasi contrattazione in gruppo. Il riconoscimento e la valutazione delle istanze di aumento erano devoluti in un primo tempo a una ristretta commissione formata esclusivamente da personale sanitario (un medico ed un infermiere) senza partecipazione dei pazienti; la parziale dissoluzione della struttura gerarchico-burocratica alla quale hanno teso via via le iniziative comunitarie ha reso possibile, con l’avvio delle assemblee comunitarie, che le istanze fossero proposte al giudizio di tutti: ma non per questo le contraddizioni, come si vede dall’intervento della presidente, si sono risolte. Una ulteriore difficoltà è data dalle attività discontinue, in relazione alle fluttuazioni dell’offerta di lavoro da parte delle industrie locali; è questa la «disoccupazione» cui si fa cenno: la logica economica, ma non quella terapeutica, imporrebbe la sospensione della retribuzione nel periodo della temporanea mancanza di lavoro. L’avvio di nuovi pazienti in nuovi gruppi di lavoro richiede poi, ovviamente, una retribuzione, la quale facilmente si attesta fin dall’inizio su una base superiore alla media, anche per le più coscienti possibilità «contrattuali» di quei pazienti che da poco, e per breve tempo, si sono inseriti nella nuova situazione istituzionale. Queste, sommariamente, le ragioni «obiettive» del deficit di cui si discute: esso ammonta a 25 mila lire settimanali, ed appare a prima vista recuperabile solo con la decurtazione globale del 20% della cifra destinata dal bilancio ospedaliero ai compensi settimanali.
2.
SIGNORINA DANIELI E’ giusto perché non viene levato via niente, viene quel poco, ma è sempre lo stesso.
3.
SIGNOR LUCCHI Io non voglio che sia levata la paga a chi ha 500 lire, quello non si deve toccare.
4.
DANIELI No, quello era il calcolo del signor Milani, quella era una proposta da rivedere e da eventualmente accettare in parte.
5.
BASSANI Signor Milani, ogni medico del reparto deve fare un controllo esatto, questo deve fare, e chiedere cosa fa quello, cosa fa quell’altro, per arrivare al punto giusto; perché è inutile dire «a quella 300 perché mi fa pena, non ha nessuno»: quando si fa una cosa giusta per tutti, nessuno ha da protestare, perché quel poco lo ricevono tutti, e il mio modo di pensare è giusto perché nessuno può protestare «a me tanto o a lei tanto», oppure «ci dànno tanto, bene quello che prendiamo, tanto non si va a lavorare». Quando viene il lavoro ci torna la paga di prima perché il lavoro rende, rende quel poco, ma insomma rende; per poter rimettere a posto questo mezzo milione dobbiamo fare così e io credo che, nel mio modo di spiegarvi, così è giusto per tutti e nessuno protesta, non dice «quello ha di più, quell’altro di meno».
6.
PROFESSOR BASAGLIA E’ qui Milani?
7.
DANIELI E qui Milani, sì.
8.
BASSANI Milani, crede lei di arrivare alla conclusione di giungere a trovare queste quattro lire?
9.
SIGNOR MILANI Bisognerebbe vedere prima chi non lavora, certo. Chi lavora poco riceve poco, ha 150 lire, 200 massimo; chi lavora invece ha un poco di più.
10.
SIGNOR CIANI Non sono tutti che hanno sempre 150 lire, hanno 300 anche 400, e non lavorano.
11.
SIGNOR MASSI Allora bisogna formare una commissione.
12.
SIGNORA SFILIGOJ Si capisce, formare la commissione e levare via la metà.
13.
SIGNOR PEGORARI Ci sono vari modi di non lavorare, ci sono quelli che non lavorano niente, ci sono quelli che lavorano saltuariamente e quelli che lavorano poco.
14.
BASSANI Bisogna fare un controllo, eh!
15.
PEGORARI Torno a chiedere a lei, chi intende lei veramente che lavori?
16.
LUCCHI Io intendo la cucina che lavorano, perché là è una attività che debbono continuare, la lavanderia poi non si parla, perché anche là lavorano.
17.
SIGNOR VALLI In cucina sono diciotto persone, lì lavorano sì, ma qualche lavoretto, così giusto per passare il tempo.
18.
SIGNOR VISINTIN E con questo? Sono otto ore occupati e devono stare sempre lì.
19.
LUCCHI Ma si vede, quando si va a cercare qualcuno che vada in cucina ad aiutare, non va nessuno, e quindi si vede che il lavoro non è tanto piacevole, allora in cucina non si deve toccare la paga, quelle di 500 in su non dico, ma 500 in giù nessuno deve toccare.
20.
SIGNORA SBRIZZI Allora se sono occupate otto ore quelle della cucina, penso che siano più di otto ore occupati quelli che sono nei reparti, perché lavorano anche quelli tutto il giorno, fanno i letti, le pulizie.
21.
SFILIGOJ Tutto il giorno non si fanno i letti, si fanno la mattina, in un’ora e venti minuti si finisce tutto il lavoro.
22.
VISINTIN Ma tutto il giorno non si pelano le patate.
23.
LUCCHI Ma è più lavoro in cucina che non nei reparti, perché nei reparti ci sono più persone che aiutano.
24.
SIGNOR ORZAN Nel reparto è un lavoro, e quello nell’umidità, nell’acqua, nel vapore della cucina è un altro lavoro.
25.
LUCCHI Ma lei cosa fa?
26.
ORZAN Io non prendo paga niente, io non ho fame, a me non interessa.
27.
LUCCHI Allora perché si interessa degli affari degli altri?
28.
ORZAN Lei non stia a pensare, io nei vostri affari non m’intrigo, ve l’ho già detto.
29.
BASAGLIA Venga qui lei, venga, ci spieghi, cosa deve dire lei riguardo al lavoro?
30.
ORZAN Lui dice che cosa, dice che la paga è la metà, ma l’anno scorso ho dovuto fare andare avanti da solo la caldaia, e chi mi paga?
31.
LUCCHI Sono affari personali che a noi non riguardano.
32.
DANIELI Dunque ritornando all’argomento paghe, cosa vi pare della proposta della signora Bassani, chiedo a voi il parere, cioè quello di dare il sussidio di disoccupazione a quelli che lavorano poco.
33.
MASSI E’ un sussidio continuato?
34.
DANIELI Sì, continuato fino a quando non viene il lavoro. Che ve ne pare?
35.
ORZAN Un momento Sandra, ancora una parola ti dico, io sono sempre andato a protestare che ci aumentino le paghe a tutti quanti, a quelli che lavorano nei servizi generali, e le caldaie sono anche un lavoro dei servizi generali, hai capito? Io sono sempre andato a chiedere aumenti di paga per tutti i servizi generali e per te anche e non parlare che io ho chiesto di calarti la paga per darla a me. Io sono andato sempre a protestare di aumentarti la paga.
36.
VOCE E’ andato via.
37.
DANIELI E’ andato via perché sa che ha torto.
38.
BASSANI Noi non ci siamo trovati mai in una situazione così scabrosa, speriamo che il nostro signor direttore ci possa risollevare da questo impiccio.
39.
DANIELI Il direttore non può fare niente, purtroppo. Il direttore è qui per porci davanti questo problema, cari figlioli abbiamo cinquecentomila lire di deficit, copriamolo in qualche modo, come?
40.
BASSANI L’unica cosa è di calare le paghe…
41.
SIGNOR MEDEOT Ma calare le paghe suscita un malcontento perché nessuno è disposto a rinunciare alle 50 o 100 lire, quelli che hanno 1000 lire si sono fatti avanti volontari perché l’eccesso di paga venga dato a favore del deficit.
42.
PEGORARI Si dovrebbe prevedere un accertamento di quei casi…
43.
DANIELI Esatto, sì, questo accertamento viene fatto insieme al signor Milani e una piccola commissione nostra, cioè noi nominiamo due, tre persone che insieme al signor Milani si incaricano di accertare chi lavora e chi non lavora, naturalmente i capireparto sanno chi lavora e chi non lavora, sanno anche quali persone hanno bisogno della paga, quali possono farne a meno perché pensionati, o perché hanno i parenti che li aiutano.
COMMENTO 2.
2-43. In termini espliciti anche se ancora vaghi viene formulato il disagio per la «situazione scabrosa» che si è creata con la minaccia di riduzione delle paghe (38). L’affermazione non è casuale, e si situa in un momento ben determinato di una più lunga discussione, iniziata già nelle precedenti assemblee.
In realtà, il problema della riduzione, formulato nei suoi termini crudi e reali di «necessità», non sembra trovare nell’assemblea una possibilità di sviluppo: si richiede ai pazienti una decisione su un problema che, visto nella loro prospettiva, è pressoché insolubile; esso è fruito dai pazienti come uno pseudo-problema, al quale si attagliano solo pseudo-decisioni, vaghe, imprecisate e non vissute, che vengono a sovrapporsi alla vera decisione – riguardante la diminuzione necessaria – vissuta come già presa e imposta da altri. Il diffuso disagio conseguente a questa contraddizione non dialettizzabile, e la preoccupazione per gli effetti concreti della minaccia della diminuzione, conducono ciononostante a numerosi interventi individuali tendenti a «soluzioni» rassicuranti, che preservino l’integrazione. Si propongono così soluzioni chiaramente “ideologiche” (5, 11, 43) come la richiesta ripetuta di una commissione di controllo che dovrebbe essere in grado di assicurare il perfetto funzionamento del meccanismo comunitario e l’assoluta giustizia retributiva; o soluzioni tipicamente “fantasmatiche” (38, 174), proiettando sul «signor direttore» possibilità di intervento taumaturgico e carismatico; o, infine, soluzioni semplicemente “regressive”, nelle quali si accetta, con apparente spontaneità, la «necessità» della decisione, come naturale nella realtà istituzionale: si accetta quindi di decurtare i salari (1, 40, 43), di valutare criticamente la reciproca produttività (13, 21) ed il valore delle prestazioni altrui, di avallare il grado di priorità dei lavori che la istituzione suggerisce sulla base di criteri produttivistici (16). Si può notare inoltre come la tensione oscilli di continuo tra una vaga tendenza all’autocolpevolizzazione e la ricerca continua di un capro espiatorio, e come finisca per trovarne l’oggetto, momentaneamente, all’interno del gruppo, con manifestazioni d’intolleranza (27, 31, 37). Tutti e tre questi tipi di soluzione (ideologica, fantasmatica, regressiva) forzano d’altra parte la realtà, e trovano prontamente la loro negazione da parte degli stessi pazienti (35, 39, 41).
Se l’assemblea di comunità avesse come esplicito scopo il prendere una decisione su un problema così posto, ogni ulteriore dinamica potrebbe a questo punto arrestarsi, e forse non ci si potrebbe attendere che una rigida iterazione di queste soluzioni apparenti. Ciò in parte si verificherà nei successivi interventi delle due sedute, nella misura in cui il condizionamento istituzionale ostacolerà i pazienti nella presa di coscienza del problema dibattuto.
Ma una riunione di comunità ha uno scopo diverso: in essa problemi e contraddizioni non trovano primariamente una soluzione, bensì appena una possibilità di espressione diretta e in parte non condizionata; vi vengono confrontate le posizioni di copertura che individualmente pazienti, medici, infermieri tendono a crearsi; col confronto tali posizioni riacquistano la loro dimensione relativa, per il continuo reciproco richiamo alla realtà. Una funzione importante nell’avvio di questo processo dialettico hanno gli interventi, supportivi ma non direttivi, dei medici e degli altri leaders tecnici presenti.
44.
BASAGLIA Ma se uno ha volontà di lavorare, e non può lavorare perché la malattia non glielo permette?
45.
DANIELI Beh, questo è un caso patologico che riguarda lei, perché se uno ha volontà, ma la malattia non gli permette di lavorare, noi non possiamo fare altro che dire, se puoi lavora e se proprio non puoi, perché la malattia non ti permette, fa’ a meno; non si può costringere uno a lavorare.
46.
BASAGLIA Ma allora non prende niente.
47.
PEGORARI Signorina Danieli, allora questo ammalato per la società è un ammalato, e non ha bisogno…
48.
DANIELI Eh già, chi non lavora non prende, chi non lavora non guadagna, questa è una legge economica che vale per tutti, chi non lavora non guadagna, chi non guadagna non mangia, ma questo ammalato mangia lo stesso anche se è ammalato.
49.
DANIELI Appunto, la società quando uno si trova nell’impossibilità di lavorare perché è ammalato gli dà un sussidio di disoccupazione che dura sei mesi.
50.
PEGORARI E dopo?
51.
DANIELI E dopo la società dice: arrangiati.
52.
PEGORARI Non è vero niente, perché se dopo è in condizioni che non può lavorare?
53
BASSANI Prende la pensione.
54.
LUCCHI E può fare una domanda per la pensione.
55.
DANIELI Sì, per la pensione di invalidità, uno che non può lavorare non fa altro che prendere la Cassa malati per sei mesi che gli spetta e poi fa una domanda di pensione d’invalidità per inabilità. La società per lo meno civile ci dice così.
COMMENTO 3.
44-55. Si riconducono il lavoro e la paga al loro rapporto col problema terapeutico. Da un lato l’intervento del direttore ricorda l’eventuale potenzialità terapeutica del lavoro; da un altro lato sottolinea l’assurdità del criterio del rendimento, fino al punto da suggerire che un paziente non debba essere «punito» con una sospensione della retribuzione per il solo fatto di essere incapace (magari temporaneamente) di lavorare a causa della malattia. (Si può notare a questo proposito che nell’ospedale vige la consuetudine di mantenere la paga a quei pazienti che, abitualmente lavoratori, si trovino momentaneamente nell’impossibilità di lavorare a causa della malattia).
E interessante notare che in questa fase della discussione il problema viene esaminato soltanto per un aspetto molto parziale, e sostanzialmente viene svilito. Il punto di riferimento è la società esterna: vista da alcuni come una realtà dalle leggi dure («chi non lavora non mangia», «arrangiati»); da altri, senza che vi sia una reale contraddizione, come un’organizzazione assistenziale ben funzionante.
Nei due casi il paziente sembra concepire la realtà esterna in modo tale da passivizzarsi nei suoi confronti, e non sembra intravvedere affatto la possibilità che la «società civile» debba pensare alla riabilitazione piuttosto che al sussidio. In questo senso i malati rispecchiano una realtà culturale che informa larghi strati della società e non riguarda solo l’ospedale.
56.
PEGORARI Noi ospedale, da che altra parte ricaviamo proventi utili per l’ammortamento di questo deficit?
57.
MASSI E’ una retrocessione quella di calare le paghe, perché abbiamo fatto tanto per crescerle e poi ad un certo punto ci troviamo in condizione di dover calare queste paghe. C’era anche una proposta che ha suscitato un grande malcontento ed era quella di parificare le paghe. Tutti una paga uguale. Questa proposta è stata fatta.
58.
SIGNORA ROSSI E naturalmente tutti hanno detto no.
59.
MEDEOT Eh già chi ha 1000 lire non vuol mica avere 500, no.
60.
DANIELI Perché tra chi ha 1500-1300 lire e quelli che hanno 250 il dislivello è enorme, in sé è poca cosa, ma il dislivello è enorme, se si pensa a quelli che hanno 150 lire di paga e quelli che hanno 1400 lire, come il signor Ciani. Allora attualmente livellando le paghe si arriverebbe a prendere 380 lire a testa, da diminuire poi per ricavare quelle 500 mila lire.
61.
BASAGLIA No, no, sarebbero 390 lire di media dopo la diminuzione.
62.
DANIELI Eh, ma quello che prende 1300 non è disposto a perdere 810 lire.
63.
DOTTOR SLAVICH Beh, potrebbe anche essere che chi prende adesso 500 non è disposto che un altro ne prenda 1400.
64.
BASSANI D’accordo, ma questo si sa, questa è normale invidia per uno che prende di più da uno che prende di meno. Non è invidia, è un senso di giustizia che ci spinge a dire: ma perché tu che lavori come me prendi 1400 e io che lavoro come te prendo soltanto 300-400 lire?
65.
SLAVICH Può dire anche: io lavoro, tu non lavori e prendi come me!
66.
DANIELI Io proporrei di fare a metà, a quelli che hanno più di 500 lire (non 300 lire come diceva il signor Milani), a quelli che hanno più di 500 lire calare le paghe in ragione ad una percentuale X, naturalmente io proporrei di fare la percentuale, non di dire 100 lire, ma di fare una percentuale, perché con la percentuale chi ha di più viene colpito. Cioè aumentato il capitale e rimanendo fissa la percentuale chi ha di più viene più colpito, chi ha di meno viene meno colpito, così a percentuale tutti hanno una diminuzione in misura uguale rispetto alla percentuale. Non so, del 10% per esempio, così chi ha cinquecento viene colpito di 50 lire, e chi ha 1000 lire viene colpito con 100 lire o del 20%, indifferente. Si tratta di vedere in quale modo va applicata. Dunque, da 500 a 1300-1400 diminuire, e poi fare come ha detto la signora Bassani, cioè a quelli che lavorano poco dare un sussidio di disoccupazione, quindi abbiamo due proposte che vengono unite per fare una sola soluzione.
67.
LUCCHI E allora come si copre il deficit?
68.
DANIELI In questo modo, ricavando una parte dalla diminuzione delle paghe, e una parte sempre dalla diminuzione delle paghe ma dando un sussidio di disoccupazione a quelli che non lavorano; in definitiva si tratta sempre di diminuzione di paghe.
69.
BASAGLIA Mi sembra molto complicato questo…
70.
DANIELI E d’altra parte io una cosa più semplice non la so.
71.
CIANI Perché non vai a lavorare anche tu, non occorre che vai…
72.
DANIELI Io lavoro già per conto mio, basta, basta. Non si è qui per discutere di queste cose, si è qui per discutere di un preciso argomento, argomento paghe, quindi gli altri discorsi sono da scartare. Il percento dovrebbe rimanere fisso, il 20% per esempio, da 500 lire in poi. Se non si coprono le spese soltanto levando dalle 500 in poi, bisognerebbe levare dalle 300 in poi; ma il signor Lucchi è contrario di levare dalle 300, e allora noi facciamo dalle 500 in poi. Il rimanente, la somma che manca, viene presa riducendo le paghe da chi non lavora.
73.
SLAVICH Però quelli con la paga tanto alta sono anche quelli che lavorano di più.
74.
BASSANI Eh sì, quelli lavorano, si capisce, ma bisogna pure tirare fuori questo mezzo milione. E quando si pagherà questo debito, dopo forse verranno migliori lavori, ci aumenteranno un’altra volta, ma per il momento non si può perché si deve pagare questo debito.
75.
DANIELI Naturalmente se vengono lavori in più è logico che vengono dati più soldi, più lavori più soldi; naturalmente i soldi però non li prendi né tu né nessuno: per le paghe a noi viene un tanto che è sempre quello.
76.
LUCCHI Ma se noi diamo modo a maggiori guadagni, ci daranno di più per le paghe.
77.
VALLI Non ci daranno di più.
78.
LUCCHI Ma se noi diamo modo all’ospedale di prendere più soldi, l’ospedale deve darci di più. Deve.
79.
VALLI Non dà di più. Quelli sono suoi soldi e basta.
80.
LUCCHI E allora è inutile aumentare i lavori se ci dànno sempre questa quota.
81.
BASAGLIA Giusto, signor Lucchi, è inutile aumentare il lavoro se dopo non viene riconosciuto.
82.
CIANI Allora è meglio incrociare le mani.
83.
LUCCHI E’ inutile aumentare i lavori se ci concedono sempre la stessa somma. E’ inutile cercare lavoro in quel modo lì.
84.
CIANI D’accordo, ma allora cosa facciamo, incrociamo le mani, tanto ci hanno dato quei proventi per le paghe, e se noi lavoriamo o non lavoriamo…
COMMENTO 4.
82-84. La proposta di incrociare le braccia ricorre (almeno nell’assemblea) soltanto su un piano verbale. Il problema non viene mai affrontato con realismo: in alcuni casi isolati esso è stato vissuto come protesta individuale, generalmente con la frase «se mi diminuiscono la paga di sole 5 lire non vado più a lavorare». Manca quasi del tutto l’idea della solidarietà: la istituzionalizzazione sembra aver diviso gli ammalati gli uni dagli altri, favorendo solo rapporti di solidarietà fra piccoli gruppi, ma soprattutto rapporti di dipendenza. In genere sono gli uomini a parlare più facilmente di sciopero: questo avviene anche probabilmente perché i loro immediati superiori, che fanno parte quasi sempre del personale laico, hanno una minor tendenza ad instaurare nei loro confronti rapporti di protezione paternalistica. Il paragone fra la situazione di lavoro all’interno dell’ospedale e la situazione lavorativa «normale» nella società esterna dimostra differenze grandissime, che vengono in luce al momento in cui si parla di sciopero. Il datore di lavoro, in ospedale, è “ambiguo”, soprattutto in quanto non è facilmente distinguibile, per il malato, da quella che è l’istanza e l’organizzazione terapeutica; in secondo luogo la vendita della forza-lavoro non è reale perché nasce come qualcosa che “viene dovuto” all’organizzazione. In questa situazione parlare di sciopero non ha senso, perché il malato non si trova in una situazione tale da potersi coalizzare con gli altri in modo tale da contrapporsi al datore di lavoro. Gli interventi sull’argomento, infatti, cadono nel vuoto.
85.
BASAGLIA Incrociamo le mani lei dice? Esistono delle attività che non sono lavori, per esempio: pitturare, disegnare, tagliare la carta, eccetera.
86.
PEGORARI Ma viene fatto sempre a scopo terapeutico.
87.
BASSANI Certo.
88.
DANIELI Perché è un hobby e uno svago. In tempi normali, cioè tra persone normali nella vita civile, nella vita esterna diciamo così, quello lì viene considerato un hobby, un passatempo, mentre da noi viene considerata terapia, un passatempo però sempre a scopo terapeutico.
89.
BASAGLIA Lei dice che nella vita esterna la realtà è il lavoro, non è il tagliar la carta; e allora cosa dobbiamo pensare del tagliare la carta nei confronti del lavoro in ospedale?
90.
DANIELI Prenderlo; dato che ci sono lavori che sono veramente lavori, mentre quelli che fanno la terapia con lo svago sono le persone più deboli, che non hanno la facoltà di lavorare.
91.
BASAGLIA Quelli dobbiamo pagarli, o no?
92.
DANIELI Quelli normalmente non si dovrebbero pagare.
93.
CIANI Come?
94.
DANIELI Non si dovrebbero pagare quelli che fanno la terapia; oppure dare un sussidio di disoccupazione, una piccolezza, tanto per invogliarli ad esercitare il loro hobby, perché è un hobby imposto, non è un hobby scelto; come quello della creta, uno mi dice: «Vieni con me a fare la creta», non è che io dico «ho voglia di fare la creta».
95.
BASAGLIA E uno che sceglie di andare in cucina invece?
96.
LUCCHI Quello vuol dire che si sente forte per lavorare.
97.
DANIELI Quella è una cosa scelta, non è imposta.
98.
SLAVICH Quindi si finirebbe per pagare i forti, che sono in fondo quelli che hanno meno bisogno, e non pagare quelli che hanno più bisogno.
99.
DANIELI No, i forti, c’è una lieve differenza fra la parola «forte». I forti normalmente non sono tanto forti da sopportare un lavoro esterno, sono deboli in fondo, ma sono i forti tra i deboli. Sono forti tra i deboli, sono cioè meno deboli direi.
100.
BASAGLIA E a questi debolissimi le paghe si dànno?
101.
DANIELI Appunto, ai debolissimi si dà un incentivo per invogliarli ad essere deboli, non debolissimi; perché uno che fa un’attività non è più debolissimo, è già debole.
102.
BASAGLIA Ma questa attività è imposta?
103.
DANIELI E’ una attività imposta sì, perché loro non hanno una volontà da imporre.
104.
BASAGLIA Ma in ospedale dovrebbe essere tutto terapeutico, anche il lavoro.
105.
DANIELI Certo. Il lavoro è terapeutico, è terapia. Noi abbiamo bisogno di lavorare non perché abbiamo bisogno di guadagnare le 300-400 lire, ma abbiamo bisogno di lavorare per sentirci più completi.
106.
BASAGLIA Ma il signor Verzegnassi dice che non è vero, dice che noi abbiamo bisogno delle 300 lire.
107.
DANIELI No, io dico di no. Perché se l’ospedale non ci desse i proventi, in reparto si lavorerebbe lo stesso.
108.
LUCCHI Non parlare così; perché tu non hai bisogno, ma se tu non avessi un soldo per andare a casa, vedresti tu di parlare così.
109.
DANIELI No, io dico che se non ci dessero nessun provento qui si lavorerebbe lo stesso, nei reparti si lavorerebbe lo stesso. Quelle che fanno i letti lo farebbero anche senza la paga.
110.
BASAGLIA Bisogna vedere il grado della debolezza, perché più sono deboli più lavorano per niente.
111.
PEGORARI Sì è vero, più deboli sono, tanto più lavorano per niente, esatto.
112.
BASAGLIA Quello è un tipo d’imposizione, di lavoro imposto.
113.
DANIELI Sì, quando il lavoro è imposto viene pagato poco; e quelli sono deboli, perché i debolissimi non lavorano affatto; noi vediamo che ci sono persone che non lavorano, e quelli sono i debolissimi, i deboli lavorano, e i meno deboli lavorano di più.
114
BASAGLIA E i forti?
115.
DANIELI I forti sono fuori.
116.
BASAGLIA Chi lavora per hobby e chi lavora per necessità? Chi fa ad esempio la musicoterapia, chi lavora la creta, chi taglia la carta, per questi il lavoro è un hobby?
117.
DANIELI Sì, è un hobby, viene considerato un hobby.
118.
BASAGLIA Questi si devono pagare o no?
119.
DANIELI Guardi io penso di sì, ma la paga deve essere minima, abbiamo già detto che sono i meno deboli.
120.
BASAGLIA Sentiamo anche gli altri.
121.
DANIELI Beh, certo.
122.
CIANI Io credo che tanti non andrebbero più a lavorare se non prendessero niente.
123.
BASAGLIA Io vorrei un po’ discutere su questi due tipi di attività.
124.
DANIELI Attività per hobby e attività scelta. Attività imposta e attività scelta.
125.
BASAGLIA Perché negli ospedali ci sono due tipi di lavoro. Per esempio c’è il lavoro imposto come dice la signorina Danieli…
126.
PEGORARI Non è imposto, perché dopo l’ammalato si sente da solo la voglia di andare a fare questa terapia.
127.
BASAGLIA E questo lavoro non dà nessun utile alla collettività.
128.
PEGORARI No, è utile per se stesso, per l’ammalato.
129.
BASAGLIA Ma per gli altri, no!
130.
LUCCHI No.
131.
BASAGLIA Perché è un lavoro imposto; il lavoro scelto, il lavoro dei servizi generali, invece, dà un utile alla collettività?
132.
LUCCHI Sì, e deve essere retribuito di più e di più di quello che viene retribuito, più del lavoro imposto, del lavoro che non dà utilità agli altri.
COMMENTO 5.
85-132. Si introduce il discorso sulle attività occupazionali, come alternativa al lavoro tradizionale, fatto per la istituzione. L’intervento viene raccolto, e suscita una discussione più approfondita, nella quale l’assemblea riesce a distaccarsi per un momento dai discorsi spiccioli per prendere coscienza in modo più articolato dei problemi che li sottendono.
Le attività occupazionali vengono subito qualificate come hobby, e se ne accentua il carattere giocoso, legato alla possibilità di fruire con piena disponibilità del proprio «tempo libero»: ed in quanto tali vengono proiettate all’esterno, come proprie della vita civile. Emergono tuttavia nel corso della discussione una serie di contraddizioni, di mano in mano risolte e riproposte a livelli diversi.
Infatti, si dice che l’hobby è imposto, ma in un secondo momento può venire scelto: inizialmente viene «somministrato» (94, 103), e pare che il paziente sia costretto a subire più o meno passivamente l’indicazione del medico: ma nel corso del trattamento può abbandonare questo atteggiamento passivo, e «sentirsi da solo la voglia di far questa terapia» (126). In questo senso l’hobby, che è per i deboli (90), li aiuta a diventare meno deboli. Si tratta comunque di una terapia, utile solo per l’ammalato, non per la collettività (127, 130). Pertanto l’hobby non dovrebbe normalmente essere pagato (92): però può essere necessario che per questa sua attività l’ammalato abbia una remunerazione, sia pur modesta (94, 101, 1l9): essa si prospetta come «incentivo», ed in qualche modo compenserebbe il paziente dall’imposizione che è costretto a subire (94).
Il complesso delle valutazioni che i pazienti dànno della terapia occupazionale lascia intravvedere come il potenziale valore ed il significato terapeutici di questo tipo di attività non venga còlto; ciò senza dubbio è da ricondursi anche al fatto che queste attività sono di recente formazione ed ancora poco sviluppate in ospedale, e per esse non esiste ancora una specifica «cultura».
Il lavoro istituzionale sembra invece – negli interventi – investito di valori positivi: confrontato con le attività occupazionali esso diviene una cosa seria, vera; e, ciò che a tutta prima può sembrare sorprendente, viene vissuto come espressione di una scelta responsabile (97). Esso è utile alla collettività (132), viene fatto lai «più forti» (96), e deve essere oggetto di maggiore retribuzione (132).
Ma vi è nell’assemblea stessa chi fa rilevare una pericolosa incrinatura in questo edificio: potrebbe accadere che la retribuzione venisse diminuita e le prestazioni dei pazienti ai servizi generali continuassero (107, 109): ciò non è sicuro (122), ma se accadesse avrebbe il significato di un regresso: «più deboli sono e più lavorano per niente» (110, 111). (D’altra parte, questa interpretazione, anche se accettata dai pazienti, è loro suggerita dal direttore).
Si è dunque giunti a proporre in qualche modo il denaro come misura, pur dialettica e contraddittoria, della scelta e della libertà del paziente: sia in senso positivo che in senso negativo. Tuttavia il rapporto fra lavoro, denaro, tempo libero, terapia, sarà ulteriormente approfondito nel corso della discussione.
Fermiamoci ora a considerare più da vicino il rapporto tra lavoro e denaro: mentre sussiste ancora in molti ospedali psichiatrici l’abitudine di utilizzare il lavoro del malato senza alcun compenso, si è venuti accettando negli ultimi anni l’idea che non sia «giusto» lavorare per niente, sia pure in ospedale, e si cerca oggi di trovare il criterio da seguire per stabilire questa paga in modo da non «derubare» il malato del suo lavoro, offrendogli una paga che gli renda, sia pure parzialmente, il prodotto del suo lavoro (“Encyclopédie médico-chirurgicale, Psychiatrie”, vol. terzo, 37930, A 30). E’ ovvio che non si tratta qui del lavoro terapeutico inteso come terapia occupazionale o come terapia industriale, ma della forza-lavoro che serve all’istituzione per il suo funzionamento e che può essere facilmente reperita all’interno della istituzione come prodotto dei pazienti che di essa fanno parte. Pertanto, mentre il salario nella società capitalistica sancisce la vendita della forza-lavoro dell’operaio al datore di lavoro, nell’ospedale psichiatrico la situazione è totalmente diversa, sia dalla parte del venditore della forza-lavoro che dalla parte del compratore.
«Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, e quindi essere “libero proprietario” della propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si incontra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto reciproco come “possessori di merci”, distinti solo per essere l’uno compratore, l’altro venditore, persone dunque “giuridicamente uguali”. La continuazione di questo rapporto esige che il proprietario della forza-lavoro la venda sempre e soltanto per un “tempo determinato”, poiché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende se stesso, si trasforma da libero in schiavo, da possessore di merce in merce» (Marx, “Il capitale”, I, 1, p.p. 184-85).
Nel nostro caso non sussiste un rapporto tra «persone giuridicamente uguali», e l’incontro non avviene «sul mercato». Colui che è disposto a cedere la propria forza-lavoro (il paziente) non ne è libero proprietario (anche se può illudersi di esserlo) proprio perché non è più «libero proprietario della propria persona»; e anche se potesse in qualche modo entrare in questo rapporto contrattuale, non potrebbe determinarne l’inizio e la fine, poiché il «tempo determinato» gli sfugge; e ancora, non è neppur più in grado di vendersi una volta per tutte, di «trasformarsi da libero in schiavo, da possessore di merce in merce»: giacché quando varca i cancelli dell’istituto si è già consumato l’atto di spoliazione, ed egli è privato della libertà di vendersi, che qualcun altro detiene in sua vece e di cui può esser fatto a sua insaputa un uso tale da «mercificarlo» e da renderlo «schiavo».
La situazione è uguale e contraria per l’istituzione: essa non è infatti un libero compratore di forza-lavoro, ma ha in sé diverse e discordanti funzioni; coesistono in essa ambiguamente le funzioni di «datore di lavoro» e «datore di terapia»; inoltre, avendo «preso in consegna», per mandato della società, la persona di cui è spogliato il paziente, lo assume in sé e non riesce a distanziarsene. La istituzione è un meccanismo di integrazione gerarchico-burocratica, e il paziente ne è membro, parte integrante, e ragione stessa della sua esistenza.
Pur avendo bisogno di forza-lavoro ed essendo portata ad usare quella che trova dentro di sé, la istituzione non può dunque “acquistare” la forza-lavoro del paziente, ché non esiste libero incontro fra liberi contraenti.
Il rapporto si configura in altro modo: in esso «la dipendenza personale caratterizza tanto i rapporti sociali della produzione materiale, quanto le sfere di vita su di esso edificate. Ma proprio perché rapporti personali di dipendenza costituiscono il fondamento sociale dato, lavori e prodotti non hanno bisogno di assumere una figura fantastica differente dalla loro realtà: si risolvono nell’ingranaggio della società come servizi in natura e prestazioni in natura» (Marx, “Il capitale”, I, 1, p. 91).
Per quanto interessa il nostro problema, possiamo riconoscere che sia i rapporti sociali della produzione materiale, come le sfere di vita su di esso edificate, si articolano nell’ambito delle condizioni oggettive in cui si trova nella società l’ospedale psichiatrico: infatti, questo è chiuso (e tale rimane nei confronti della società anche quando se ne sia completamente aperto lo spazio interno), e pertanto costringe il paziente a spogliarsi all’ingresso della libertà e dei suoi diritti rendendolo in tale modo dipendente da chi li conserva e detiene il potere di renderglieli; in secondo luogo, lo costringe a muoversi nell’universo stratificato di un campo chiuso, in cui la stratificazione esprime appunto e regola le dipendenze personali (confronta I. Belknap, “Human Problems of a State Mental Hospital”, McGrawhill, New York 1956); in terzo luogo, lo consegna al magico potere del medico, nella dipendenza terapeutica.
In questa cornice, gli «scambi in natura» avvengono secondo una “funzionalità al sistema istituzionale” che persegue soltanto se stessa, e viene controllata nell’accurata distribuzione dei privilegi. Inizialmente, questi sono tali da sancire univocamente il rapporto di dipendenza, senza prestarsi ad alcun altro scambio (es. il permesso di uscire da un reparto chiuso). In un secondo tempo, si concretano in oggetti (un pacco di tabacco per un mese di lavoro in cucina, un cappello per un anno di lavoro in colonia) che, per quanto eventualmente utilizzabili per altri scambi, hanno ancora la funzione naturale di sottolineare il rapporto di dipendenza. L’introduzione di un premio in denaro non modifica di per sé le strutture di questa situazione (anche se è l’indispensabile premessa per ogni ulteriore sviluppo): il piccolissimo compenso in denaro che sostituisce un compenso in natura non è il frutto di una libera contrattazione, ma il volto nuovo di un’antica dipendenza.
La condizione del malato all’interno dell’ospedale psichiatrico è stata infatti spesso descritta come una condizione di “colonizzato”. Con questo termine si vuole indicare sia il fatto che l’ospedale rappresenta un’isola a struttura precapitalistica nell’ambito di un mondo capitalista, al quale è utile e funzionale; sia anche il fatto che il singolo malato è nei confronti del potere medico-burocratico in una situazione di passività che ricorda quella livellata del suddito coloniale. Infatti, «se si esaminano i procedimenti di ammissione nell’istituzione totale, si tende a essere colpiti dagli aspetti di impermeabilità dell’organizzazione, giacché i processi di spoliazione e di livellamento che hanno luogo a questo momento tagliano trasversalmente le differenze sociali di coloro che entrano» (Goffman, “Asylums”, p. 119).
A questo punto, l’introduzione del concetto di «terapeuticità» del lavoro, che viene formalmente riconosciuto dai pazienti, quasi d’ufficio (confronta “Comunità 1”, 105; “Comunità 2”, 169), in condiscendenza al principio teorico che ogni cosa che si fa in ospedale debba essere terapeutica, nasconde dunque (se riferita alle prestazioni dei pazienti in favore dell’istituzione), soltanto una mistificazione, della quale purtroppo rischiamo di rimanere noi stessi vittime proprio perché ci sarebbe grato rendere al paziente il suo plus-lavoro, sotto forma di terapia.
133.
BASSANI Questo è stato uno sbaglio dal principio nel nostro ospedale. Siccome per tanti lavori che sono in giro, lavori che realmente rendono e anche per le persone che sono utili nell’ospedale per tante e tante cose, veniva una richiesta di aumento, si lottava un poco, due giorni, tre, poi tutti alzavano la mano, aumentare. E’ un po’ come in famiglia, quando si spreca di più e poi ci si trova alla fine del mese malamente. Così siamo ridotti noi. Se invece fin dal principio si andava diritti e la paga rimaneva quella che era, io credo che non si arrivava a questo punto, questo dico io.
134.
BASAGLIA Di chi è la colpa?
135.
BASSANI Di tutti in generale, perché acconsentivano, tutti volevano questi aumenti, allora tante volte abbiamo chiesto anche a lei se si può aumentare e lei ha detto: «mah! fate voi». E allora questo è stato il primo sbaglio di questa assemblea. Così è come in famiglia, perché siamo una famiglia.
136.
BASAGLIA Per mantenere la pace!
137.
LUCCHI Per mantenere la pace, ma adesso incomincia lo sfogo di nuovo!
138.
SLAVICH Non è che si siano fatti tanti lussi, però. Perché quando le paghe erano di 50 lire si faceva presto ad aumentare, perché se anche diventavano 100 o 200 era sempre molto poco.
139.
BASSANI Va bene, anche a questo le do ragione. Anche un operaio che lavora e che ha una paga mensile, se non sa regolarsi, arriva al giorno 20 e lui è già morto; così è qui, si faceva tutto facilmente, invece già dal principio ci voleva. Il padrone non vuole aumentargli, al nostro direttore, non vuole dargli il mezzo milione che manca, e così il passo è uguale a quello di uno di fuori, siamo ridotti a questo punto. Ora adesso bisogna stringere, bisogna fare quello che ho detto io, e allora forse arriveremo a salvare la situazione e dopo tornano di nuovo le paghe di prima. E adesso paghiamo gli errori, sì, non si doveva aumentare così facilmente.
140.
BASAGLIA Ma era effettivamente errore?
141.
MEDEOT Si capisce che lo era. Sì.
142.
PEGORARI I fatti sembrano dare ragione alla signora Bassani.
143.
BASSANI I fatti sono giusti. Perché quello che faceva i parchetti lavorava tutto il giorno e riceveva 1000 lire la settimana, ecco umanamente, adesso ragionando proprio nel mio povero come mi spiego io, aveva diritto di prendere queste 1000 lire, perché lavorava. Ma sono diversi che hanno 1000-1200 e fanno una ora, una ora e mezza di lavoro e dopo se ne vanno in reparto pacifici. Non è giusto che quel disgraziato lavori per 500-1000 lire e a quell’altro perché fa un po’ di pena gli si dà 1300 per una ora che lavora. E allora, può darmi lei se io le chiedo 100 mila, se non li ha? Non può darmeli. E così noi non possiamo darli perché non li abbiamo. Se si vuole fare una cosa giusta si deve fare proprio quel lavoro lì. Disoccupazione, e diminuire 200 lire a quelli che hanno di più delle 500 lire, e allora va bene.
144.
MASSI Noi non possiamo dire che queste sono paghe, sono dei compensi e tali compensi non vanno diminuiti.
COMMENTO 6.
133-44. I pazienti tendono a scorgere nei differenti livelli di paga gradi diversi di libertà (131, 132): le paghe superiori sembrano attributo naturale dei pazienti più «forti» la cui attività è più simile a quella del salariato «libero» appartenente alla società esterna, e la dinamica delle paghe sembra promettere una dinamica parallela del grado di coercitività a cui il paziente è ancora sottoposto nell’istituzione. Per analoghi motivi, i pazienti tendono a scorgere nei diversi livelli di paga una misura della forza-lavoro da loro effettivamente ceduta a beneficio della collettività.
Questa ideologizzazione della dinamica dei premi in denaro si colloca con estrema naturalezza nella «visione del mondo» che emerge dagli interventi della signora Bassani (in particolare 133, 135, 139, 143). Vi ritroviamo infatti un buon senso amministrativo in cui la necessità di giustificare quelli che si sono fatti alzare la paga (133) coesiste con la denuncia di chi gode oggi di questi aumenti in modo privilegiato e senza più meriti di lavoro (143): ed entrambe le valutazioni sono tese alla realizzazione di una giusta ridistribuzione dei beni della collettività, ai fini di una salvaguardia della «grande famiglia» da pericolose leggerezze.
Attraverso questi interventi (che rappresentano degnamente il livello di maturità e le esigenze di una larga parte dei degenti), traspare il desiderio di poter costruire, all’interno dell’ospedale, una comunità le cui contraddizioni vengano stemperate in un clima di amichevole collaborazione e risolte secondo giustizia, per mezzo del buon senso. In prospettiva il «villaggio per pensionati» si profila come il luogo ideale per il paziente lungodegente, a cui è negato il ritorno nella società esterna: esso deve poggiare, ovviamente, sulla protezione illuminata e paternalistica del direttore (e dei suoi collaboratori), e tende a sfociare nella ricerca di realizzazioni sempre più vistose ed efficienti.
Ma tutto questo castello si scontra con la realtà, e costringe tutti a nuovi ripensamenti.
145.
BASSANI Sì, però ci sono 6 milioni che servono per gli operai, per gli ammalati; ecco, sono sempre con quei soldi che si deve pagare. Come dobbiamo dire che non è un lavoro: è un lavoro. Perché uno che è in attività, che faccia le sedie, che faccia quello, che faccia quell’altro, deve lavorare, il suo lavoro deve essere presentato, vuol dire che è stata una attività.
146.
BASAGLIA Signora Bassani, quei 6 milioni lei li considera come fondi perduti o rendono?
147.
BASSANI No, questi 6 milioni, sono per i malati, per gli operai.
148.
BASAGLIA Ma si trae un profitto da questi 6 milioni?
149.
BASSANI Non so, da dove arriva questo profitto. Non arriva. Dove arrivano a rendere in un anno 6 milioni i lavori che sono qui dentro? Ha un profitto morale, nel senso che aiuta a guarire molto presto.
150.
BASAGLIA Ma secondo lei questi 6 milioni vanno a fondo perduto o rendono?
151.
BASSANI Sì, rendono. Però renderanno per un punto; ma nel secondo punto, come produzione che è qui dentro, come lavori, non possono rendere.
152.
BASAGLIA Ma se abbiamo detto che rendono!
153.
BASSANI Rendono nel senso che se no si deve assumere più personale, perché se non sono i malati che lavorano, non bastano quattro infermiere per cento ammalate, siamo più di cento in reparto e non bastano. E che gli diano 80-90 mila lire al mese, non bastano quattro infermiere. Basterebbero sei operai, sette mettiamo? Invece qui lavorano duecentosettanta persone, anche se lavorano e non lavorano.
154.
LUCCHI E allora non gli basterebbero nemmeno 20 milioni!
155.
CIANI Sì, e con quei quattro soldi si paga tanta gente!
156.
VISINTIN E allora sarebbe giusto che si pretendessero di più dei 6 milioni.
157.
MEDEOT Sì. E’ giusto che noi pretendiamo di più. E’ giusto.
158.
LUCCHI Io vi dico che non basterebbero 20 milioni per prendere gli operai affinché non lavorino gli ammalati! Vi dico io la verità!
159.
BASAGLIA Ma se è così allora questi lavori non sono terapeutici. E’ uno sfruttamento?
160.
DANIELI Non è uno sfruttamento, però è anche un lavoro di terapia.
161.
PEGORARI Ma la signora Natalina diceva proprio di essere sfruttata! Diceva lei che per 100 lire la settimana fa degli strofinacci ad uncinetto e dice se io non faccio i strofinacci mi levano la paga, sono costretta a lavorare e quindi sono sfruttata, perché ho poca paga e devo fare per prendere le 100 lire per settimana.
162.
DANIELI Quanti strofinacci fa per settimana? Due, tre?
163.
BASSANI Beh io facevo dieci al giorno per niente là, e per quattro anni di fila, e tutti i reparti avevano i strofinacci, io non ho mai preso niente.
164.
MEDEOT D’altra parte guai se non ci fosse questa paura di perdere la paga, altrimenti se noi abbiamo la sicurezza di non perdere la paga penso che pochi lavorerebbero.
165.
BASSANI Insomma lei deve trovare ancora il mezzo milione che manca.
166.
BASAGLIA Devo cercare mezzo milione di più, oppure, come devo regolarmi per fare a meno di mezzo milione?
167.
SIGNOR DONDA Perché?
168.
LUCCHI Perché? Perché siamo in deficit! E’ evidente.
169.
CIANI Ragionando con questo spauracchio sempre presente qua, che non si può avere soldi in più, ma possibile! Tanto poveri?
170.
BASSANI Sì, è uno spauracchio. Il nostro direttore è venuto qua con questo pensiero, di fare contenti tutti, lui farebbe anche i miracoli, che la gente sia sollevata, invece la vedi lei con la sua bontà ha combinato un guaio con i soldi. Con la sua bontà no, adesso non le faccio un complimento, le dico così. E’ stato forse uno sbaglio, perché troppa generosità a volte fa male. E così siamo a terra di mezzo milione.
171.
BASAGLIA Questa azione è stata terapeutica?
172.
BASSANI No, lei ha fatto per lo scopo terapeutico, ma noi non siamo arrivati a quel punto!
173.
MASSI Anche la bontà è una terapia. Si capisce. Perché quando vediamo lei non ci tremano le gambe, una volta ci tremavano le gambe, erano tutti sull’attenti anche quelli che non capivano.
174.
LUCCHI Guardate che anni indietro qui eravamo tutti «morti». E adesso invece siamo tutti contenti e tutto questo chi ha fatto? Il nostro direttore. E lui può fare anche questo, adesso.
175.
SLAVICH Se siamo ancora qua, a discutere di queste cose, ciò dimostra che proprio non è cambiato tutto!
176.
LUCCHI Beh, comunque siamo più contenti ora che prima. Qua siamo a casa, abbiamo almeno quel sollievo di non avere quell’ansia, quella paura, si vive più in armonia.
177.
BASAGLIA C’è ancora qualche grosso problema, ma siete tutti impegnati a curarvi l’uno con l’altro.
178.
DANIELI Sì, cerchiamo di aiutarci uno con l’altro.
179.
SIGNOR VERZEGNASSI E’ sempre stato però che quelli di fuori guardano di malo occhio i malati psichiatrici! E quanto noi stiamo lottando per fargli cadere questo pregiudizio! Perché in fondo se qualcuno di fuori venisse ad assistere alle nostre assemblee vedrebbero che sono gente che ragionano anche qui, e non soltanto loro che sono fuori. E poi non per niente il manicomio è scritto per fuori, perché i malati sono più fuori che dentro. Soltanto con la differenza che quelli di dentro si fanno curare.
180.
CIANI Sì, però meglio si sta fuori che dentro.
181.
MASSI Signori, sono le 11 e 5 dovremo ricominciare lunedì di nuovo. La seduta è sciolta.
COMMENTO 7.
145-81. I «sei milioni» sono una cifra reale, il suo significato e la sua importanza sono ben noti a quasi tutti i componenti l’assemblea: essa rappresenta un limite imposto dalla realtà, che viene menzionato prima o poi in tutte le discussioni sui salari e che le riconduce su una base più realistica. Dopo i tentativi di astrazione, sui possibili significati del lavoro in ospedale, la comparsa di questo fattore concreto fa prender subito un corso diverso e nuovo alla discussione. Nel dubbio che il valore effettivo della somma sia visto in termini astratti e vaghi, si suggerisce la correlazione con il valore del lavoro prodotto dai malati (146, 148). La prima risposta viene dalla presidente ed è, secondo il suo stile (confronta comm. 6) conformistica e in apparenza contraddittoria. Solo in apparenza però: quando la presidente si riferisce al lavoro industriale «per l’esterno» (145) essa stessa rivendica il valore del prodotto; mentre quando passa a considerare il lavoro per l’ospedale nel suo complesso, pare che tale valore, e quindi il profitto, svanisca (151 ) e divenga conformisticamente un profitto teorico, «morale, perché aiuta a guarire» (149). Ma questo intervento non sembra in grado di sopire la tensione che sta crescendo, e sembra anzi accentuarla: si susseguono una serie di interventi di acceso tono protestatario, nei quali il problema viene posto in termini concreti e realistici (153-62). E’ il solo momento di questa prima assemblea nel quale giunge a verbalizzarsi, in una pluralità di interventi, una “contestazione” del sistema; non si tratta più, si badi bene, di individualistiche proposte di «sciopero», bensì di un’aggressività verbale quasi corale, alla quale sembra sottesa la momentanea presa di coscienza di un possibile rapporto duale fra il paziente come prestatore di forza-lavoro e la istituzione; il movimento dinamico porta i leaders di questo grosso gruppo a costituire come capro espiatorio un «altrove» non ben determinato (l’ospedale? i medici? la società?), al quale viene chiesto conto del valore del lavoro istituzionale (154, 158, 169): in questo momento il gruppo sembra accantonare (con la sola eccezione di un nuovo intervento della presidente, 163), il modulo delle soluzioni apparenti che si giustappongono alle determinazioni dettate altrove, per affrontare direttamente la sostanza del problema, su un piano di realtà. E’ assai verosimile che questo traguardo, irraggiungibile sul luogo di lavoro – dove in modo immediato si estrinseca il rapporto di dipendenza personale dalla istituzione – venga raggiunto solo nella situazione di incontro, faccia a faccia, nell’assemblea; il rinforzo reciproco attraverso il confronto collettivo riesce momentaneamente a sovvertire la condizione di atomizzazione e di serializzazione nella quale il paziente è forzato durante il suo lavoro per l’istituzione. Gli interventi sono conseguentemente aggressivi sul piano verbale, ma non durano a lungo; presto riaffiora l’esperienza di impossibilità a superare l’ostacolo, torna a gravare la “minaccia” concreta (164, 169, 170), si riprospetta lo squilibrio fra la durezza del problema e la debolezza contrattuale dei pazienti (164), sia pure espressa in gruppo. Si rimette quindi subito in moto il meccanismo dinamico della ricerca di “rassicurazione”: la figura fantasmatica del direttore viene recuperata come «buona», e capace quindi di rassicurazione paternalistica (170, 172, 173); vengono posti completamente fra parentesi gli aspetti negativi (che si tenta di sottolineare – 175 -, ma che vengono rifiutati), e si accentuano invece, enfatizzandoli, i momenti vissuti come positivi della condizione attuale della vita quotidiana ospedaliera; il confronto globale e indiscriminato fra il «prima» e il «dopo» riesce in apparenza assai rassicurante ed è, da sempre, uno dei modi con i quali l’assemblea tenta di risolvere le «situazioni scabrose» che saltuariamente minacciano le condizioni di vita acquisite. L’intervento del direttore, al riguardo, è supportivo e riconvoglia il tutto verso una globale ideologia terapeutica comunitaria: esso viene subito raccolto, forse perché soddisfa il bisogno di integrazione e di protezione che si accompagna alle istanze regressive che l’assemblea esprime in questo momento.
COMUNITA’ 2.
Lunedì, 9 gennaio 1967.
Presenti alla seduta:
54 degenti
9 infermieri
1 monitore
3 assistenti sociali
1 psicologo
2 medici
1.
SIGNORINA DANIELI Allora io vorrei fare un riepilogo breve di quanto ho inciso. Microfono per favore.
2.
SIGNOR LUCCHI Parla lo stesso.
3.
DANIELI Riepilogo questo, cioè diminuire le paghe del 20% a chi ha da 500 in su e poi fare una revisione col signor Milani di quelli che lavorano e di quelli che non lavorano, fare una revisione, e vedere un po’ quelli che meritano la paga e quelli che non la meritano.
4.
VOCE NON IDENTIFICATA Brava, brava, brava.
5.
DANIELI Dal resoconto della revisione si tirano le somme e vediamo quanto ricaviamo. Il resto si fa con la diminuzione del 20% dalle 500 lire in su, questo è il riepilogo delle proposte più importanti che finora siano state fatte qui. Sicuramente è sottinteso che a coloro che verrà riconosciuto che la paga è data senza merito verrà diminuita la paga, questo è sottinteso. Coraggio, cosa diciamo, concludiamo così l’argomento paghe, non è nessuno che faccia obiezioni.
6.
DOTTOR PIRELLA La sola obiezione da fare è questa, che in un argomento così importante ci sia una assenza dei lavoratori.
7.
DANIELI Ma non posso mica portarli in braccio qui all’assemblea, se non vogliono venire non vengono, io sono andata al bar a sollecitare che vengano all’assemblea, non hanno voluto venire. Non vengono perché le cose sono state tirate troppo alla lunga, e dicono che qui non si conclude mai niente. E oggi invece è proprio una giornata conclusiva, e l’assemblea è quasi deserta, tranne noi che siamo qui. Beh, non ha importanza, perché loro hanno discusso le proposte, la sala era pur piena quando si discutevano le proposte. Ora si tratta solo di tirare le somme, nient’altro, ora quello che è fatto è fatto, abbiamo già parlato a sufficienza, ancora tutta la settimana scorsa. Oggi mi sembra ci sia da tirare le somme, per tirare le somme non ci vuole mica tanto.
8.
SIGNORA BASSANI Ieri era Milani da me, e lui ha fatto i conti, ha calcolato che deve calare anche quelli con 500 lire a 400, perché la somma che ha fatto, il calcolo come avevamo parlato noi, non basta, deve levare quelle da 200 a 100 per arrivare alle 25 mila altrimenti la somma risulta di L. 13800.
9.
DANIELI Sì, sì lo so.
10.
BASSANI Deve ancora calare.
11.
DANIELI Da 500 in poi, cominciando dalle 500 comprese.
12.
BASSANI Dare come un regalo, ad uno che ha 300 dare 200, ad uno che ha 200 dare 150: allora sì che si arriverà alla somma delle 22-25 mila.
13.
DANIELI Dunque, dato che l’argomento paghe è esaurito, per ora, dato che non ci sono lavoratori qui presenti che fanno obiezioni e io non posso stare qui a discutere e fare le obiezioni da me, proporrei di parlare di altri argomenti, quali il telefono al bar e quali la mensa di frutta, cioè di fare un reparto della frutta nel nostro ospedale, anche lì verrebbero guadagnati dei soldini per vendere la frutta; e poi il telefono al bar, ecco, abbiamo parlato anche di questo, di mettere il telefono al bar, perché se il signor direttore è al bar e qualcuno lo cerca, insomma se il signor direttore è al bar, pronto, telefono al bar e lì parlo con il direttore, il signor direttore ha bisogno di incontrarsi con qualcuno al bar, il bar lo convoca telefonicamente, per me il telefono al bar è una cosa necessaria.
14.
SIGNOR VERZEGNASSI Per me no.
15.
DANIELI Per me sì. Perché molte volte bisogna, se qualcuno cerca il direttore e il direttore è al bar, telefonano al reparto D, e da qui mandano un emissario a cercare il direttore al bar, mentre se ci fosse il telefono al bar non occorrerebbe questo emissario.
16.
PROFESSOR BASAGLIA Scusa Sandra, ma chi ti ha dato così l’incarico di non continuare il discorso delle paghe?
17.
DANIELI Nessuno, visto che nessuno ha da contraddire, non posso mica parlare solo io. Io ho chiesto, avete qualcosa da dire a proposito delle paghe? Avanti, c’è stato solo il dottor Pirella che ha detto qualcosa. Avanti.
18.
BASSANI Un momento, non gridare. Siccome il signor Milani oggi non c’è, allora lui domani viene a verificare a guardare per poter far saltare fuori queste 25 mila lire. Ma però ha detto che dobbiamo aspettare fino a martedì che verrà lui in assemblea, allora si discuterà qui esattamente.
19.
DANIELI Allora rimandiamo a domani.
20.
SIGNOR MASSI Io volevo domandare se questo debito è proprio necessario pagarlo tutto in un anno? Subito?
21.
BASSANI Sarebbe meglio.
22.
SIGNOR MEDEOT Sarebbe meglio, ma se non si può, si può dare quello che si può e poi si troverà più avanti altro.
23.
DANIELI Certo. Dipende da noi.
24.
BASSANI Ma un altro anno sarà non mezzo milione, sarà un milione. Se andiamo avanti così senza ridurre le paghe, il prossimo anno avremo un milione da pagare.
25.
MEDEOT Su questo siamo d’accordo, di diminuire, ma di non pagare subito questo mezzo milione.
26.
MASSI Giusto, se non si arriva si dovrà per forza pagarlo in due volte.
COMMENTO 8.
1-26. Il «riepilogo» con il quale si apre questa seconda assemblea prende in considerazione due proposte che, integrate, potrebbero permettere di «concludere l’argomento paghe».
Abbiamo già notato come si tratti di pseudo-soluzioni (confronta comm. 2). Dobbiamo aggiungere a questo punto che intervengono altre modalità di rifiuto del problema. Una di esse è la «fretta di concludere», e questa nasce anche dal silenzio in cui cadono le parole della presidenza (graficamente non riproducibile, ma assai pesante nella realtà). E’ quasi troppo ovvio rilevare che il silenzio degli intervenuti accentua il disagio della presidenza, che cerca di diminuire la propria ansia attraverso un rapido accordo che permetta di accantonare l’argomento (e l’accordo proposto, come si rileva nella nota 6 della precedente assemblea, è abbastanza elaborato da corrispondere alla necessità di una giustizia distributiva di tipo legalitario e conformista).
Contro questa fretta di concludere si leva la voce di un medico, che rileva un’altra modalità di rifiuto: l’assenza dei lavoratori.
E’ opportuno rilevare che l’analisi di questa assenza deve essere collocata nel quadro più generale della partecipazione all’assemblea, sia da parte dei pazienti in generale, sia da parte di determinate categorie di pazienti (ad esempio i lavoratori): non sarebbe infatti neanche possibile iniziare questo discorso se non fosse chiaro che la partecipazione all’assemblea non è obbligatoria. I pazienti, come i medici, gli infermieri, tutto il personale dell’O.P.P. sanno che «alle dieci c’è l’assemblea». I pazienti sono a volte incoraggiati a partecipare, a volte invece scoraggiati a parole o col silenzio (spesso purtroppo a motivo della loro utilità sul lavoro), a volte soli e liberi nel loro muoversi nel «campo» dell’ospedale, altre volte legati all’accompagnamento dell’infermiere (dal reparto al luogo della assemblea) ed è chiaro che per ciascuno il grado di «spontaneità» è diverso. La partecipazione è comunque sempre (ci sia concesso il termine) «consensuale», e le stimolazioni sempre meno pressanti.
Il fenomeno delle fluttuazioni nella presenza alle assemblee ha richiamato la nostra attenzione particolarmente nei casi in cui esso si manifesta con vistose caratteristiche quantitative o qualitative: partecipazione molto scarsa, o particolare affollamento; assenza di frequentatori abituali o di gruppi particolari (lavoratori, pazienti di un certo reparto, eccetera). Non è difficile a volte indicare il motivo di queste fluttuazioni: ad esempio, la ricorrente assenza del sabato può essere messa in relazione col fatto che il sabato è giorno di paga, e la busta viene consegnata in mattinata, a volte prima delle 10, ma spesso anche dopo.
Oggi possiamo stabilire una correlazione fra l’assenza dei lavoratori e il tema che viene trattato (confronta 30-40, 43) anche perché sappiamo che parte di essi hanno scelto di andare al bar, e di là «non hanno voluto venire» (7).
Collocato in un piccolo fabbricato in mezzo al parco, non lontano dal reparto in cui si svolge l’assemblea di comunità, il bar rappresenta un importante centro di vita sociale. E’ gestito dai pazienti, è formato da due locali, di cui uno col «banco» e uno col jukebox: somiglia in pratica a un qualsiasi bar della città. I pazienti ci vanno per prendere un caffè, per fare due chiacchiere, per incontrarsi con gli amici, ed in esso si compongono e si scompongono diversi gruppi informali. Il bar viene così ad assumere il significato di un luogo all’interno del campo ospedaliero, verso il quale si va, quando ci si allontana dal reparto o dal luogo di lavoro. In particolare, il fatto che sia uno dei luoghi più simili «all’esterno» e meno «gestiti» dai medici, meno investiti dalla organizzazione istituzionale, lo rende assai adatto all’incontro dei «protestatari» e ne fa in pratica, in certe condizioni, la sola alternativa all’assemblea. (E nel nuovo movimento di rifiuto del problema – il tentativo di passare a un altro argomento (13), – la scelta del tema «il telefono al bar» non è forse del tutto casuale).
Vorremmo a questo punto notare che le interpretazioni date ai vari movimenti dell’assemblea e alle sue dinamiche si collocano in una prospettiva assai diversa da quella che regola le riunioni di reparto.
Le principali differenze fra l’assemblea di comunità e le riunioni di reparto possono essere analizzate sia dal punto di vista dei contenuti che da quello delle dinamiche.
L’assemblea di comunità è un luogo nel quale si trattano prevalentemente temi di interesse generale, che possono avere diverse caratteristiche: problemi organizzativi del Club «aiutiamoci a guarire», relativi a gite, feste, eccetera; problemi di gestione democratica dell’ospedale (a volte vissuti e risolti nel democraticismo dei comitati); problemi teorici generali, spesso sollevati in occasione di particolari avvenimenti intra- ed extra- ospedalieri: fra questi, ad esempio, il tema «noi e gli altri», con la problematica dell’«esclusione», ha occupato in passato molte sedute, riaccendendosi in occasione della partecipazione all’assemblea di visitatori.
L’assemblea è il luogo in cui possono incontrarsi tutte le persone che si muovono nel campo dell’ospedale. Vi partecipano i pazienti, brevi e lungodegenti, in misura variabile (da un decimo a un quinto circa della popolazione ospedaliera totale); tutti o quasi tutti i medici; le assistenti sociali; parecchi infermieri e monitori. In questa assemblea tutto l’ospedale si rappresenta, in un libero confronto, in cui i ruoli risultano indistinti e tendono, al limite, a confondersi sul piano della contestazione reciproca; è il momento in cui la cultura dell’ospedale prende coscienza della propria esistenza e si configura come unità globale al punto di confluenza delle varie culture di reparto e dei sottosistemi sociali dell’ospedale.
Si distacca in queste riunioni, in modo netto, la figura del direttore, che ne costituisce il polo dinamico principale, e viene fantasmatizzato come colui che rappresenta e integra l’omogeneità della situazione comunitaria, e ne testimonia la «realtà».
In modo eminente convivono nel ruolo del direttore le contraddizioni di tutta l’istituzione: l’incontro che avviene – nella sua persona – tra la «società esterna» e la microsocietà ospedaliera, fra il potere istituzionale e il potere terapeutico, determina l’ambiguità di questo ruolo. Questa ambiguità viene vissuta criticamente, e ne viene accettato il rischio: altrimenti la figura del direttore si fisserebbe in uno stereotipo di onnipotenza paternalistica e l’ospedale si configurerebbe intorno a lui come microsocietà ideale, che lo ricomprende, lo condiziona e in conclusione lo possiede (sembra esser stato questo il destino di H. Simon, fondatore della ergoterapia tradizionale, che è sepolto a Gütersloh all’interno del «suo» ospedale).
Assai diverse dall’assemblea di comunità, sono invece le riunioni di reparto. Bisettimanali nei reparti di lungodegenti, quotidiane nei reparti di osservazione, esse esprimono la cultura particolare del reparto, ed hanno un tono che rispecchia la storia del reparto e dei pazienti che ci vivono. In genere sono meno numerose dell’assemblea di comunità (variando fra le venti e le cinquanta persone circa) e, pur riprendendo a volte i temi in essa trattati, si rivolgono prevalentemente ad argomenti più concreti e si articolano su rapporti interpersonali più ravvicinati, nei quali è più facile l’identificazione reciproca. In esse il ruolo del medico di reparto (uno, a volte due) è assai meno indistinto che nell’assemblea di comunità, più investito dalla situazione, e più spesso richiesto di prestazioni tecniche.
27.
LUCCHI Quelli che hanno 300 è giusto calare di 100 lire? Senta signorina Sandra, a quelli che hanno oltre 500 si cava via, a quelli che hanno 1000 si cava via 500, paga unica.
28.
DANIELI E’ giusto. Noi però parliamo del 20% sulle somme da 500 a 1000.
29..
SIGNOR CIANI No 20% ma 50% addirittura sarebbe meglio.
30.
SIGNORA SLOKAR Eh non si può, non si può.
31.
SIGNOR PEGORARI Come non si può? Però a quello che ha 300 si calerà le 100 lire no?
32.
DANIELI No, quello non viene toccato per niente, a quello rimane la paga di 300 lire, quello non viene toccato.
33.
LUCCHI Paga unica, cavare via quelli che hanno oltre lire 1000.
34.
SLOKAR Sarebbe bello, sì.
COMMENTO 9.
27-34. Il tema della paga unica viene proposto qui per la seconda volta, dopo essere già stato menzionato nell’assemblea precedente (1, 37 segg.), e scartato in una breve serie di interventi. Qui il discorso non viene neppure aperto: la paga unica viene vista come «cavare via a quelli che hanno oltre 500» (27) o «oltre 1000» (33) (le cifre sono discordanti e il fatto non viene rilevato); ed ottiene come unico commento un «sarebbe bello, sì». Sembrerebbe dunque che il discorso sia stato nella precedente assemblea esaurito, e riconosciuto come buono ma irrealizzabile: la paga unica verrebbe a coincidere con l’abolizione dei privilegi, ma questo programma ideale non sarebbe realizzabile. Ci sembra opportuno tuttavia rivedere gli interventi dell’assemblea precedente su questo tema: notiamo innanzitutto l’indicazione inesatta della cifra relativa alla paga media (390 lire): questa cifra corrisponde invece alla media che verrebbe percepita da tutti dopo la diminuzione. Perché questa errata valutazione? Non pare casuale il fatto che la paga unica venga vista con tale pessimismo. La citazione di una cifra veramente irrisoria, e ancora soggetta alla minaccia incombente di una decurtazione è insultante e provocatoria per i «bravi lavoratori» che da tempo prendono 1000 lire settimanali. Possiamo quindi pensare che questo pessimismo esprima ed appoggi la protesta dei più privilegiati che tendano quindi soltanto alla protezione di una personale posizione di favore. Nessuna voce si leva da parte di chi beneficierebbe in questo modo di un aumento; tacciono le lavoratrici interne dei reparti, ad esempio, che percepiscono 100 o 150 lire settimanali, ma che ancora partecipano più raramente all’assemblea, e quando partecipano di rado prendono la parola. Solo in una assemblea di lavoratori, convocata in precedenza per discutere specificamente questo argomento della paga alla presenza di tutti i diretti interessati, si è creata l’occasione in cui molte voci si sono levate, una dopo l’altra, in una denuncia della personale situazione, proprio da parte delle lavoratrici interne, meno pagate ed anche più regredite. Nella serie di proteste e rivendicazioni così espresse non si coglie ancora una presa di coscienza della comune situazione. La denuncia cade nel vuoto, e nessuno nell’assemblea ritiene di doversi fare portavoce e sostenitore dei meno abbienti. E non a caso. La proposta della paga unica non viene mai, a nostro avviso, presentata come una alternativa reale; non viene neppure dialettizzata ed articolata nei significati che potrebbe assumere: essa esiste solo polemicamente come prospettiva estrema, tagliando alla radice ogni discussione sulle paghe privilegiate. Di fronte alla difficoltà concreta di stabilire un sistema articolato di paghe avente carattere di equità, e di fronte alle difficoltà interpersonali che sorgerebbero a tutti i livelli, l’egualitarismo si prospetta come seducente per il suo carattere al tempo stesso radicale e poco impegnativo a livello decisionale. Il sistema della paga unica eliminerebbe in pratica una serie di scelte difficili e imbarazzanti. In altri termini, l’egualitarismo ingenuo (che sarebbe poi un egualitarismo nei confronti della retribuzione, ma non nei confronti del lavoro prodotto) viene identificato con «la soluzione» (radicale) contro l’esistenza dei privilegi: esso è sostanzialmente contrario ai malati «forti», e favorisce i «deboli». Tuttavia non potrebbe venir proposto che con un atto radicale di tipo autoritario: e, per essere messo in atto, comporterebbe in pratica anche l’allontanamento dei malati «forti» dal loro ruolo di leaders nelle attività comunitarie, senza che sia stato dato modo e tempo ad alcuno per sostituirli, da un giorno all’altro, nella funzione che oggi svolgono. Chi lavora poco – per inerzia o per malattia – diverrebbe privilegiato; andrebbe inequivocabilmente perduto ogni rapporto del denaro con il lavoro: non vi sarebbero più diverse retribuzioni per diversi lavori, né diverse motivazioni per variare le retribuzioni. La paga assumerebbe per tutti il significato di un sussidio assistenziale, ed il lavoro sarebbe di nuovo – come per il passato – un obbligo cieco senza incentivi. (Ciò non significa negare il fatto che il denaro costituisca uno dei bisogni primari del paziente e quindi una sua necessità anche terapeutica. Ma questo è un aspetto diverso del problema, che verrà ripreso in ulteriori interventi).
Esiste forse un’alternativa: che la comunità, a livello dei gruppi di lavoro, costituisca in se stessa, con atto volontario, una gestione del denaro disponibile al fine di ottenere una somma globale da distribuirsi – comunitariamente – a ciascuno secondo il bisogno, che potrebbe esser colto come simile per tutti. Un simile livello di maturità è irreale allo stato attuale di evoluzione dell’ospedale: è vero invece che la coscienza di un rapporto fra il lavoro svolto e la paga ricevuta (per quanto bassa) rappresenta, col suo contenuto individualisticamente incentivante, il livello di consapevolezza sociale sul quale si muove oggi questa comunità. Abbiamo infatti già osservato come non sia vero che le paghe più alte corrispondano a un maggior grado di libertà, non sia vero che le «paghe» misurino una reale vendita di forza-lavoro: i differenti livelli di paga misurano in realtà ed esemplificano i diversi tipi di adattamento e di dipendenza nei confronti dell’istituzione, e misurano non una regola collettiva di libertà ma un adattamento personale alle varie «nicchie» sociali che i malati riescono a scavarsi, con la protezione dell’istituzione, nell’ambito della istituzione stessa.
Il complesso sistema di lavoro che regola la vita quotidiana di moltissimi pazienti negli ospedali psichiatrici non può dunque venir considerato come una compartecipazione a certe modalità di vita della società esterna, ma rientra interamente in quella che è stata definita come «istituzionalizzazione» negli ospedali psichiatrici: cioè nel sistema più vasto con cui l’istituzione crea nuovi rapporti e ruoli all’interno della propria sfera burocratico-organizzativa. Il lavoro dei pazienti negli ospedali è “totalmente” istituzionalizzato, cioè artificiale al confronto con le dinamiche della società esterna; e il grado di istituzionalizzazione non è affatto in un rapporto inverso con il tipo di lavoro o con il livello del premio in denaro (confronta al riguardo il già citato libro di Goffman). Mansioni lavorative «importanti» relativamente ben pagate, come sono quelle tipiche di alcuni pazienti «prominenti» che prestano la loro opera a beneficio della istituzione, corrispondono spesso ad un grado elevato di istituzionalizzazione, cioè a una dipendenza psicologica grave e acritica nei confronti del burocratismo (o del paternalismo) del potere istituzionale. D’altro lato i premi in denaro e i diversi ruoli lavorativi dei pazienti in ospedale rappresentano anche una “premessa possibile” ad una presa di coscienza critica da parte dei malati. Ma per svilupparsi questa presa di coscienza deve superare una “impasse”, ben precisa, costituita dall’illusione che il lavoro e la paga siano univocamente legati da un preciso rapporto economico, liberamente contrattabili e contestabili all'”interno” della illibertà del sistema.
35.
SIGNORA GORIAN Andate a vedere in cucina e vedrete che lavoro che è. Lì si lavora dalla mattina alla sera e prima di mezzogiorno deve essere tutto pronto; come il capocuoco, non si troverà mai un uomo così come lui. Non m’importa, ma io so sinceramente che dobbiamo guardare il lavoro e tenere unita la famiglia. E così di niente si fa tanto.
36.
LUCCHI Giusto lei è brava, tutti lo dicono che lei è brava.
37.
CIANI Brava, orco di Bacco, ma che brava!
38.
DANIELI Cosa dobbiamo decidere, aspettiamo domani allora?
39.
BASAGLIA Penso di no; quelle molte persone che non sono venute, non si capisce perché non sono venute.
40.
MASSI Perché sono malcontenti, perché parlate di calare la paghetta.
41.
BASSANI Eh, non si può fare a meno, se ci sarebbe un’altra soluzione io sarei la prima.
42.
VERZEGNASSI L’unica soluzione è di pagare la metà, e di aiutare i più indigenti.
43.
PIRELLA Io penso che effettivamente non vengano qua perché pensano che è inutile venire qua per parlare di calare la paga, inutile venire qua a confermare con la loro presenza affinché le paghe vengano diminuite.
44.
BASAGLIA Che fare?
45.
MASSI Cercare di non toccare le paghe. Per la prossima settimana siamo ancora alla paga normale, no?
46.
BASAGLIA Andiamo avanti così per una settimana ancora, e l’altra settimana…
47.
DANIELI Ma professore, dobbiamo decidere questa settimana, abbiamo discusso tutta la settimana scorsa, non è possibile tirare più avanti.
48.
MASSI No, ma questa settimana ci sono le 22 mila della Coca-Cola.
49.
BASSANI D’accordo, ma era già dell’altra settimana la somma di lire 22 mila della Coca-Cola.
50.
BASAGLIA Questa settimana ci sono altre 25 mila per il club «Aiutiamoci a guarire», e si può vedere, per questa settimana.
VERZEGNASSI Ah ecco, una settimana per così una settimana per colà, questo va bene, vuol dire che da qualche parte si fa su qualche soldo.
52.
BASAGLIA La prossima settimana si deve arrivare ad una conclusione!
53.
DANIELI La prossima settimana senz’altro si dovrà finire il problema.
54.
BASAGLIA Non avremo neanche la somma della Coca-Cola o del Club.
55.
VOCE NON IDENTIFICATA Allora?
56.
VERZEGNASSI Riguardo al telefono al bar io non approvo niente!
57.
BASAGLIA Signor Verzegnassi, abbiamo così poco tempo per parlare di questo problema delle paghe, che ci conviene proseguire!
58.
VERZEGNASSI Ma io credevo fosse finito!
59.
BASAGLIA Magari fosse finito!
60.
BASSANI Qui si dovrebbe fare come a Padova, quella volta che ero laggiù ci hanno riferito così, che quando hanno un bel mucchio di lavoro, coi proventi dei soldi che si riceve dal lavoro che si è fatto, qualcuno guadagna in dieci giorni anche 12-13 mila lire, e lo pagano, e poi non lo pagano più. Quella era produzione che fanno loro. Invece qui si lavora due mesi e si paga per un anno, è giusto?
61.
MASSI Sì.
62.
BASSANI E’ mal fatto no? Perché è sbagliato dare sempre e non lavorare, è sbagliato.
63.
VISINTIN Ma chi è che non lavora, se lavorano tutti!
64.
LUCCHI Non lavorano? Non è vero, le paghe del nostro reparto sono state fatte tutte con criterio, non è vero che sono state regalate. Qui tutti lavorano.
65.
SIGNORA DEVETAK Attualmente il signor Milani ha detto che dove al reparto B ci sono venticinque lavoratrici, basterebbero quattro persone e ventuno mandarle a spasso. Sono ventun persone che prendono la paga, e non fanno quasi niente! Dove lavorano venticinque persone basterebbero quattro persone per fare quel lavoro! Lo ha detto il signor Milani sabato scorso. Lui ha la situazione in pugno perché ha lui in mano le paghe, è lui che dà fuori le paghe.
66.
BASAGLIA Anche il dottor Tesi presiede a dare il lavoro!
67.
DANIELI E madre Secondiana sa meglio del dottor Tesi, perché lei è tutto il giorno con malate, il dottor Tesi viene soltanto, sì c’è lui, ma chi conosce veramente la situazione è la caporeparto.
68.
DOTTOR SCHITTAR Senta Sandra, Milani diceva che un lavoro può essere fatto bene da quattro persone invece che da ventuno; a lei sembra male che siano ventuno?
69.
DANIELI Sì è giusto che siano ventuno, perché così tutti con poco contribuiscono, magari in piccola misura in un lavoro complessivo, facendo le somme un piccolo lavoro tu, l’altro tu, si fa un grande lavoro. Ma non è detto che sia necessario mantenere venticinque persone al lavoro, non è detto che sia necessario, in tempi di carestia si potrebbe ridurre anche il personale e dare a queste persone, non dico di tirare via la paga, ma dare come dice la signora Giovanna, un sussidio di disoccupazione. E’ necessario ridurre la paga non soltanto a chi non lavora, è necessario ridurla anche a quelli che lavorano, per coprire questo deficit. Qui il problema è diverso.
70.
BASAGLIA Io vorrei sapere, qui in ospedale devono lavorare quattro persone quando invece sarebbe necessaria solo una persona, o no?
71.
BASSANI Nel nostro reparto ci sono dodici che lavorano sui copriletti, aiutano a fare i letti, sono piccolezze che fanno tutto in un’ora, di meno anche: e prendono 200-250-300.
72.
PEGORARI Qui in ospedale a me sembra che è più importante venire incontro a questi che lavorano poco, questi sì che hanno bisogno d’un incentivo, in quanto gli altri lavorano sempre, no?
73.
BASSANI Capisco, ma siccome si è parlato anche dei pensionati, no, si è parlato insomma quando si fa la conferenza nei reparti si chiede se quella ha bisogno o non ha bisogno, soltanto ai singoli, si potrebbe chiedere se a quella necessitano proprio quelle 200 lire, le prende proprio per sport anche, perché buone sono! Finché vengono! Vede, sono tanti punti da esaminare prima di fare una cosa concreta, non è facile. Io penso al mio modo. Su quelle venti-ventuno che prendono la paga, saranno sempre quelle dieci pensionate che prendono anche dalla famiglia; non è questa una carità che si fa, si dà la paga perché quando c’è lavoro, si fanno queste scatole o quello che viene, i lavori insomma in generale tutti, allora si fa un esame e si dice: ha lavorato tanto e adesso basta, sono passati anche cinque-sei mesi e non fanno più niente, allora non è giusto che questi prendano la paga. Invece un ammalato o un’ammalata, che si interessa di ogni piccolezza, che scopa, che lava i pavimenti, in ogni reparto si ha bisogno, allora lì si può dare 200-250 lire perché non hanno di più che quelle; ma diverse che non lavorano, che non vanno a lavorare, prendono la metà paga lo stesso sulle 300-400, non so. Io non parlo per invidia, non ho nessun interesse, ma mi sembra una cosa errata, non è giusto. Quando uno smette di lavorare e non lavora due-tre mesi e si vede che il lavoro non arriva da nessuna parte si dice: noi non li prendiamo e non li possiamo dare. Allora mettiamo adesso che duri un anno o un anno e mezzo che non ci sia più niente lavoro, bisogna pure che vengano in qualche maniera questi soldi per pagare gli ammalati.
74.
DANIELI Io sono d’accordo che è meglio la sottoccupazione alla disoccupazione, così almeno qualcuno fa qualcosa, come riguardo al problema del reparto B, dove sono venticinque persone occupate che fanno il lavoro di cinque persone. Sono convinta che è meglio la sottoccupazione che la disoccupazione completa, almeno così si fa qualcosa, però è anche vero che un sottoccupato riceve meno di uno che è occupato.
COMMENTO 10.
60-74. Alcuni interventi introducono dei temi che denunciano l’infiltrarsi di una certa perplessità nell’assemblea nel confronto fra il lavoro che si svolge all’interno dell’istituzione e il lavoro come si presenta all’esterno, «nel mondo civile». Il punto di partenza è dato dal raffronto tra il criterio di rimunerazione seguito in questo ospedale per un certo lavoro e quello seguito per un analogo lavoro in un altro ospedale: in entrambi i casi si tratta di una prestazione che i pazienti svolgono per una ditta esterna, e che non ha carattere di continuità ma alterna periodi di intensa attività a periodi di stagnazione. Notiamo innanzitutto che a questi lavori non possono essere applicate tout-court le analisi svolte in precedenza relative al lavoro per l’istituzione, poiché il rapporto con un datore di lavoro esterno è strutturato (o per lo meno: può essere strutturato) in modo diverso. Se valgono ancora le cautele relative alla libera contrattazione, e dunque quelle relative ad un lineare rapporto tra lavoro e denaro in ospedale psichiatrico, bisogna notare che esistono in questo caso le premesse per una maggiore presa di coscienza da parte dei pazienti delle condizioni oggettive in cui si colloca l’utilizzazione del loro lavoro: nel rapporto con la ditta esterna cadono molte ambiguità inerenti ai ruoli e ai valori dell’istituzione; i pazienti riescono più facilmente a identificare il padrone, e a cogliere gli aspetti contrattuali di un rapporto di lavoro e gli impegni reciproci che esso comporta. Il raffronto fra i due sistemi di pagamento seguiti nei due diversi ospedali ripropone il rapporto tra rendimento e rimunerazione: in questo confronto i degenti colgono le contraddizioni esistenti fra la funzione terapeutica del lavoro, la produttività, e la funzione terapeutica del denaro. Emergono infatti i valori positivi di un modo di lavoro estraneo alla società esterna: è giusto che ventuno persone facciano un lavoro che potrebbe essere svolto da quattro sole («perché così tutti con poco contribuiscono, magari in piccola misura in un lavoro complessivo»; 69).
Il significato di questa definizione può venir svilito (74: «meglio la sottoccupazione che la disoccupazione, così almeno si fa qualcosa»); ma introduce ugualmente un concetto di grande importanza e indica la possibilità che i pazienti ne prendano conoscenza.
La compartecipazione di tanti ad uno stesso lavoro è infatti una delle caratteristiche positive fondamentali delle occupazioni lavorative artigianali oggi in atto nell’ospedale: in esse il gruppo è coinvolto nella produzione, ma non nel senso (di nuovo alienante, serializzante) di un lavoro a catena, in cui si formano tanti «operai parziali». Si cerca, al contrario, di mettere a disposizione di ciascuno la conoscenza di tutte le fasi di lavorazione, perché su questa «cooperazione semplice» si fonda in parte la possibilità di una libera interazione, e quindi il significato terapeutico dell’attività in gruppo. Inoltre il riconoscimento positivo dei «tanti che fanno il lavoro di pochi» implica anche il riconoscimento che vi sono diversi ritmi di lavoro e che ciascuno può seguire il proprio tempo: anche questo può essere un fattore «liberante», se consente a ciascuno di appropriarsi del suo tempo, di non agire sotto lo stimolo immediato di una efficienza, di un rendimento che si misuri in quantità di denaro. Vogliamo però notare che questa presa di coscienza dell’assemblea, anche se parziali, riflette gli squilibrii esistenti all’interno dell’ospedale, che si muove contemporaneamente a diversi livelli di maturità sociale. Il discorso della cooperazione, da noi dilatato nei suoi spunti positivi, si è mosso partendo dai lavori interni del reparto B donne: ed il settore dei lavori interni nei reparti femminili di lungodegenti si presenta tra i più istituzionalizzati. Infatti mentre nei reparti maschili le pulizie sono fatte in gran parte da una «squadra pulizie» che si muove in modo abbastanza autonomo da un reparto all’altro, e che percepisce compensi fra i più alti, nei reparti femminili il lavoro viene svolto all’interno di ciascun reparto, e vengono chiamate a parteciparvi moltissime degenti, che «tengono la casa» per i compensi più esigui. Ciò riflette indubbiamente sia la differenza del ruolo tradizionale della donna nei confronti dei «lavori domestici», sia il diverso impulso dato, nella storia dell’ospedale, ai reparti maschili: ma ci fa comprendere come situazioni più avanzate (quali consideriamo quelle dei reparti maschili) possano essere «integrate» al sistema istituzionale se non vengono continuamente messe in discussione e come, d’altra parte, le situazioni più arretrate possano offrire ancora un margine di reale contestazione sia pure timidamente espressa nella protesta individuale.
75.
DOTTOR L. JERVIS Io le domando signora Giovanna come vede lei questo lavoro: durerà, aumenterà o diminuirà?
76.
BASSANI Se non si interesseranno non aumenterà mai, perché nessuno prende iniziative, qua. Nessuno si interessa più di tanto, allora bisogna trovare, cercare.
77.
DANIELI Io ho già detto in altra assemblea che qui manca la persona che coordina, tra il datore di lavoro e il produttore, tra il produttore e il datore di lavoro, manca questa persona che coordina.
78.
LUCCHI Va bene, va bene ma non devi ragionare in quel modo lì. Il lavoro loro lo accettano anche oggi, se viene.
79.
DANIELI Ma il lavoro chi lo procura qui, nessuno! Il procacciatore di affari qui chi è? Nessuno!
80.
PEGORARI Certo che ci vorrebbe una persona messa appunto per questo e che si interessasse un po’ di più della gente, così avrebbe qualcosa da fare.
81.
MEDEOT Quante persone sono che lavorano alle scatole? Sono sempre una decina, e se non c’è lavoro di scatole restano disoccupate.
82.
BASSANI Io non sono contraria. Io dico che sarebbe la più bella cosa levare via a quelli che hanno 1000 lire o 600-700, levare via quel poco, se non arrivano a raccogliere 25 mila lire si prendano 15 mila, intanto è sempre una cosa fissa, un aiuto fisso.
COMMENTO 11.
75-82. Chi deve prendere e sostenere l’iniziativa di procurare del lavoro alternativo a quello per la istituzione? E nel caso delle attività «per l’esterno», a chi spetta il coordinamento tra l’impresa e il gruppo produttore di forza-lavoro? Sono quesiti posti dagli stessi pazienti, i quali sembrano comunque sostenere l’indispensabilità di questo ruolo di mediazione, sulla base della esperienza di quanto sta avvenendo nell’ospedale; in assenza di una tale funzione il lavoro può essere discontinuo (81) e scarso (82). E’ interessante notare anche come, quando si parla di intervento nei lavori che dànno un profitto, i pazienti si riferiscano sempre e solo ai lavori artigianali-industriali per le ditte esterne (confronta comm. 10).
Senza dubbio è un problema che va posto, del quale i pazienti sembrano aver una precisa coscienza (77, 79, 80). E’ necessario che il medico, o comunque chi determina le iniziative ergoterapiche, sia in grado di distanziarsi dall’istituzione per compiere una serie di scelte, organizzative e di principio, che portino ad una valorizzazione di quelle attività lavorative che offrono una provvisoria garanzia di avere un qualche senso terapeutico. Resta però il dubbio se questo tramite di mediazione debba essere rappresentato necessariamente da un intervento medico; a questi è richiesta una indicazione dei criteri di impostazione delle attività lavorative in gruppo, in armonia con le finalità terapeutiche (in questo caso non più «eventuali»); partecipa a questa finalità anche una messa a punto del significato e del valore del denaro come retribuzione nei diversi casi (confronta comm. 13; ma difficilmente il medico può rappresentare l’unico tramite fra la società esterna e il mondo ospedaliero: egli può allargare il suo campo d’intervento, come in Inghilterra hanno fatto Clark e altri, svolgendo una sorta di «terapia amministrativa» tesa a coinvolgere e coscienzializzare enti e istituzioni della società esterna nei confronti dei problemi dell’assistenza psichiatrica intra- ed extraospedaliera; ma è anche necessario che queste nuove istanze siano presto in grado di fare a meno dello schermo protettivo della mediazione medica, per costituirsi in quell'”organismo di solidarietà” prefigurato da Bonnafè, Chaurand, Tosquelles, che sia un reale intermediario fra il malato, l’ospedale, la società («Ann. méd.-psychol.», 1947, I, 209).
E’ certo questa una mediazione difficile; essa potrebbe forse riuscire, ma solo nella misura in cui questo organismo di solidarietà operasse in un reale contatto con la realtà ospedaliera, al di là di qualsiasi tentazione paternalistica, con finalità che non fossero solo quella della reintegrazione rapida del malato in un contesto sociale le cui artificiosità continuassero ad essere considerate come mali indispensabili. Una mediazione di tal genere potrebbe essere attuata forse anche nei confronti del lavoro terapeutico: predisponendo o agevolando, ad esempio, strutture per il lavoro, ospedaliere ed extraospedaliere, nelle quali la «protezione» che si offre sia un reale sostegno psicodinamico alla riabilitazione del singolo individuo, e non una tutela cautelativa in vista di una reintegrazione automatica, che le strutture socioeconomiche esterne non saranno poi in grado in molti casi di assicurare. Tutto ciò d’altra parte difficilmente potrebbe realizzarsi se le istituzioni psichiatriche, nelle attuali loro dimensioni e caratteristiche, continuassero a sussistere come un male necessario, o come una realtà che si possa solo riformare con un atto volontaristico.
83.
MASSI E’ mobile, ma al di sotto del quale non si scende, caso mai si sale.
84.
BASSANI Perché a tutti dispiace perdere quella piccolezza, è poco, ma un’anima che non ha nessuno, che prende queste 600-700 lire è una carità per modo di dire, ma per uno che non ha è una gran cosa, perché dice, guarda, li ho presi e posso prendermi un caffè; ma chi ne ha e li percepisce lo stesso è una cosa ingiusta. Si dovrebbe esaminare questo. Chi li ha dalla famiglia, da tante parti, a quelli no, perché sono diversi. Ecco lì è un punto giusto di levarli via.
85.
BASAGLIA Certo tutto questo discorso porta anche ad un altro discorso: che significato ha in ospedale la paga?
86.
DANIELI Premio! Un premio alla costanza di chi lavora.
87.
BASSANI No, non è vero niente. La paga per gli ammalati, quelli che fanno e che non fanno, o come si sentono, viene percepita non so, come ammettiamo anche nelle mie povere parole, anche come un sollievo e una terapia, perché tira su di morale, dà il coraggio, si sente più in forza ecco. Credo che sia questo. Non perché hanno fatto un po’ di lavoro, più per sollevare il cuore. Cosa vuole, con quella paga lì si fanno pochi salti!
88.
BASAGLIA Se si deve diminuire o aumentare bisogna vedere che significato ha per ognuno la paga! Che significato è se ha 200-300 o 1000 lire per settimana? Perché li prende?
89.
BASSANI Li prende perché se li ha meritati; però è anche, torno a ripetere, che se si mette a lavorare vuol dire che la mente, insomma è una specie di cura, nel mio modo di pensare, per lui è anche cura di lavoro. Ha la mente occupata dal lavoro e la situazione quindi cambia. Non è più il mezzo insceminito, seduto là che pensa. E’ già occupato al lavoro, ma però torno a ripetere, c’è chi rende e chi non rende.
90.
CIANI Io dico questo però, lei ha preso 6 milioni e 6 milioni se li consuma, e non oltre il muro, non oltre la rete. Quel che si riceve si riceve e non toccare la paga a nessuno. E se no l’ospedale prenda gli operai e paghi. Quelli che si ha si consuma, e non andare oltre il muro.
91.
DOTTOR SLAVICH A me pare che ci sia un grosso equivoco, qui si parla sempre di quelli che prendono la paga e non lavorano, ma non sappiamo chi sono, nome e cognome, e quanti sono per poter dire… Lei lo sa?
92.
CIANI Io non voglio sporcare nessuno io.
93.
SLAVICH Non si tratta di sporcare.
94.
CIANI Io non voglio sporcare nessuno, se non lo sapete voi, abbastanza male. Bisogna fare un controllo, chi lavora e chi non lavora, inutile qui parlare tanto.
95.
BASAGLIA Ma l’ospedale è una industria? E’ una fabbrica?
96.
LUCCHI No, neanche per sogno, che fabbrica è? Qua non c’è niente.
97.
CIANI E allora dove avete messo questo mezzo milione? Dove è andato a finirla?
98.
BASAGLIA E’ la paga ai degenti, è la paga ai malati!
99.
CIANI Non occorreva dare di più, solo un tanto, 6 milioni sono e quelli si devono consumare, non di più.
100.
BASAGLIA Ed è per questo che ho chiesto quale significato ha la paga per chi lavora in ospedale!
101.
VERZEGNASSI Io dico che c’è quello che lavora e ha anche 200 lire, e chi non lavora e ha 1000 lire sa! E poi avete cominciato qui come col bar, aumentiamo o non aumentiamo, e in una volta è tutto sparito, così sarà anche questa volta.
102.
BASAGLIA Perché è tutto sparito?
103.
CIANI Perché il governo stesso vi aumenterà! Vedrete, di giorno in giorno, vi aumenterà.
104.
MASSI Solo le bibite aumenta il governo, il caffè lo aumenteremo noi.
105.
CIANI E allora se a uno diminuite la paga e aumenterete il prezzo del caffè vuol dire che non berrà più, no.
106.
MEDEOT Io non vado sicuro a bere più.
107.
MASSI Invece di prendere dieci caffè ne prenderete cinque.
108.
MEDEOT Sì, ma incasserete meno!
109.
MASSI D’accordo, incasseremo meno, ma quello che si incassa, si incassa anche a favore del C.
110.
CIANI Io ho chiesto oggi a due di loro, venite a lavorare con me fuori! Va’…!, mi hanno risposto.
111.
SIGNOR HUMAR Non vogliono lavorare!
112.
BASAGLIA Perché non vogliono?
113.
CIANI Perché non hanno volontà, sono abituati a stare dentro e non vanno più fuori.
114.
PIRELLA Forse non vogliono lavorare con lei!
115.
CIANI Ah, con me sì!
116.
BASAGLIA Allora se sono abituati a stare dentro e non vogliono venire più fuori, cosa bisogna fare, lasciarli dentro?
117.
CIANI Faccia quello che vuole, peccato che quell’ospedale vecchio è chiuso, perché si poteva portarli lassù.
118.
BASAGLIA A cosa fare, lassù?
119.
CIANI Lassù si svegliavano un po’.
120.
VERZEGNASSI E anche lei dottore è come questo qua, datevi la mano assieme! Può dire cosa vuole lei, è come quelli di Roma.
COMMENTO 12.
110-20. Un referendum fra i pazienti aveva approvato, con una leggera maggioranza, un aumento dei prezzi del bar, il cui ricavato sarebbe andato a favore dei pazienti dei reparti chiusi (reparti C), visti in genere come i più indigenti e più impossibilitati a «guadagnare» del denaro con il lavoro (la minaccia di una decurtazione dei salari, della quale si sta discutendo, aveva poi fatto rientrare provvisoriamente la decisione; 101).
In genere la presenza dei due reparti chiusi nell’ospedale sembra vissuta dai pazienti in modo ambivalente e in apparenza contraddittorio; prevale di solito, su un piano superficiale, un atteggiamento oblativo, si ostenta nelle assemblee uno spirito «caritatevole» nel richiedere l’apertura anche di quei due reparti, perché tutti, anche quei «poveretti» possano godere della libertà. Un certo peso può avere al riguardo anche il fantasma della «punizione», sentita tradizionalmente come ancora possibile, e realizzabile, in maniera non simbolica, con la limitazione della libertà di movimento. In realtà, però, la presenza del reparto chiuso sembra assolvere nel vissuto del paziente a funzioni più profonde. La sua esistenza consente sempre al paziente di crearsi una distanza, di proiettare in uno spazio circoscritto, esterno al suo spazio, tutto quanto di negativo (paure, inferiorità, bisogni) è insito nella condizione da lui stesso vissuta. Alla mancata o incompleta coscienza della sua propria esclusione sociale egli supplisce con questa sorta di “esclusione interna” e il reparto chiuso finisce con l’assolvere nell’ospedale alla medesima funzione che l’ospedale chiuso assolve nei confronti della società. In questo senso, di difesa attraverso un meccanismo di esclusione interna, vanno intese probabilmente le distinzioni fra pazienti «debolissimi, deboli, meno forti», dibattute nell’assemblea precedente (1, 101, 111, 113); ritorna ora questa esclusione con la valutazione negativa della capacità lavorativa dei pazienti dei reparti C (111, 113, 117, 119 ). Sarebbe del tutto illogico, d’altra parte, attendersi che il meccanismo della esclusione, così diffuso nella società «sana», svanisca all’interno dell’ospedale per essere sostituita da una solidarietà senza contraddizioni; è, questa dell’esclusione interna, una realtà di cui si deve tener conto, per evitare che molti degli interventi e delle prese di posizione di queste due assemblee rimangano oscuri.
121.
BASAGLIA Chi sarebbero questi?
122.
VERZEGNASSI I nostri cari parlamentari, parliamo di politica adesso. Grave è.
123.
BASSANI Dunque l’unica cosa sarebbe che lunedì ogni medico del suo reparto quando ha la conferenza, informarsi esattamente chi lavora, quanti mesi prendono i soldi, quanto guadagna, perché altrimenti qui non si può né crescere, né aumentare, né calare, né voltare, né girare. Perché è un caos che non si risolve niente. Quella piccolezza, qualcuno ha 150-200, non so, cosa vuole tirare via là? Le sembra a lei signor direttore, no? Fare un esame fra tutti noi.
124.
BASAGLIA Bisogna vedere la resa di chi lavora, e il fatto che vada a lavorare.
125.
HUMAR Bisogna vedere chi lavora e chi non lavora!
126.
CIANI Lui non vede niente, perché se uno non ha una posizione giusta non può fare niente. Lui scrive, fa le paghe, è d’accordo e basta. Lì ci vuole un esame giusto, vedere, controllare e poi fare la paga.
127.
BASAGLIA Mi sembra che il problema delle paghe sia interessante per due cose; prima di tutto che senso ha la paga per chi lavora in generale? E, secondo, bisogna badare l’efficienza, cioè alla resa di lavoro, o è sufficiente che uno vada a lavorare per prendere la paga, dato che, come ripeto, l’ospedale non è una industria?
128.
BASSANI Appunto, io ho detto già prima, è qualcuno che prende il lavoro anche con soddisfazione in quanto si svaga, va fuori, cambia reparto, e si perde così; tanto piuttosto che stare senza fare niente, si lavora quel poco. Qualcuno riceve invece quella piccolezza di cui non avrà bisogno!
129.
DANIELI Il signor direttore ha chiesto che significato abbia la paga per chi lavora, viene risposto che la paga è considerata quale premio alla costanza e alla buona volontà che ha dimostrato l’ammalato nel lavoro.
130.
BASSANI Un ammalato che va a lavorare si sente già in via di guarigione, guarigione magari no, ma insomma, si sarebbe più imbambiniti, tutti a pezzi.
131.
SLAVICH E allora non occorre che venga pagato questo lavoro.
132.
DANIELI Ma pagano, per spingere gli ammalati a lavorare, è logico.
133.
BASSANI Non è vero niente, è un sollievo anche.
134.
DANIELI Sì è anche un sollievo a lavorare, tutti i premi che si ricevono sono sollievi.
135.
SLAVICH Secondo me c’è qualcuno che non dice giusto. Siccome il lavoro è una cura, è una terapia, dice, allora non deve essere pagato perché la terapia non deve essere pagata. Per me è sbagliato.
136.
LUCCHI Ma siccome hanno sempre bisogno di qualche cosa, bisogna dare, almeno un po’.
137.
SLAVICH Cioè allora anche i soldi sono una cura.
138.
LUCCHI Certo i soldi sono la prima cosa. C’è qualcuno che ha detto la miglior cura è la paga. Qualcuno ha detto così, la miglior cura è la paga! Naturalmente per prendere la paga bisogna lavorare ed è sottinteso che chi prende la paga lavora, è sottinteso.
139.
VERZEGNASSI C’è stato proprio quel signore che ieri ha fatto una proposta al bar, ha detto di ricorrere all’aiuto dei parenti.
140.
SLAVICH Mi pare che si dicesse che è necessario avere qualche liretta per prendere il caffè e sigarette. Dunque si potrebbe anche dire che non tanto i soldi sono la cura, quanto il non avere i soldi è una non-cura, è una anticura, qualcosa che fa male, insomma.
141.
BASSANI Per incoraggiare una persona, qualcosa gli si deve dare, perché sono cose necessarie.
142.
PIRELLA Io penso che il lavoro terapeutico è visto in due direzioni, anzitutto come cura, in secondo luogo perché permette di ottenere questo po’ di denaro la cui disponibilità dà un certo senso di liberazione, perché non è vero che tutti spendono con comodo, io so di persone le quali mettono via gran parte di queste quote. Allora il senso è questo che a loro dà soddisfazione fare questo svago, allora questo è senz’altro un lavoro terapeutico, cioè avere la disponibilità di una somma di denaro.
143.
CIANI Questa è una malattia che circola da per tutto, anche fuori. Domandi alle suore dei reparti, hanno gli armadi pieni di scatole tutte piene di soldi, le donne non spendono come gli uomini, sa.
144.
MEDEOT Risparmiano, per spendere in seguito.
145.
MASSI Le donne sono quelle che hanno più soddisfazione ad avere le paghe.
146.
BASSANI Sì, perché loro non sprecano. Perché risparmiano, poi si comprano un capo di vestiario che è necessario per loro, quindi hanno soddisfazione di indossare un pezzo nuovo.
147.
BASAGLIA Io direi che quello che ha detto il dottor Pirella è una cosa importante, e io sono d’accordo con lui nel senso del denaro, il senso del denaro è tanto, vuol dire il significato di libertà che è nell’ospedale.
148.
BASSANI E per chi lavora non rappresenta neanche un ospedale. E’ convinto lei professore di questo? Si è chiusi, ma non rappresenta un ospedale. E’ già un’altra cosa, ci si sente in attività, è un altro modo di vivere, non è più quello. Perché non sono a letto quelli che vanno a lavorare, vanno a spasso, vanno fuori, si sentono chiusi sì, mentre nello stesso tempo a loro sembra una villeggiatura, in un certo senso.
149.
PIRELLA Vivono come i pensionati.
150.
BASSANI Ecco, vivono come i pensionati.
151.
DANIELI Già san Paolo diceva, chi non lavora non mangia! Mentre qui mangiano anche quelli che non lavorano, anzi prendono anche la paga quelli che non lavorano.
152.
MASSI L’unica soluzione è fare una revisione reparto per reparto, altrimenti qui non si potrà mai fare niente.
153.
BASAGLIA Se è vero che il senso del denaro in ospedale è libertà, allora diminuendo i soldi diminuiamo la libertà?
154.
DANIELI Certo, non gliene resta tanta. Ma se non si può fare a meno, cosa dobbiamo fare?
155.
LUCCHI Era lei in ospedale vent’anni fa?
156.
DANIELI No, non ero neanche nata, io.
157.
LUCCHI Beh oggi è Parigi al confronto, Parigi.
158.
VERZEGNASSI Sì, oggi è Parigi qui al confronto di vent’anni fa. E il governo non ci pensa?
159.
MASSI Siamo dimenticati caro signor Verzegnassi, ormai siamo già catalogati.
160.
VERZEGNASSI Ma fra venti-venticinque anni non sarà più così.
161.
DEVETAK Beh speriamo.
162.
BASSANI Io direi in una situazione come la nostra, fare una revisione reparto per reparto e toccare quelli che hanno troppa paga.
163.
MEDEOT Troppa non è mai, cosa vuole, uno che ha, ha 1000 o poco più, non è troppo.
164.
VISINTIN Io dico, perché obbligate un uomo che non ha niente, è ammalato, che non ha nessuno, lo obbligate a lavorare? Se dite che non potete più aiutare quelli del reparto C, e adesso levate anche questo, e come li potete aiutare in questo modo?
165.
CIANI Come vuole che li aiuti, se non hanno aumentato niente, non hanno fatto niente ancora, verrà discusso per un mese ancora.
166.
MASSI Ma siamo in chiusura della seduta e proporrei di chiudere con un augurio, che tutto possa essere risolto.
167.
BASAGLIA Il fatto di sapere cos’è il senso del lavoro veramente mi fa sperare che non si dovrà diminuire questo mezzo milione.
168.
DANIELI Il senso del lavoro è terapia e abbiamo già discusso in sedute passate, e l’ha chiesto lei professore. Il senso del lavoro è terapia. Uno si sente di lavorare, i forti, i meno forti, abbiamo fatto già la discussione sabato scorso.
169.
PIRELLA E allora noi medici possiamo dire che togliere i soldi come compensi è come diminuire per esempio i soldi per i farmaci, le medicine.
170.
DANIELI Esatto sì. Anzi direi che aiuta più il lavoro che le medicine, le medicine sono di contorno, le medicine mettono in condizione l’ammalato di lavorare, ma poi quando l’ammalato lavora, è più la terapia che riceve dal lavoro che dalle medicine.
171.
BASAGLIA Questo mese allora come ci comportiamo?
172.
BASSANI Intanto risparmiando, caso mai si può sempre poi aumentare.
173.
BASAGLIA Allora è meglio decidere già adesso come comportarsi per questo prossimo mese.
174.
MASSI Cioè se con questo mese dobbiamo pagare di meno o no?
175.
BASSANI Sì, pagare di meno.
176.
BASAGLIA Sentiamo una persona che lavora, sentiamo cosa dice lei.
177.
MEDEOT Secondo me è da andare reparto per reparto e vedere dove tirare via e a quel che possono tirare via, e il debito se non si paga in una volta se lo pagherà in due volte.
178.
BASSANI Siccome, non per nominare di nuovo Milani, lui mi ha detto così che senza toccare tanti, a 13800 lire potrebbe già arrivare, dunque sarebbe 14 mila lire ecco che dopo entro un mese, dobbiamo discutere, cioè si può ragionare anche per quelle dieci che manca.
179.
BASAGLIA Scusi Giovanna, la prossima settimana con cosa pagheremo?
180.
BASSANI E cosa vuole che le dica, intanto si tira via queste 13 mila insomma non toccare le paghe piccole, sarebbe sulle 13800.
181.
MASSI Beh, sono le 11, signori, la seduta è tolta.
COMMENTO 13.
129-81. L’accento del discorso si sposta ora dal senso del lavoro a quello della «paga»: in una lunga serie di interventi la discussione sembra liberarsi dal vicolo cieco della correlazione fra lavoro, produzione e retribuzione, per considerare più attentamente il significato dei compensi, e del denaro che conseguentemente circola in ospedale. Da più parti si afferma, semplicemente, che la paga serve a soddisfare alcuni bisogni elementari (133, 134, 136, 141). Si potrebbe essere tentati, commentando queste affermazioni, di sottolinearne la ovvietà e la banalità, ma sarebbe forse un apprezzamento precipitoso, perché ben difficilmente è possibile comprendere empaticamente la situazione vissuta da una persona che per lungo tempo sia priva della più piccola somma di denaro. Si tratta di un tipo di povertà individuale assoluta, conosciuta forse solo all’interno della istituzione totale, tanto più paradossale e alienante in quanto quasi tutti i bisogni elementari soddisfacibili serialmente in massa (cibo, calore, sonno, entro certi limiti anche il vestiario), sono soddisfatti automaticamente dalla istituzione, mentre viene quasi sempre negata ogni forma di proprietà individuale, sia in natura sia soprattutto in denaro, e quindi il soddisfacimento di ogni bisogno “individuale” elementare. Non vi è dubbio che la privazione completa e continua di denaro sia in sé gravemente «disumanizzante»; a questa conclusione giunge anche Vail, il quale in una serie di interviste a pazienti ricoverati in un ospedale americano, alla domanda su quali fattori potessero rendere «più umana» la vita in ospedale otteneva frequentemente la risposta ottativa «l’avere un centesimo in tasca» (D. J. Vail, “Dehumanization and the Institutional Career”, Charles e Thomas Publishers, Springfield [Ill.] 1966, p.p. 169 segg.). La disponibilità individuale di denaro appare quindi un fatto positivo innanzitutto in via riflessa, in quanto viene a mancare uno dei più pesanti fattori di istituzionalizzazione, la indigenza assoluta, che isola il paziente in un cerchio di impossibilità agevolandone la passivizzazione e la dipendenza; è poi appena il caso di sottolineare come il possesso di denaro e la sua circolazione abbiano una positiva funzione di stimolo al porsi individuale del paziente nel tessuto delle relazioni interpersonali, sul piano delle scelte spontanee quotidiane; come consenta, ad esempio, la gestione del tempo libero, e la personalizzazione del proprio tempo vissuto su un «ritmo di spesa», scelto al di fuori di ogni condizionamento e di ogni controllo.
Non si è certo dunque molto lontani dal vero quando si suggerisce la formulazione «il denaro è sinonimo di libertà nell’ospedale» (147). Due sembrano essere le vie secondo le quali può esprimersi questa libertà: come “libertà nei consumi” e come “libertà nel risparmio” (142, 146). Non vi è dubbio che la prima è vissuta dai pazienti in modo più spontaneo e diretto della seconda: né potrebbe essere diversamente, se il denaro viene vissuto, come si è visto, come possibilità di soddisfare alcuni bisogni elementari individuali. E’ da notare d’altra parte che le spese sono sempre modeste («con quella paga lì, si fanno pochi salti»; 87), ed avvengono comunque sempre nell’unica alternativa di mercato disponibile nel campo ospedaliero, nel bar, per un caffè, una bibita, un pacchetto di sigarette eccetera. La restrizione del campo contribuisce indubbiamente a rendere più sopportabili (in termini di potere d’acquisto) gli esigui compensi: ma ne relativizza anche il significato di libertà. Più problematica sembra invece la cosiddetta «libertà di risparmio». Essa è un fenomeno vistoso, come viene anche sottolineato (143 ), soprattutto nei reparti femminili, e non manca di irritare gli uomini (e anche di contribuire indirettamente al perpetuarsi del dislivello di paga media fra uomini e donne). La «naturale inclinazione al risparmio» della donna, che trova riscontro anche nella cultura extraistituzionale (per la quale il vero e proprio consumo voluttuario è prerogativa dell’uomo) è stata incoraggiata in alcuni reparti femminili con lo scopo – in astratto «buono» – di rendere possibile l’acquisto di capi di vestiario personali, scelti secondo il gusto di ciascuna e tenuti con più cura. In pratica però molto spesso il «risparmio» si riduce ad una consegna del proprio compenso alla caporeparto, e, al limite, ad un successivo disinteresse per la somma raccolta, che non è più vissuta come propria. Dato che questo modo di «amministrare» soddisfa le istanze di controllo burocratico della istituzione, la gratificazione rappresentata dal denaro, con le sue valenze liberalizzanti, è di nuovo sostituita con quella della approvazione da parte dei superiori, con le inevitabili valenze di dipendenza.
La libertà derivante dal possesso di denaro, seppure molteplicemente condizionata, si configura in ospedale prevalentemente come libertà di consumo. E’ ben difficile che essa possa nelle condizioni attuali portare al raggiungimento di una sorta di microsocietà del benessere: sarebbe questo comunque un pericolo latente, che rischierebbe di rendere del tutto artificiosa la struttura terapeutica dell’istituzione. Seppur in molti casi una corresponsione in denaro, che echeggia formalmente il «pensionamento», viene mantenuta a scopo terapeutico sociodinamico, indubbiamente la condizione del «pensionato» (in favore della quale esiste una corrente di opinione fra i pazienti; 148) non sembra avere molto senso in una situazione terapeutica. Appare d’altronde dagli interventi come siano gli stessi pazienti a sentire la necessità di ancorare ad altre motivazioni concrete il significato del denaro che percepiscono. Esso è visto da alcuni come “premio” «alla costanza di chi lavora» (129). Distinto, ma messo ancora in relazione con la produzione di forza-lavoro, questo premio, così come è configurato dai pazienti, mette di nuovo in luce realisticamente l’aspetto di «dipendenza personale», come ambito riconoscimento di una prestazione che si accompagni con la doverosa virtù morale della costanza. D’altro lato questi interventi, riprendendo il corretto termine amministrativo istituzionale («Premi in denaro ai ricoverati lavoratori») sottolineano la totale incongruità dell’uso del termine «paga»: non c’è salario reale in questa situazione, la dimensione stessa dei premi lo rende evidente.
Non tutti i pazienti sembrano però accettare questi minacciosi aspetti personalistici legati al «premiare» (che tra l’altro richiamano anche, corrispettivamente, quelli legati al «punire»): esistono all’interno della microsocietà ospedaliera forze meno arretrate, e più coinvolte nei riverberi del sistema liberistico esterno, forze per le quali la visione del denaro come premio svilisce la serietà dell’impegno lavorativo. Per molti di questi pazienti la retribuzione è piuttosto un “incentivo” (Comunità 1, 94, 101; Comunità 2, 141): è questa una definizione alla quale corrisponde la parziale presa di coscienza di un meccanismo di incentivazione realmente in uso nella prassi; esso è visto però contemporaneamente da due angoli visuali: quando i pazienti che intervengono riferiscono la incentivazione a se stessi, al proprio lavoro, essi ripropongono il meccanismo di«esclusione interna» che, mutuando dal concetto di libertà borghese il diritto all’ascesa economica individuale, contribuisce ad una nuova stratificazione della società ospedaliera (realizzata, in maniera simbolica e non, dalle classi di paga); quando invece sembrano intravvedere la potenziale finalità terapeutica della incentivazione, mostrano di ritenerla applicabile soprattutto ai pazienti «deboli» dei reparti chiusi: ciò che in realtà non avviene, e non può avvenire. Infatti se per il paziente ancora segregato nel reparto chiuso la proposta di un incentivo in denaro può valere a svincolarlo dalla passività reificante dell’indigenza assoluta, non dobbiamo dimenticare che, nel “momento stesso” in cui egli viene realmente a partecipare alla situazione comunitaria, il meccanismo della incentivazione economica si tramuta per lui in un pesante handicap: non sarà infatti certo una situazione lavorativa concorrenziale, basata sull’incentivo economico alla produzione, che potrà aiutarlo nello stabilire nuovi rapporti interpersonali in un gruppo di lavoro nel quale egli possa scegliere il suo tempo e il suo modo di porsi. In realtà una incentivazione che consenta una mobilità ascendente dei salari e che sia legata in modo più diretto alla produzione sarebbe forse, in via ipotetica, realizzabile solo nel caso di gruppi molto omogenei, che abbiano maturato una coscienza del loro rapporto ambiguo con la istituzione come datore di lavoro, e che siano in grado di seguire l’aumento “visibile” della loro produzione (una situazione dunque nella quale potrebbe realizzarsi il tipo di «cooperazione» fra i pazienti che è visto come senz’altro possibile da Bonnafè e coll.); in questo caso l’angusto margine «terapeutico» dell’incentivo potrebbe essere rappresentato da una prima forma di contrattazione cosciente, come mezzo di autoidentificazione nel rapporto dialettico con il gruppo; rimane però il dubbio che ciò non sia possibile in seno al più vasto contesto istituzionale, anche per il rischio che questo «spirito cooperativo» finisca per assommare all’esclusione interna tra individuo e individuo quella fra i diversi gruppi lavorativi.
La discussione sul finire di questa seconda assemblea si perde di nuovo nel viluppo di contraddizioni già più volte emerse, e nei provvisori tentativi di soluzione compensatoria. Di nuovo, per un momento, la situazione vissuta attualmente al confronto col passato diventa «Parigi»: ma non durerà a lungo, non tarderanno a ripresentarsi, in forma e su temi diversi, tutta la serie di contraddizioni insanabili che animano e dànno corpo alla vita comunitaria. In queste due assemblee i pazienti intervenuti ne hanno indicate molte: la tendenza alla assoluta giustizia retributiva che coesiste con la difesa del privilegio acquisito; la retribuzione che è vista come sussidio assistenziale che libera dal bisogno, ma anche come premio che sancisce una dipendenza, o incentivo che permette una ascesa liberistica nella scala sociale interna; il lavoro come hobby, come «terapia», ma anche come cosa «seria» e impegnativa; la accettazione passiva della situazione e la attiva contestazione del sistema; la integrazione comunitaria che si regge però anche sui meccanismi di esclusione interna; e così via. Non dovrebbe meravigliare, un simile cumulo di contraddizioni; all’interno del campo ospedaliero non possono non riverberarsi tutte quelle della società esterna, e non possono che essere accentuate dalla struttura caratteristica della istituzione totale: solo che vi sia il tempo e il luogo – come queste assemblee – nel quale esse possano venir ventilate, e se ne possa prendere una coscienza sia pure parziale. E’ importante piuttosto che coloro che detengono il potere istituzionale non cedano alla tentazione di sanare d’un tratto anche tutte queste contraddizioni, con una serie di decisioni «obiettivamente giuste»; per quanto concerne ad esempio il lavoro terapeutico in ospedale, è importante che non si giunga ad assimilare il lavoro produttivo della società esterna con il lavoro in ospedale, scotomizzando le peculiari caratteristiche di quest’ultimo; che non si presuma di aver ristabilito l’equazione economica del corretto rapporto lavorativo distribuendo compensi solo simbolici, e non si tralasci di tenere presente che il lavoro in una istituzione terapeutica è primariamente una “occasione terapeutica”, e non economica. Che poi i pazienti riscoprano un significato economico al loro lavoro quotidiano è un fatto altamente positivo, ancorché prevedibile; ma non ci si potrà meravigliare se, contemporaneamente, scopriranno anche le caratteristiche spesso alienanti e (non per loro) «imbarazzanti» di questo lavoro, cogliendo anche in questo fatto un indice della loro “esclusione sociale”.
E’ la presa di coscienza di questa esclusione che costituisce forse l’unica forma di libertà acquisibile attivamente dal paziente nelle attuali istituzioni ospedaliere; e se una attività lavorativa in gruppo può contribuire – come sembrerebbe da queste due assemblee – a dotarlo di una qualche possibilità di contestazione dialettica del sistema in cui vive, in questo caso una tale attività assolve in gran parte alla sua funzione.
JOHN CONOLLY, DALLA FILANTROPIA ALLA PSICHIATRIA SOCIALE
di Agostino Pirella e Domenico Casagrande.
Nell’attuale dibattito attorno al rinnovamento dell’assistenza psichiatrica si è soliti oggi, in Italia, portare ad esempio esperienze di altri paesi, e particolarmente quelle della Gran Bretagna, che si presentano come soluzioni avanzate sia sul piano scientifico che su quello sociale. Un preciso riferimento legislativo è poi costituito dal Mental Health Act del 1959, che viene ritenuto il coronamento dell’abolizione pressoché completa di restrizioni legali nei confronti dei malati di mente, e perciò della caduta delle tradizionali barriere che separano la «società sana» dal mondo dell’alienazione.
Tale abolizione e le soluzioni ad essa collegate non sono il frutto di una fortunata intuizione, né della concomitanza di fattori casuali, bensì il logico sbocco, comprensibile sul piano storico-sociale, di una evoluzione della società civile, e degli atteggiamenti scientifici, che può trovare le sue origini fin nel secolo scorso.
E’ stato celebrato in Inghilterra nel 1966 il centenario della morte di una significativa figura di psichiatra, John Conolly, che rappresenta, ancora oggi per noi, un punto di riferimento essenziale. Alcune caratteristiche del suo lavoro e delle sue proposte possono portare luce a questioni tuttora attuali nella realtà psichiatrica italiana. Qual è stata l’importanza del lavoro di John Conolly?
Dal dibattito che si è svolto nell’occasione celebrativa cui si è fatto cenno, emerge che non si è in grado di valutare esattamente, a distanza di più di un secolo, quale sia stata l’incidenza del lavoro di Conolly sul piano delle realizzazioni pratiche, almeno per quanto riguarda la grande questione del clima istituzionale negli «asili» per malati mentali.
Vi è tuttora una certa discordanza di opinioni su ciò, anche se tutti gli studiosi sono disposti ad ammetterne la rara forza espositiva e la chiarezza dell’impostazione teorica. Questo fatto è dimostrato, tra l’altro, dalla risonanza europea delle sue idee, che gli è valsa l’attribuzione della “leadership” di un movimento rinnovatore chiamato appunto «conollysm». Certo è il fatto che Conolly si è inserito, con tutto il suo vigore polemico e la sua passione civile, in un momento di essenziale mutamento delle strutture assistenziali psichiatriche: non è per caso che, tra l’altro, proprio attorno al 1841 la vecchia denominazione di “Lunatic Asylum” (pressoché corrispondente al nostro «manicomio») veniva sostituita con quella di “Hospital for the Insane”.
I fautori del rinnovamento, che non può considerarsi legato soltanto a queste variazioni verbali, non limitavano le loro critiche alle caratteristiche puramente ambientali (per cui gli edifici venivano abbelliti, le sale e le corsie rese più pulite ed accoglienti), ma investivano la concezione stessa del rapporto con il malato, il quale non solo non doveva più essere considerato un «colpevole da punire», ma neppure un «oggetto mostruoso», «una macchina folle» da isolare, da separare dalla società. Cominciava ad emergere una concezione che da un lato sottolineava gli aspetti «medici» del problema e che dall’altro si preoccupava delle conseguenze psicologiche che certi atteggiamenti coercitivi potevano provocare sul malato. Ciò che si cominciava a mettere in discussione era la dinamica stessa della segregazione mortificante, che non solo non poteva pretendere di recuperare il malato ad una vita dignitosa all’interno delle istituzioni, ma che era essa stessa responsabile della degradazione di coloro che di volta in volta ne subivano i rigori. Questa dinamica tradizionale, trascinantesi nel corso dei secoli ai danni di diverse categorie di «esclusi sociali», dai lebbrosi ai luetici agli stessi malati mentali, aveva trovato sia nei rivolgimenti sociali sia nelle nuove esigenze mediche che si rendevano man mano manifeste, una seria opposizione e successivamente una certa limitazione.
Si sa che già Chiarugi e Pinel avevano cominciato a «scegliere» negli ospedali di Firenze e di Parigi verso la fine del secolo diciottesimo, quei malati che potevano essere liberi rispetto a quelli che dovevano rimanere incatenati, e che inoltre le proteste di alcuni degli internati nei vari asili avevano, prima ancora di riuscire a mutare il clima istituzionale degli asili stessi, permesso a taluno dei ricoverati di essere trasferito in luoghi più decenti o addirittura di essere liberato.
– La filantropia religiosa e il «Ritiro» di York.
E’ in questo contesto di tumultuoso rinnovamento (una legge francese del 1790 aveva previsto la costituzione di numerosi ospedali per malati mentali) che per iniziativa di un gruppo di quaccheri, i quali intendevano offrire un’adeguata assistenza ai malati mentali delle famiglie appartenenti alla loro setta (una delle diverse Società degli amici) si progettava (1792) e poi si realizzava (1796) un «Ritiro» vicino alla città di York, il quale costituì poi un esempio e un punto di riferimento per quegli istituti che intendevano offrire ai degenti un ambiente più accogliente, una sistemazione asilare da cui fosse bandita ogni forma di violenza precostituita, allo scopo di recuperare il malato se non alla società, almeno ad una convivenza istituzionale legata ad attività lavorative e sociali.
Il «Ritiro» di York era situato su una collina, in luogo ameno, cintato. All’interno la vita vi si svolgeva – come riferisce Samuel Tuke, nipote del fondatore William Tuke, nel suo “Description of the Retreat, an Institution near York” (1813 ) – con una certa libertà di movimento, senza restrizioni fisiche: le porte erano aperte, le finestre senza sbarre o grate, i mezzi di contenzione erano usati molto raramente e mai in modo continuo. I malati potevano lavorare nei campi e nel giardino e accudire ad altre attività. Il momento dello svago e della cerimonia religiosa era salvaguardato in modo particolare. L’autorità dei gerenti era trasferita dal piano della forza fisica a quello del rapporto psicologico.
Sono infatti descritti esempi in cui atteggiamenti di ribellione e di violenza da parte di taluni malati sono stati sedati dalla contrapposizione di un atteggiamento fermo e sereno da parte degli assistenti. Singolare è la descrizione di un caso di paziente che giunge al «Ritiro» avvinto in catene e in uno stato di notevole eccitazione. Gli assistenti lo liberano, lo invitano a mangiare con loro, lo accompagnano nella sua stanza, e, introducendolo nell’ambiente, gli ricordano le regole di convivenza che vigono in esso, tra cui la norma che non si farà uso di mezzi di coercizione se egli osserverà un comportamento corretto. Il malato è cioè considerato come un bambino cui il «buon genitore» ricorda le regole di convivenza, e la triste necessità della punizione in caso di trasgressione.
Dal punto di vista etico-religioso l’esperienza del «Ritiro» è comprensibile come esempio di filantropia che intende salvare nell’altro uomo, anche se offuscato nelle sue capacità critiche ed intellettive, l’immagine divina cui si modella. Essenziale appare essere non tanto un fine «medico» di terapia, quanto una modalità «umana» di rapporto, basata sulla fiducia nelle possibilità dello spirito di trionfare sulle «cattive tendenze».
D’altra parte ciò poteva ben collegarsi alla fiducia illuministica nella ragione, che, su un versante opposto, tendeva a rafforzare tale scelta (1), saldando singolarmente l’ottimismo filantropico religioso con quello illuministico.
Dal punto di vista economico il «Ritiro» si fondava sul contributo dei membri di una delle numerose Società degli amici (Society of Friends) fiorite in Inghilterra in quell’epoca. L’impresa risultò attiva – se ne conoscono le entrate annuali – pur proponendosi di venire incontro alle necessità degli affiliati che non potessero ricorrere ad altri istituti privati, in caso di malattia mentale. Essa si situava in una corrente di analoghe imprese, favorite dalla legislazione inglese del diciottesimo secolo, che tendeva ad incoraggiare l’iniziativa privata in tema di assistenza.
– Dal riformismo umanitario alla psichiatria: John Conolly.
Proprio negli stessi anni in cui si stava realizzando il «Ritiro» di York, e cioè nel 1794, nacque, da una famiglia irlandese, John Conolly.
Avviatosi agli studi di medicina, fu subito un fervido sostenitore di ogni soluzione avanzata in medicina sociale (ad esempio dell’esigenza della vaccinazione, questione sorta dopo un’epidemia di vaiolo), fondatore di Dispensari per indigenti, oppositore della libera professione, in quanto pronto a dedicarsi alle sole attività di insegnamento e di ricerca. Fu, soprattutto nei primi anni di lavoro, un uomo che amava prendere posizione sulle diverse questioni che venivano dibattute a tutti i livelli, dall’opinione pubblica alle cattedre universitarie. Il suo primo incontro con la psichiatria avvenne nel 1816 quando conobbe William C. Ellis, che aveva fondato un «Rifugio» per malati di mente, ispirato ai principi del «Ritiro» di York. Singolarmente, poi, Conolly successe ad Ellis nel manicomio di Hanwell (1839), la cui conduzione doveva costituire il riferimento pratico e la verifica scientifica delle idee che Conolly sosteneva. Nel frattempo (1821) egli aveva anche conosciuto Samuel Tuke.
Dal 1824 al 1828 fu medico ispettore nelle Case per malati mentali di Warwickshire, e ciò ci permette di collegare questa sua attività al tormentato periodo immediatamente successivo alla famosa inchiesta presso il manicomio di York (da non confondere con il «Ritiro»), nel 1815, che appassionò e divise l’opinione pubblica sul grande tema delle condizioni di internamento degli alienati. Su di esse esistono infatti impressionanti documenti, consistenti nelle relazioni degli ispettori incaricati di riferire sulla vita che vi si svolgeva. Uno di essi scrive dopo una visita: «Entrai in un andito e trovai quattro celle, penso di circa otto piedi quadrati, in condizioni di sporcizia veramente orribile; la paglia appariva pressoché satura di orina e di escrementi; c’erano alcune brande poste sulla paglia in una cella, nelle altre solo paglia sparsa… i muri erano imbrattati di escrementi… salii al piano di sopra e egli [il custode] mi introdusse in una stanza che lo pregai di misurare e che risultò di tre metri e sessantacinque per due e quaranta; in questa stanza stavano tredici donne che avevano passato tutta la notte nelle celle sottostanti». E ancora: «la seconda volta che visitai la casa, tre pazienti erano incatenati sullo stesso letto, due erano distesi per il lungo e il terzo era disteso sugli altri due» (2). Questa situazione costituiva, contro ogni ottimismo di derivazione illuminista, una tragica sconfitta della ragione, cui Conolly voleva contribuire a dare una risposta. Nel 1830 (in un momento in cui insegnava all’Università) egli pubblicò un libro intitolato “The Indications of Insanity”, con un significativo sottotitolo: «Con suggerimenti per una migliore protezione e cura del malato di mente». In esso sono contenute delle indicazioni che oggi diremmo di politica sanitaria, in quanto dirette a precisare – sulla base dell’esperienza maturata tra l’altro nelle ispezioni ai vari manicomi – i nuovi criteri di assistenza generale al malato di mente, criteri medici e sociali insieme. Egli parla di un servizio nazionale di salute mentale compendiato in quattro punti, che comprende anche la cura domiciliare consigliata nei casi più lievi, e per evitare i danni derivanti da una prolungata degenza. C’è in Conolly anche la preoccupazione di potenziare l’assistenza nella società di fronte alla difficoltà di migliorare in modo soddisfacente le istituzioni asilari. I punti sono: 1) la malattia mentale non è di per sé ragione sufficiente per l’isolamento; 2) ogni malato di mente deve essere assistito dallo Stato, mentre ogni manicomio deve divenire proprietà statale sotto controllo centrale; 3) ogni manicomio deve divenire una scuola di istruzione per studenti in medicina, e un luogo di educazione per infermieri; 4) ogni manicomio si deve preoccupare del benessere del malato nella comunità in collaborazione con i medici generici.
Come si vede l’accento è posto prevalentemente sull’assistenza extra e postospedaliera (come diremmo oggi), e sull’organizzazione dell’assistenza, più che sulla questione del miglioramento delle condizioni di vita e di trattamento nelle istituzioni. Conolly non aveva ancora fatto quella esperienza fondamentale di dirigente ospedaliero che cominciò, come si è detto, nel 1839, nel manicomio di Hanwell. In esso egli trovò, nonostante la precedente direzione di Ellis, un clima di coercizione, con l’impiego di mezzi di contenzione e regole di restrizione personale, fatto d’altra parte comune anche nei migliori istituti, in cui la riforma, quando veniva applicata, riguardava soprattutto l’igiene degli ambienti, la sistemazione dell’arredamento e la semplice limitazione dei mezzi di contenzione. Conolly prese posizione in modo radicale. Cominciò infatti a predisporre l’abolizione totale dei mezzi di restrizione fisica, ma non si limitò a questo. Le sue proposte investivano anche forme di restrizione di tipo istituzionale: l’isolamento, la privazione di oggetti, e così via. Entro quattro mesi dall’inizio del suo impegno ad Hanwell, Conolly aveva appunto abolito tutte le forme di restrizione personale. La novità non era costituita tanto dal fatto che pressoché per la prima volta si era realizzata una tale condizione in un istituto pubblico, quanto per la lucidità scientifica e la passione con cui egli la sosteneva. Nasceva, questa sì per la prima volta, la consapevolezza che il problema era contemporaneamente sociale e scientifico, economico-politico e «psichiatrico». Nasceva, con Conolly, la psichiatria istituzionale. Fermezza nel portare avanti l’esperimento e chiarezza nel cogliere tutte le implicazioni del problema furono le sue doti migliori.
Scriveva un estimatore nel 1901: «Conolly fu apprezzato per l’abolizione delle restrizioni; ma non è questo che deve essere ammirato quanto il suo coraggio e la sua determinazione nell’averla portata avanti a breve e definita scadenza in un istituto pubblico con uno staff relativamente piccolo e in cui molti pazienti erano stati resi intrattabili dall’abuso di restrizioni» (3). L’istituto di Hanwell ospitava 850 malati mentali di ogni tipo e poté ben presto presentarsi come un luogo di cura, il cui clima era radicalmente mutato: «l’atteggiamento degli assistenti si modificò da quello di custodi a quello di infermieri; la violenza divenne eccezionale; pazienti ribelli trovarono il loro posto ed il loro lavoro nella comunità ospedaliera; la percentuale dei dimessi sugli entrati aumentò a più che i due terzi» (Hunter).
Nonostante questi risultati, l’iniziativa non fu accolta con unanime benevolenza. Sembra anzi opportuno segnalare il significato di vigorose proteste che accompagnarono e seguirono la realizzazione dei principi del “non-restraint” totale ad Hanwell. L’opinione pubblica, se era preparata, in una certa misura, alla diminuzione delle coercizioni all’interno dei manicomi, non era affatto disposta ad accogliere un nuovo atteggiamento verso il malato di mente, che implicasse la caduta della tradizionale paura, delle barriere, l’assunzione infine di una responsabilità nei confronti della alienazione. Ciò che era disposta a dare, la società inglese del diciannovesimo secolo, era una riforma marginale che attutisse il suo senso di colpa, le angosce scaturite dalla conoscenza della vita asilare. Conolly sembrava in qualche modo turbare una coscienza che si stava tranquillizzando; scriveva di temi che implicavano una precisa responsabilità pubblica, una scelta sociopolitica, nei termini di una nuova scienza, la psichiatria.
Le polemiche contro Conolly continuarono anche dopo la sua rinuncia, pare per ragioni di salute, dopo cinque anni di direzione (1866). Vi fu chi lo accusava di «ciarlataneria» e di «aver sfidato l’opinione pubblica»; altri si limitavano a sottolineare l’esigenza di salvaguardare la società ed il personale di assistenza “dal” malato.
Conolly continuò a controbattere questi temi, con raro equilibrio, dimostrando che proprio il sistema coercitivo portava alle maggiori violenze e a «nocivi eccitamenti». In ciò fu coadiuvato da suo genero, Henry Maudsley (al cui nome oggi è intitolato un famoso ospedale londinese); assieme ad una cerchia di fervidi sostenitori essi continuarono a battersi per la penetrazione del nuovo metodo nei diversi istituti inglesi.
Fu, fino al 1852, medico visitatore e consulente presso lo stesso istituto di Hanwell, e, nel frattempo, preparava e ordinava i suoi scritti più significativi: “The Construction and Government of Lunatic Asylums and Hospitals for the Insane” (1847) e “The Treatment of the Insane without Mechanical Restraints” (1856). In quegli anni si occupò anche di pazienti subnormali e contribuì a fondare istituti per idioti. Fino al 1866, anno della morte, fu attivo come presidente di diverse associazioni mediche.
Abbiamo già visto che l’esperienza del «Ritiro» di York era sorta sulla base di esigenze umanitarie, con un profondo legame con le concezioni religiose degli aderenti quaccheri alla Società degli amici. Essi non erano guidati dalla esigenza puramente scientifica di portare un contributo alla risoluzione del problema della malattia mentale e della sua cura, ma erano animati dalla speranza di trovare, anche nel più disordinato dei malati, la rispondenza adeguata, motivata dalla fede religiosa, ad un atteggiamento umanitario e non violento.
Conolly, che già aveva citato Pinel nella sua tesi di laurea “De statu mentis in insania et melancholia”, riprende dallo psichiatra francese il criterio scientifico di organizzare l’assistenza asilare come assistenza medica psichiatrica, allo scopo di raggiungere risultati terapeutici. Ma, di fronte alla situazione delle istituzioni psichiatriche dell’epoca, egli si rende conto che ogni intervento scientifico non può non incidere sulle strutture socioeconomiche e non può, d’altra parte, non esserne condizionato. Da ciò i suoi interventi pubblici, la sua concezione generale di un’assistenza psichiatrica che sia assistenza sociale statale, la richiesta di istituire l’insegnamento della psichiatria nelle università, e soprattutto, dopo la sua esperienza ad Hanwell, l’esigenza preliminare di modificare profondamente il clima asilare, sulla base del rifiuto delle restrizioni fisiche e, in parte, psicologiche, e sulla base del nuovo metodo terapeutico che ne deriva, il «moral treatment». Ciò qualifica Conolly come uomo del suo tempo, legato alle questioni concrete, le cui proposte potevano apparire utopistiche, ma che – alla luce di ciò che nel secolo successivo si è realizzato – risultano essere le più rigorose e le più adeguate. Esse comportavano una profonda modificazione dell’atteggiamento verso i malati mentali, e la rinuncia – almeno nelle forme più clamorose- a modalità di separazione e di esclusione, non giustificabili sia sul piano scientifico che umanitario. Con questo esempio la scienza si trova collegata alle più significative e profonde esigenze della cultura e della società.
– Il manicomio e la «psicoterapia istituzionale».
Nel corso della celebrazione del centenario della morte di Conolly, uno studioso inglese, Richard Hunter, considerava lo psichiatra irlandese come un precursore della moderna comunità terapeutica. E lo psichiatra francese Philippe Koechlin, in uno scritto sulla psicoterapia istituzionale cita le esperienze di Conolly come particolarmente significative soprattutto perché il sistema “open door” viene realizzato solo per mezzo di riunioni dei degenti e del personale (4). Indubbiamente alcuni dei principi teorici così chiaramente indicati da Conolly possono essere considerati valide premesse a quella psicoterapia istituzionale che oggi ha contribuito a trasferire il fuoco dell’attenzione dal farmaco alla situazione «relazionale» ed al clima istituzionale, e dal medico come unico agente terapeutico al personale di assistenza. «L’applicazione della scienza medica – scrive Conolly – in nessuna malattia è limitata alla somministrazione di farmaci… tanto meno nelle malattie del sistema nervoso… Per la cura della mente, le occasioni sono continue: e il materiale esiste nell’organizzazione generale dell’istituto; la regolazione della dieta, l’esercizio fisico, le ore di riposo, le occupazioni, i divertimenti, i vestiti e la condotta diventano di larga applicazione e di estrema importanza. Queste cose, ben organizzate, diventano medicine generali».
Queste considerazioni tendono a porre il malato al centro di una coordinata attività, di un «tempo pieno terapeutico, ordinato da un pensiero medico» come scriverà, oltre un secolo dopo, Tosquelles (5). E, d’altra parte, sul ruolo del personale in questa impresa terapeutica: «Il medico che intenda nel giusto senso il sistema del “non-restraint” sa bene che gli infermieri sono i suoi più essenziali strumenti… Essi spesso possono essere addirittura considerati le sue migliori medicine… Egli affida loro, di giorno e di notte, la felicità di tutti i pazienti che sono sotto la loro speciale attenzione». Se il recupero di un significato terapeutico globale dell’istituzione deve passare attraverso una giustificazione prescrittiva, Conolly sembra aver attraversato questa fase con il minimo di direttività. A questo proposito vi sono parole di estrema schiettezza, non usuali nella letteratura psichiatrica del tempo.
«La pura abolizione di fasce di contenzione e di restrizioni fisiche costituisce solo una parte di ciò che chiamiamo sistema del “non-restraint”». E aggiunge che legare un malato ha un effetto negativo sulla assistenza generale, ed è degradante sia per il malato che per il personale: «quando un paziente è legato, ogni considerazione per lui viene a cessare».
E, ancora, sul significato psicoterapeutico del lavoro medico: «Il medico… non deve vergognarsi di riconoscere, per quanto riguarda i fenomeni mentali… che il suo ufficio va assumendo, di questi tempi, un carattere tanto più elevato quanto più egli cessa di essere un mero prescrittore di medicine». Con maggior precisione, con una singolare anticipazione di soluzioni psicoterapeutiche globali, di stampo analitico ortodosso: il principio del “non-restraint” «abolisce la contenzione meccanica ed inoltre… regola ogni parola, sguardo e azione di tutti coloro che vengono a contatto con il malato di mente». E’ comprensibile, anche se forse ingenuo, che a ciò si colleghi la tenace richiesta di un lavoro didattico in profondità per medici ed infermieri, cui non può affidarsi la realizzazione di un nuovo metodo, se non attraverso una profonda modificazione del tradizionale atteggiamento verso il malato mentale. Nei casi migliori lo si considerava infatti, secondo criteri medici correnti, come un malato somatico, cui somministrare farmaci o speciali trattamenti fisici (opinioni che, si deve dire, hanno ancora oggi un corso favorevole). Conolly tende, anche qui, a trasferire l’interesse terapeutico dal corpo alla psiche (“mind”), sviluppando un’implicita polemica con la medicina tradizionale, pessimista ed inerte: «Per quanto nella maggior parte delle malattie mentali è necessario anzitutto tener conto delle condizioni somatiche…, tuttavia le loro cause e i loro sintomi frequentemente dimostrano che i nostri sforzi debbono essere concentrati sulla psiche (“mind”). Io non esito ad affermare che un maggior numero di malati mentali sarebbero curati se un trattamento ‘morale’ (“moral treatment”) fosse meglio compreso e somministrato a suo tempo».
E’ particolarmente significativo che tutte le affermazioni qui citate abbiano trovato una precisa verifica nell’esperienza presso il manicomio di Hanwell, anche se la sua durata fu limitata a cinque anni. Essa fu sufficiente tuttavia, almeno a quanto si disse poi intorno a ciò, a dimostrarne l’efficacia pratica: non solo vi fu un aumento della percentuale delle dimissioni (come già detto) fino a due terzi di tutti i casi recenti, ma soprattutto una profonda modificazione del clima asilare.
«Non solo è possibile – scrive nel ’42, dopo tre anni di lavoro – dirigere un grosso manicomio senza applicare ai pazienti la coercizione fisica, ma dopo l’abolizione totale di tale metodo di controllo, le caratteristiche di un manicomio subiscono un graduale e benefico cambiamento». E’ proprio questa particolare esperienza istituzionale che fa mutare, in modo sensibile, il progetto psichiatrico che Conolly aveva prospettato prima di essa (e particolarmente nel suo libro del ’30).
Egli sostiene ora, con maggior forza, che l’intervento terapeutico non può più trascurare l’impegno di modificare le strutture asilari, sia per la necessità di favorire la degenza in tutti i casi in cui si rende necessaria, sia per il valore didattico che l’istituto può assumere nei confronti della classe medica generale. La scotomizzazione di questo problema non avrebbe portato che al perpetuarsi di una arretratezza degli istituti con la conseguenza di non permettere alcun rinnovamento reale.
– L’esclusione e l’istituzionalizzazione.
Un altro tema che appare con netta evidenza negli scritti di Conolly e nel suo modo di intendere il problema sociale del malato di mente, è quello che ancora oggi viene considerato di fondamentale importanza per la risoluzione delle difficoltà che si frappongono ad una assistenza e ad un trattamento adeguati, cioè quello della tendenza alla segregazione e all’esclusione del malato, come provvedimento puramente difensivo. La convinzione che ogni malato aveva diritto ad un rapporto interpersonale (come si direbbe oggi) in cui non rischiasse di perdere la propria identità, era fortemente collegata alla consapevolezza dei gravi danni derivanti da una vita asilare coartata ed indegna. I due poli della esclusione da una parte e della «istituzionalizzazione» dall’altra, si trovano in Conolly con una certa chiarezza, del tutto insolita in psichiatri contemporanei. Egli si riferisce spesso al fatto che l’isolamento, la mancanza di visite, di stimoli adeguati, la stessa separazione dalla vita sociale costituiscono uno dei maggiori pericoli per la sorte del ricoverato.
Soltanto dalla negazione di questa condizione imposta era possibile porre le premesse per un processo di riabilitazione, o almeno per una convivenza asilare più «umana». Il circolo chiuso: «esclusione – mortificazione asilare – passività e violenza – esclusione» doveva essere spezzato non perché ciò era richiesto da considerazioni umanitarie o filantropiche, ma per motivi sociali e scientifici. Mentre la nuova società industriale cominciava a richiedere mano d’opera in quantità crescente, Conolly si faceva portavoce di esigenze parzialmente contraddittorie. La liberazione totale dei degenti ed il sorgere di una psicoterapia istituzionale globale si ponevano sia come esigenze rigorosamente scientifiche ed internamente coerenti, che come motivi di frattura e di dissenso. La lotta contro la violenza istituzionalizzata e contro la esclusione trovarono occasioni che a noi appaiono oggi paradossali.
In uno scritto della maturità egli si riferisce infatti alla tendenza alla esclusione di malati di mente appartenenti a famiglie facoltose. Essi venivano spesso segregati in case o ville isolate, di proprietà della famiglia, con uno o più assistenti, quasi sempre non esperti. La vita che vi trascorrevano era di disperata solitudine e non raramente di degradazione. La visita del medico era considerata come un’intrusione, mentre ogni tentativo di recupero, in tali condizioni, risultava vano. Conolly cerca di confrontare, con accenti che suonano oggi involontariamente ironici, l’assistenza psichiatrica pubblica con queste pseudosoluzioni per malati abbienti, valorizzando la prima, e formulando un atto di accusa verso la dinamica della segregazione che ne veniva confermata. Anche da questi esempi emergeva cioè la necessità di un servizio pubblico che svolgesse i compiti di un’assistenza adeguata per tutti, capace di rompere il circolo vizioso che deriva sia dalla esclusione del malato dalla società che dalla sua mortificazione istituzionale. Conolly e tutti coloro che ne condividevano le opinioni, si rendevano conto che non ci si poteva limitare ad uno solo di questi poli di intervento, che non si poteva cioè agire solo nell’istituzione (perché questo non avrebbe eluso la tendenza alla segregazione) o solo nella società (perché troppi fattori, tra cui proprio l’arretratezza degli istituti, perpetuavano tale tendenza).
Si trova qui una interessante sovrapposizione di preoccupazioni di derivazione scientifica e di esigenze pratico-sociali che caratterizzerà poi, con alterna fortuna, il dibattito successivo in Gran Bretagna, fino alla sanzione legislativa del 195 9.
Tuttavia, in Conolly, anche l’approfondimento puramente medico, psichiatrico, delle questioni relative all’istituzione ed ai suoi inconvenienti, fu particolarmente rilevante. In uno scritto egli ricorda in modo molto esplicito: «Il ricorso a strumenti di coercizione meccanica era già in contrasto rispetto a ogni giudizio medico sulle varie forme di malattia mentale, e sulle loro cause, e lo è diventato tanto più in considerazione dei numerosi mezzi ausiliari di tipo ‘morale’ cui si è ampiamente fatto ricorso nel momento in cui gli antichi metodi di controllo hanno cessato di essere utilizzati… Mi sembra che soltanto allora può iniziare la corretta analisi della malattia mentale; l’abolizione delle coercizioni, e di tutti i metodi di controllo violenti ed irritanti per la prima volta ora permettono allo studioso di osservare i disturbi della psiche nella loro semplicità, e non più alterati da trattamenti esasperanti. I pazienti possono allora presentarsi alla loro osservazione come soggetti di studio e di ripensamento». Tutta la tematica sugli «artefatti manicomiali» e sulla «istituzionalizzazione» viene apertamente affrontata, forse per la prima volta. La questione ne riceve particolare dignità scientifica, mentre viene nuovamente ricordata l’importanza dell’atteggiamento del personale nella determinazione del comportamento dei pazienti. Questi temi particolari, all’interno della più generale questione che si è esaminata, conservano riferimenti piuttosto importanti ancora oggi. Ogni volta che si prende coscienza, nelle varie sedi di discussione, del fallimento della psichiatria istituzionale, ci si confronta nuovamente con questi nodi, che possono essere sciolti con il rovesciamento dell’atteggiamento tradizionale, con la negazione della violenza, la negazione dell’esclusione, la negazione del clima istituzionale dell’asilo.
A questo punto è evidente che dalla negazione dello stato di cose esistente, dal rovesciamento pratico della situazione può emergere un modo nuovo di organizzare la violenza, un esercizio del potere sul malato che, escluse le forme più evidenti e brutali di oppressione, tuttavia contribuisca nuovamente ad annientarne la personalità (6). Ma, nel riprendere la domanda che ci eravamo posti all’inizio, nel domandarci cioè quale sia stata l’importanza del lavoro di Conolly, crediamo di poter ritenere che le proposte da lui fatte e, in minor misura, le sue realizzazioni, possano intendersi libere dal pericolo di tali degenerazioni. Infatti vi sono nello psichiatra irlandese almeno due esigenze fondamentali che vanno nuovamente sottolineate. Anzitutto l’esigenza di un controllo collettivo di ciò che avviene negli istituti, controllo scientifico principalmente, in ciò anticipando quasi certe moderne proposte scientiste, di stampo analitico classico. Inoltre l’esigenza della creazione di un servizio psichiatrico sociale pubblico, aperto all’esterno, attivo nei vari settori dell’assistenza. La prima esigenza tenderebbe se mai a trasferire l’atteggiamento paternalistico-autoritario nella direzione di un efficiente «potere» psicoterapeutico, la cui «efficienza» troverebbe però un limite nelle contraddizioni pratico-sociali (come ad esempio è avvenuto negli Usa) (7), mentre la seconda non altererebbe, adeguandovisi, quel tipo di paternalismo che anche la società «sana» tollera o incoraggia. In ogni caso, ad un secolo di distanza, il lavoro di Conolly si pone in una cornice di estrema chiarezza (nelle sue implicazioni contraddittorie, di rovesciamento «negativo» e di ottimismo progressista), almeno per coloro che intendono sia importante sottoporre a verifica, senza dare nulla per scontato, sia l’assetto strutturale delle varie istanze di assistenza psichiatrica, sia le modalità psicosociali di approccio al malato.
Se oggi noi abbiamo a che fare con vecchie e nuove forme di violenza, con una realtà oppressiva ancora una volta frutto del fallimento istituzionale e delle contraddizioni sociali, possiamo ben ricordare l’impegno di Conolly nel rovesciare sulla società, sugli assistenti, sui «sani» la responsabilità di questo fallimento e di queste contraddizioni.
La dinamica dell’esclusione, la tendenza a scaricare su taluni membri deboli le tensioni irrisolte, non possono più trovare giustificazione. In questo senso ci sembra giusto ricordare che se Conolly fu da qualche contemporaneo tacciato di «fervore iconoclasta», la risposta più significativa oggi è quella che noi stessi, prendendo posizione di fronte alla realtà, siamo disposti a dare.
Nota.
Nello scritto facciamo numerose citazioni da scritti di Conolly. Per coloro che volessero meglio documentarsi direttamente rimandiamo ai volumi:
1) “An Inquiry Concerning the Indications of Insanity, with Suggestions for the Better Protection and Care of the Insane”, London 1830.
2) “Four Lectures on the Study and Practice of Medicine”, London 1832.
3) “On the Construction and Government of Lunatic Asylums and Hospitals for the Insane”, London 1847.
4) “The Treatment of the Insane without Mechanical Restraints”, London 1856.
Si vedano anche gli scritti apparsi sulle seguenti riviste:
1) «Lond. Med. Rep. Rev.» n. s. 4, 1827 1-24.
2) «J. Ment. Sci», 5, 1859 411-20.
3) «Med. Times Gaz.», 1, 1860 6.
La celebrazione del centenario della morte di Conolly è riportata estesamente con diversi contributi (di R. Hunter, D. Bennett E. S. Stern, A. Walk), in «Proceedings of the Royal Society of Medicine», vol. 60, I, 1967, p.p. 85-91.
Infine particolari valutazioni sulla sua opera sono contenute nelle seguenti pubblicazioni:
1) J. CLARK, “A Memoir of John Conolly”, London 1869.
2) R. HUNTER e I. MALCAPINE, “Biographical Introduction to Reprint of John Conolly’s «An Inquiry Concerning the Indications of Insanity»” (1830), London 1964.
STORIA E POLITICA IN PSICHIATRIA: ALCUNE PROPOSTE DI STUDIO
di Giovanni Jervis e Lucio Schittar.
La lotta per il rinnovamento delle istituzioni psichiatriche rischia forse di essere combattuta su trincee vecchie di cento anni?
Non è questo il nostro parere, ma il dubbio è pienamente legittimo. Non si può non rimanere colpiti dal fatto che alcune delle più tipiche proposte della nuova psichiatria istituzionale vennero formulate, in termini molto simili, prima della metà del secolo scorso.
Si parla oggi di reparti e di ospedali aperti, di abolizione delle restrizioni fisiche e di qualsiasi forma, anche larvata, di punitività verso i malati di mente; si parla di un sistema ospedaliero psichiatrico basato sulla massima libertà per i degenti, sul massimo rapporto con la società esterna, sulla fiducia nell’autodisciplina di gruppo, sull’abolizione di ogni atteggiamento coattivo e autoritario; si parla di superamento della psichiatria manicomiale e di potenziamento della terapia extramurale: ma poi si scopre con un misto di divertimento e di frustrazione che tutte queste cose e questi principi erano stati previsti lucidamente, e anche messi in pratica con realismo, da Conolly prima del 1850 (1).
Già prima dell’epoca illuministica, secondo Schmitz (2) erano esistiti centri psichiatrici basati sulla libertà di movimento, sui giochi e sul lavoro: così nella Spagna del Quattrocento sotto la dominazione araba. Ma la vera riforma del trattamento asilare nasce come è noto alla fine del Settecento, con Vincenzo Chiarugi e Pinel, e in seguito, nell’Ottocento, con i Tuke e soprattutto con Conolly. Più in qua, prima dell’inizio del Novecento altre testimonianze ci dimostrano che un modo «nuovo» di concepire l’assistenza psichiatrica continua a polemizzare attraverso l’Europa (in Russia, Korsakov fu fortemente influenzato da Conolly) contro una maggioranza di psichiatri, amministratori e politici autoritari e tradizionalisti. Ci accorgiamo oggi che la comunità terapeutica di Maxwell Jones e degli psichiatri britannici, così come la «psicoterapia istituzionale» di derivazione psicoanalitica dei moderni psichiatri francesi, hanno una storia lunga e complessa.
Molte cose restano da capire. Qual è la vera storia della psichiatria asilare? Confessiamo la nostra ignoranza. Una ricerca nelle biblioteche e nelle riviste mediche europee, dalla metà del secolo scorso a oggi, potrebbe senza dubbio fornirci una risposta: e sarebbe una risposta affascinante. Al momento attuale, possiamo partire dalla constatazione che in centocinquanta e più anni la psichiatria asilare sembra aver fatto poca strada. Possiamo esprimere alcune ipotesi, ma dobbiamo in primo luogo riaffermare l’importanza del problema. Ci rendiamo conto oggi che oltre alla psichiatria accademica, ufficiale, e al di là delle sue illusioni e dei suoi fallimenti, al di fuori della sua ostinazione tassonomica e degli sforzi interpretativi, esiste un’altra psichiatria, che non esitiamo a considerare più importante, costituita dalla storia “reale” dei rapporti fra gli psichiatri e i malati di mente. Questa psichiatria prende in esame le forme in cui i ruoli impliciti in questi rapporti si costituiscono in sistemi sociali (istituzionali) e si rivolge quindi in primo luogo alle organizzazioni che oggi come un secolo fa, raccolgono la maggioranza di coloro che, etichettati come folli, vengono sequestrati dal commercio sociale ordinario e “gestiti” in reclusori specializzati. Il fatto che da dieci anni a questa parte si torni a parlare in tutto il mondo del problema psichiatrico istituzionale non può essere considerato casuale, e non può che riflettere, almeno in parte, la situazione in cui si trova oggi la teoria terapeutica delle malattie mentali.
Non si tratta qui, beninteso, di rivalutare una storia sociologica della psichiatria: si tratta di stabilire quali sono i rapporti, e quali le contraddizioni, che intercorrono fra la “teoria” psichiatrica clinica e la “pratica” psichiatrica dentro e fuori le organizzazioni specializzate. Non si ha in tal modo null’altro se non la psichiatria “reale”, in una prospettiva che non può non essere storica.
La prima tentazione che compare a questo punto è semplice e cattivante: negare che la psichiatria abbia una storia. Si tratta di una tentazione non superficiale, e il pericolo è maggiore di quanto possa sembrare a prima vista.
In una simile prospettiva non si contesta il progresso, né l’evolversi delle idee e dei costumi: semplicemente, li si riduce a una successiva stratificazione archeologica di situazioni teorico-organizzative. In altre parole, e in termini più concreti, la tentazione consiste nel rispondere al quesito «come mai la psichiatria asilare ha fatto così poca strada?» dicendo in primo luogo: «i problemi sono sempre gli stessi». Ma su questa prima risposta, più o meno esplicita, si costruisce tutta una architettura antistorica per cui ogni modificazione del problema asilare nel tempo viene isolata ed esaminata come problema “strutturale”. Da un lato si viene così ad affermare che i problemi dei manicomi, e della riforma dei medesimi, sono riconducibili a una lotta che ha qualcosa di perenne (e che sempre viene riportata a zero) fra tendenze psicologiche e sociologiche contrastanti, fra esigenze tecniche retrive e esigenze avanzate, fra successive antitesi di autoritarismi reazionari e di rivolte liberatrici. Da un altro lato, questa stessa concezione strutturalista afferma implicitamente che non esiste un rapporto reale fra la problematica «senza storia» del rinnovamento istituzionale (sempre tentato e mai diffusamente accettato) e la problematica storia del modificarsi delle concezioni morali, sociali, politiche del mondo esterno ai manicomi.
Di fronte a questa concezione non possiamo che rispondere: Conolly e Maxwell Jones a un secolo di distanza uno dall’altro non ci dicono le stesse cose, anche quando usano linguaggi simili, perché le loro parole hanno un diverso significato, oggi, per i compiti psichiatrici che concretamente ci troviamo dinanzi. Le coincidenze di linguaggio di alcuni testi remoti debbono rimandarci da un lato a uno studio del significato di quei testi in quella società, e quindi al successivo evolversi del loro significato nel corso dei decenni; da un altro lato debbono invitarci a riformulare oggi una serie di proposte “nuove” che, tenendo conto delle proposte di ieri, siano veramente congrue agli strumenti che la nostra epoca ci offre.
Le idee di rinnovamento formulate nel secolo scorso non ci insegnerebbero nulla se venissero semplicemente riscoperte come soluzioni tecniche perennemente utili; ciò che dobbiamo fare, al contrario, è indagare se da quelle testimonianze di ieri non sia possibile oggi sviluppare un discorso critico utile in un contesto diverso.
E’ necessario qui riferirci ad un esempio concreto. Esso mette in luce il carattere di “pseudonovità” di alcune proposte recenti sulla riforma degli ospedali psichiatrici; allo stesso tempo, distanziando queste proposte in una prospettiva storica, fornisce l’occasione per alcune osservazioni sui pericoli di uno “pseudo-rivoluzionarismo” manicomiale.
La prima testimonianza alla quale vogliamo riferirci è quella di uno psichiatra asilare francese della fine dell’Ottocento, E. Marandon de Montyel, che difende il sistema conollyano dell’«open door» e del «no restraint» (3).
L’inizio della polemica è duplice: da un lato l’autore lamenta che non si mettano in opera in Francia i principi istituzionali «nuovi» che già vigono in altri paesi europei; da un altro lato polemizza con alcune delle vedute che venivano allora considerate fra le più avanzate.
Attaccando un collega per la limitatezza dei suoi principi riformatori, egli scrive:
“[il relatore] ci dice solamente che l’asilo moderno deve divenire sereno, e impiegare i malati, nella misura del possibile, ai lavori agricoli” (p. 391).
Questo punto di attacco critico non è casuale. Possiamo subito osservare, a questo proposito, che la pretesa di riabilitare i malati mettendoli puramente e semplicemente a lavorare nei campi (così come il falso problema dell’abbellimento dell’ospedale come modalità di riforma) ha sempre servito, almeno da cento anni a questa parte, sia a mascherare lo sfruttamento dei pazienti «tranquilli» in una attività sul cui valore terapeutico si possono sollevare nella maggior parte dei casi seri dubbi, sia anche a costituire una falsa soluzione da esibire come vanto di modernità della istituzione.
La critica di Marandon de Montyel è, a questo proposito, diretta e precisa e precorre i moderni studi sul malato di mente ospedalizzato:
“Il primo punto da stabilire è che i nostri asili attuali con i loro muri di prigione o di chiostro, con le loro disposizioni regolari e simmetriche sono, per un numero assai grande di alienati, delle fabbriche di incurabili; noi stessi, a causa dell’isolamento che imponiamo ai malati, per la vita di reclusi alla quale li condanniamo, per la disciplina severa che imponiamo loro, siamo, in un grande numero di casi, inconsciamente e con le migliori intenzioni del mondo, dei fabbricanti di cronici” (p. 391).
La storia della psichiatria asilare, vista nel 1896, merita una citazione più lunga per la precisione con cui fin da allora viene identificato il principio dell’isolamento del paziente dalla società esterna come fatto costitutivo della mortificazione manicomiale:
“Dall’epoca della riforma di Pinel, due principi hanno presieduto alla costruzione degli asili per alienati. Il primo, è che questi erano malati, e che pertanto gli stabilimenti destinati a riceverli dovevano essere ospedali; il secondo, è che essi erano malati di un tipo particolare, per i quali era necessario associare l’isolamento all’ospedalizzazione, essendo essi pericolosi, e anche in base all’idea che solo la separazione dal resto del mondo potesse guarirli. Si costruirono dunque edifici ben chiusi, dotati di alte mura, indubbiamente confortevoli e igienici, ma senza vista sull’esterno, veri chiostri ai quali non doveva neppure pervenire alcun rumore, al fine di preservare il cervello ammalato da qualsiasi emozione, così come un arto fratturato viene protetto da qualsiasi scossa. L’orizzonte dell’isolato fu limitato alla vista da mura: là, in quello spazio ristretto, separato dai suoi e dagli amici, lontano dal mondo doveva tornargli la ragione.
Ben presto ci si rese conto che un simile sistema era letale per lo spirito. In quell’isolamento completo, il malato abbandonato intieramente a se stesso, senza alcuna distrazione, ruminava il suo delirio che, anziché attenuarsi andava fortificandosi. Si capì subito che era necessario farlo uscire il più spesso possibile da quei quartieri murati rendendolo occupato, soprattutto all’aria aperta, impegnandolo in lavori fisici tali da assorbire tutte le forze vive dell’organismo, in modo tale che stancandosi il corpo il cervello potesse riposarsi. Non si rinunziò tuttavia all’isolamento. Così, se agli asili furono annessi terreni coltivati e laboratori (ateliers), non si sacrificò per questo né una pietra dei muri esterni, né dei muri interni; i terreni coltivati furono cintati come gli ambienti di lavoro e, rientrato dal lavoro, l’alienato si ritrovò nei vecchi quartieri mutati […] Abbiamo finito per convincerci dei benefici del lavoro negli ateliers e soprattutto nei campi, delle abitazioni gaie con veduta sulla campagna, e persino delle distrazioni accordate ai malati; ma non siamo ancora riusciti a sbarazzarci di questa falsa idea, secondo la quale l’alienato per guarire deve vivere a parte, di una vita diversa da quella di tutti” (p.p. 393-94).
Si può osservare a questo proposito che forse l’autore non poteva rendersi conto, a quell’epoca, del fatto che le attività di lavoro e la gaiezza dei luoghi perdevano completamente di significato nell’ambito di un mondo autoritario e impermeabile agli scambi con l’esterno.
Le proposte di riforma sono chiare:
“Così il nuovo metodo di ospedalizzazione degli alienati, quello che saremmo ben felici di vedere applicato anche da noi, parte, per la costruzione degli asili, da principi diametralmente opposti. Il primo di tali principi è l’abolizione della sequestrazione del malato; il nuovo metodo rende all’alienato tutta la sua libertà; nulla, nell’ambiente in cui si trova, gli ricorda che egli è un essere anormale, separato momentaneamente dal resto della società. In apparenza, egli è completamente libero. Di conseguenza, dove egli abita, tutti i muri sono soppressi, non vi sono barriere né all’esterno né all’interno. Ma ciò non basta: bisogna anche che possa entrare e uscire a volontà, così che all’abolizione delle muraglie si accompagna quella delle serrature; è l’asilo dalle porte e dalle finestre aperte, è l'”open door”. Si può convenire che un simile tipo di edificio differisce un poco da quelli che costruiamo con grandi spese, e dei quali si è potuto dire giustamente che il funzionario più importante era il portinaio.
Questo alienato che si crede libero, che va e viene, che entra e esce a volontà, che non scorge alcun vero limite alla propria libertà, è egli veramente libero? Può liberamente commettere il male? Per nulla affatto, poiché in ogni istante, senza che lo sappia, egli è oggetto di una sorveglianza occulta, in cui i suoi più piccoli atti e le sue parole sono visti e ascoltati: muraglie e serrature sono state soppresse, ma sono state sostituite da un personale che veglia giorno e notte. Come in tutte le agglomerazioni umane preoccupate della propria sicurezza e tranquillità, vi sono poliziotti diurni e poliziotti notturni. Tutta la sua vita di malato ne viene affiancata, a volte senza che egli ne possa fare a meno; in Francia soprattutto, egli troverebbe strana l’assenza di questa tutela. La presenza di tali guardiani, anziché infastidirlo, gli pare naturale e lo rassicura.
In queste condizioni di assoluta libertà, sarebbe un errore ritenere che le evasioni siano troppo frequenti. Ciò può sembrare paradossale, ma esse sono forse meno frequenti con questo sistema che negli asili chiusi dove le muraglie sono abbastanza alte da determinare l’impressione della cattività, ma non abbastanza alte da impedire la loro scalata. Là, tutto invita l’alienato a fuggire, mentre negli istituti che noi preconizziamo egli non deve sospirare una libertà che già possiede. Del resto ho potuto acquistare una certa esperienza negli otto anni in cui ho lasciato ai miei malati la massima libertà di movimento; e ho potuto convincermi che il miglior sistema di impedire le evasioni era di spalancare le porte” (p.p. 396-97).
Ci si rende conto facilmente oggi che al di là della modernità di intenti dell’autore vi è nelle sue intenzioni qualcosa che stride. Egli non desidera rendere il paziente più libero se non «in apparenza». Nella misura in cui lo rende libero, lo inganna costruendogli intorno una comunità falsamente non-ospedaliera, in cui possa (per sempre?) sentirsi come a casa propria. Tutto l’accento viene posto sul momento soggettivo, per cui indipendentemente dalla realtà istituzionale, e anzi a dispetto di essa, il paziente si “crede” libero. La sorveglianza occulta a cui il malato viene sottoposto ribadisce in forma totalmente mistificata, più sottile ma ancora più ferrea ed efficace, la sua totale, segreta subordinazione all’istituzione. Questa subordinazione può giungere ad essere ancor meno violenta, e basarsi su fattori di ordine psicologico, ma la realtà non cambia:
“Affermo che non solo la più estrema libertà è compatibile con il buon ordine e con la disciplina, ma, ciò che è meglio, che essa assicura in modo più vantaggioso l’uno e l’altra. I malati, difatti, sono allo stesso tempo riconoscenti del bene che si cerca di fare per loro, e fieri di godere di una simile fiducia; essi si fanno un punto d’onore nel mostrarsene degni al punto che i soggetti ribelli e insubordinati in ambiente chiuso divengono obbedienti e lavoratori non appena si aprano le porte” (p. 410).
Su questo importante problema ci sentiamo di affermare che dal 1896 a oggi settant’anni di psichiatria non debbono essere passati invano. Un discorso di riforma ospedaliera che riprendesse gli stessi argomenti di Marandon de Montyel non dovrebbe essere accettato oggi, in quanto arretrato, contraddittorio, non sufficientemente coraggioso, e incompleto. L’autore non libera i malati: li addomestica con astuzia; toglie loro i legami più brutali e controproducenti ma li consegna a un ordinato regime di polizia. Esiste in questo passaggio un indubbio movimento di liberazione “reale” (le porte aperte, eccetera) che fa parlare all’autore di «condizione di assoluta libertà», ma vi è anche, subito dopo, un contraddittorio movimento coercitivo apertamente teorizzato. Nell’«open door» è nascosta una considerazione psichiatrica di grande portata (i malati, non legati, trattati con rispetto, sono più calmi e non fuggono) ma l’autore nasconde completamente a se stesso e al lettore il fatto che la liberalizzazione dell’ospedale restituisce ai pazienti (malgrado la presenza della «polizia» di cui egli parla) una dimensione «più umana» di cui è giustificato in qualche modo andare fieri, “moralmente”, al di fuori di qualsiasi considerazione psichiatrica. La spinta moralistica dell’autore è sicuramente importante, ma viene taciuta, forse perché insicura per il proprio carattere impreciso, soggettivistico e forse anche velleitario.
Queste contraddizioni possono essere chiarite oggi mediante strumenti critici che ci permettano di renderci conto in quale misura il malato può essere reso “veramente” libero, e non “apparentemente” libero in una comunità poliziesca «umanizzata».
A nostro avviso, tuttavia, il problema non è pienamente risolto neppure oggi. Constatiamo che alcuni fra i più grandi riformatori moderni degli ospedali psichiatrici conservano l’esistenza di uno squilibrio fra la libertà soggettiva (l’illusorio «sentirsi libero» del paziente) e la presenza di un autoritarismo più o meno larvato. Questo autoritarismo assume l’aspetto del paternalismo illuminato ed esercita sul paziente una autorità che nel “migliore” dei casi viene ammessa e riconosciuta come tale (la «latent authority» di Maxwell Jones) e nel “peggiore” dei casi si attua occultamente mediante meccanismi psicodinamici di tipo transferale e di «culto della personalità» facilmente mascherabili.
Secondo il nostro parere per risolvere questa contraddizione saranno necessarie alcune condizioni. In primo luogo che si riconoscano, e si esaminino francamente, le componenti moralistiche e «umanitarie» di ogni riformismo psichiatrico, collegandole alle esigenze democratiche e civili dell’ambiente sociale, e studiando in qual modo gli psichiatri riformatori possano essere, consciamente o inconsciamente, i “portatori” di proteste religiose, moralistiche e politiche presenti nell’ambiente nel quale vivono. In secondo luogo, che si teorizzi in modo sistematico la possibilità di fondare una psichiatria che tenda a “liberare” il malato di mente (precisando quindi in sede psichiatrica e sociopsichiatrica il significato di questo termine). In terzo luogo, che si riconosca la preminenza del momento “obiettivo” (cioè della possibilità di una prospettiva di libertà reale) sul momento “soggettivo” (libertà «sentita» come libertà psicologica, in realtà sempre mistificata nella misura in cui non corrisponde alle scelte possibili in una società coercitiva).
Si può osservare a questo proposito che nella società borghese esiste una ideologia della libertà, per cui le strutture storiche del potere vengono sistematicamente mascherate da un richiamo all’esame della psicologia individuale. La società viene spacciata per un tutto quantificabile, costituito da una serialità intercambiabile di individui la cui eventuale non-integrazione nel sistema appare sempre «curabile» con le armi della psicologia e della psichiatria. Di fronte alla concezione secondo la quale i conflitti reali non esistono, mentre esistono solo conflitti psicologici, noi siamo del parere che sia necessario pronunziare un discorso opposto: i conflitti psicologici (psichiatrici) possono venir capiti nel loro vero significato solo se visti nell’ambito di conflitti (politici) reali. Il mascheramento del problema (reale) del potere e della libertà dietro al problema della libertà psicologica individuale è tanto più grave quando si passi a esaminare, invece che la società dei «sani» nel mondo esterno, la società dei malati di mente nel mondo manicomiale. In questo universo istituzionale, infatti, non solo esiste “già” una tendenza a risolvere ogni problema sul piano psicologico e psichiatrico, ma esiste anche una impossibilità a prospettarsi lotte sociali e prospettive politiche che, sovvertendo l’ordine costituito, prefigurino una libertà futura “reale”. D’altro lato, come si vedrà in seguito, il «confronto con la realtà» che costituisce il cardine della moderna terapia comunitaria, tende appunto a dare ai malati la possibilità di scavalcare il mondo fittizio della libertà-illibertà psicologica del quale sono soggettivamente prigionieri, per giungere ad un esame della situazione reale della quale sono obiettivamente prigionieri: l’esame delle libertà e delle illibertà “reali” e la possibilità di una contestazione della struttura di potere costituisce in tal modo uno strumento terapeutico.
I limiti storici del discorso di Marandon de Montyel si rivelano, in base a quanto abbiamo detto, anche in un altro passo:
“Tuttavia, riconosco volentieri che questo sistema di libertà integrale, dell’asilo con porte e finestre aperte (l’«open door») non è applicabile a tutti gli alienati senza eccezioni. Esistono fra loro individui molto pericolosi, che non potremmo lasciare circolare senza pericolo per la sicurezza altrui; ve ne sono anche di agitati che, liberi nei loro movimenti, darebbero fastidio agli altri e disturberebbero la loro tranquillità. Costoro, necessariamente, debbono essere mantenuti rinchiusi nei loro reparti. Ma costituiscono la minoranza: non ve ne sono in questa situazione più del 30%, essendo capaci gli altri, sotto la sorveglianza occulta di cui abbiamo parlato, di godere della loro libertà […] Ma anche per il 30% di malati pericolosi o agitati, il nuovo metodo respinge ogni disposizione che richiami troppo da vicino la prigione: così, anche nei reparti chiusi, non vi sono né inferriate né muraglioni” (p.p. 398-99).
Parole sante? Si può eccepire. Anche oggi, in un ospedale psichiatrico «aperto» retto col sistema della comunità terapeutica, come il nostro di Gorizia, esiste una minoranza di pazienti che vengono trattenuti in due reparti chiusi (maschile e femminile): si tratta di senili, di gravissimi oligofrenici, di alcuni psicotici. I motivi di questo «residuo manicomiale» sono comprensibili: aprire le porte a tutti non è concepibile oggi, per “qualsiasi” tipo di paziente, come un provvedimento terapeutico fine a se stesso, ma implica una riorganizzazione complessa, ben servita dal personale infermieristico, impostata sulla base di attività di gruppo. Un programma di tal genere, attuabile e auspicabile, può rimanere di difficile realizzazione per un certo numero di anni, a causa di contingenze essenzialmente pratiche. Si tratta di un insuccesso, però, né valgono a mitigarlo infinite altre scuse e considerazioni, come ad esempio il pensiero che oggi, a differenza che ai tempi di Marandon de Montyel, gli psicofarmaci, la psicoterapia, le attività di gruppo e la socioterapia comunitaria permettono comunque di dimettere o di tenere fuori dai reparti chiusi alcuni soggetti (forse non molti) che settant’anni or sono vi sarebbero stati irrimediabilmente confinati. Eppure è risultato a tutti ben chiaro, nel corso della nostra attività presso l’ospedale di Gorizia, che finché in un ospedale rimarrà un solo reparto «chiuso» si ricreeranno sempre, nel personale curante come nei pazienti, vecchi atteggiamenti manicomiali di discriminazione o di minaccia, distinzioni fra buoni e cattivi, fra recuperabili e irrecuperabili, fra quelli «veramente matti, che non capiscono» (confinati adesso non nell’ospedale nel suo insieme, ma nei reparti chiusi) e i «migliori», privilegiati per una moderna organizzazione istituzionale. La stessa implicita minaccia di «andare al reparto chiuso» benché formalmente bandita e di fatto da tempo esclusa in seguito al provvedimento da noi adottato di far solo uscire i pazienti da quei reparti, ma non farci entrare più nessuno, continua ad agire come una riproduzione fedele, all’interno della comunità ospedaliera, della discriminazione esterna fra sani e «poveri folli».
A questo proposito si può forse sostenere l’ipotesi che lo psichiatra francese non si rendesse neppure pienamente conto del carattere di rottura dell’«open door», cioè del suo carattere di necessaria “apertura” verso altre e più avanzate forme di terapia (la comunità terapeutica, la psicoterapia istituzionale), così come del suo carattere di chiusura, di rottura nei confronti delle vecchie (già vecchie a quell’epoca!) concezioni ergoterapiche e ricreative:
“Si solleveranno contro l’emancipazione del malato le stesse vigorose resistenze che furono organizzate ai suoi tempi contro Pinel quando volle togliere le catene, e contro Ferrus e Parchappe, quando vollero mettere strumenti di lavoro fra le mani dei malati […] Importa prevedere le grida di protesta e le opposizioni, per non lasciarsene smuovere né scoraggiare. Con prudenza e perseveranza, giungeremo a liberare l’alienato dal suo ospedale-prigione così come i nostri padri sono giunti a liberarlo dai suoi ferri e a trasformarlo in lavoratore” (p 401).
Più in là, tuttavia, l’autore sembra comprendere il carattere necessariamente globale della riforma manicomiale:
“Il metodo, nel suo insieme, forma un “blocco”: esso va accettato o respinto. In un asilo chiuso e costruito secondo il sistema antico, dove, per timore di incidenti, il medico non organizzerà il lavoro sulle basi più larghe…, dove i parenti non avranno la possibilità di mangiare con i loro malati e di portarli fuori; dove gli alienati saranno costretti a scrivere a ore e a giorni fissi su una quantità di carta misurata con cura; dove non vi saranno né congedi provvisori né dimissioni prolungate; dove saranno ancora in auge le punizioni sotto le varie forme di docce orizzontali e verticali, i bagni prolungati da quattro a sei ore e gli isolamenti in cella; dove regnerà una disciplina inflessibile; in tali asili anche le visite a volontà dei parenti ai loro malati sarebbero una contraddizione” (p. 407).
Non si può fare a meno di pensare che l’ottimismo di Marandon de Montyel sarebbe stato fortemente scosso se egli avesse potuto sospettare che settanta anni più tardi, in più di un paese «civile», la situazione organizzativa di molti manicomi sarebbe stata così arretrata da giustificare critiche ancora più incisive e severe. In realtà il nostro autore francese è un moderato: egli non si sofferma né sulle camicie di forza, né sulle forme di vera e propria tortura a cui allora, come in anni recentissimi, i malati erano sottoposti. Non prende in esame il fatto che i mezzi di contenzione si trasformano per lo più, senza soluzione di continuità, in strumenti esclusivamente punitivi, o di sadismo istituzionalizzato: sembra quasi che egli senta un certo grado di solidarietà di categoria, o forse di timore, nel criticare gli aspetti più inumani dei manicomi tradizionali. Eppure lo stretto rapporto a cui si accennava più sopra fra riformismo psichiatrico e indignazione morale rispecchia uno stato di fatto ben preciso: lo stretto rapporto, cioè, fra la coercizione dei malati di mente e la messa in opera di meccanismi sadici nei loro confronti. Dalla camicia di forza alla “maschera” di cui si faceva uso fino a pochissimi anni or sono in un ospedale psichiatrico dell’Europa «civile» il passaggio è esclusivamente di gradi. (Per la cronaca, la «maschera» consisteva nell’applicare attorno alla testa del paziente una tela che, progressivamente bagnata con acqua, diveniva impermeabile all’aria fino a determinare un transitorio soffocamento: è sintomatico notare che questo genere di tortura venne usato in Algeria e viene usato oggi nel Viet Nam; a chi la priorità dell’invenzione? Nei confronti di un malato di mente venne usata, in un giorno non troppo lontano, urina al posto dell’acqua: una raffinatezza alla quale i «parà» forse non avevano pensato).
Marandon de Montyel ebbe un oppositore: un moderato anche lui, ma sulla trincea opposta. Vale la pena di riprodurre qui alcuni brani di un alienista non illustre, e di cui preferiamo tacere il nome, con cui nel 1897 i canoni del «buon senso» manicomiale venivano usati a sostegno della difesa della tradizione, e contro le idee del nostro autore. Questo scritto non ha alcun valore scientifico in se stesso: è molto utile citarlo, sia perché contribuisce a definire una complessa problematica, sia perché ci sembra di ritrovare in esso uno “stile” particolare, fatto di malafede e di ipocrisia (4).
“Sembra che noi corriamo un grande pericolo, che siamo minacciati da una catastrofe. In paesi più o meno lontani, in Germania, in Scozia, perfino in America, hanno inventato un metodo mirabile di trattare e di guarire gli alienati: è il metodo de «l’asilo senza mura esterne né interne, con porte e finestre aperte», detto altrimenti l’«open door». Invenzione ammirevole, che è divenuta dappertutto la preoccupazione dominante, salvo in Francia, dove restiamo gli «esseri più consuetudinari del mondo», indifferenti al progresso, e dove limitiamo le nostre ambizioni a «ricominciare domani le stesse faccende di oggi, e a rifare ogni giorno lo stesso cammino». Del che il signor Marandon è afflitto. Perché si tratta, né più né meno, che di una «rivoluzione» che «romba alle nostre porte» e ci spazzerà via noi e i nostri asili; a meno che, più fortunato di Cassandra, egli non arrivi a «scrollare i nostri torpori», a tirarci fuori da «l’indifferenza nella quale siamo sprofondati». Come volergliene se egli si affanna a gridare forte, più che a gridare giusto? Quando si tira fuori dall’acqua qualcuno che annega non ci si preoccupa di sapere se gli si strappa una ciocca di capelli o se gli si graffia la pelle.
Dobbiamo dunque ringraziare il signor Marandon per la sua sollecitudine. Tuttavia bisogna pure che gli dica che io non condivido i suoi timori né i suoi entusiasmi. In questo meraviglioso «open door» io vedo così poche cose nuove che non vale la pena di soffermarvisi. Ciò che vi si trova di buono è vecchio e conosciuto; ciò che vi si trova di nuovo e di inedito è contestabilissimo, se non del tutto impraticabile” (p. 69).
A proposito della libertà di visita dei parenti ai ricoverati, sulla quale peraltro non ha nulla da eccepire, lo psichiatra tradizionalista difende, con distaccata ironia, la modernità del proprio istituto:
“Vi sono alcune ombre nel quadro: le indigestioni non sono assolutamente rare; alcuni paralitici progressivi si sono quasi soffocati mangiando troppo ingordamente i dolci e la frutta che gli erano stati portati. Ma questi sono piccoli inconvenienti sui quali non voglio insistere. C’è bisogno di aggiungere che non si sa a Charenton ciò che sia una doccia di punizione? Che la camicia di forza alla quale, malgrado tutto, io riconosco dei vantaggi, non è impiegata se non molto raramente, e a titolo eccezionale? Io ho sempre pensato e penso ancora che quando un alienato ha la mania di lacerarsi i vestiti e di denudarsi, è nel suo stesso interesse mantenergli le braccia in un corpetto di tessuto morbido” (p. 71).
A proposito delle mura di cinta dell’ospedale, la presa di posizione di questo signore è però assai più precisa. E’ importante notare come l’autore, nel controbattere i suggerimenti di Marandon de Montyel, identifichi con straordinaria chiarezza i legami organici fra il senso e il “valore” borghese della proprietà privata, e l’atteggiamento reificante di chi isola, “gestendoli” a parte, e “al sicuro”, i malati di mente. Il richiamo finale alle piante rampicanti e all’addolcimento «decorativo» del manicomio non poteva mancare, e si rivela come parte integrante della sua concezione:
“Ciò nonostante è assodato che, da sempre, sotto tutte le latitudini, ogni proprietario ha avuto la tendenza “naturale” [corsivo nostro] e istintiva, a recintare il suo possedimento grande o piccolo. Se lo circonda di un muro, il che raramente non fa, è perché tiene, soprattutto, a essere proprio a casa propria e al riparo da sguardi indiscreti. Se, ciò che gli auguro, il signor Marandon possiede anch’egli qualche villa o qualche proprietà campestre, sono sicuro che l’avrà circondata di una cinta protettrice. Poiché il muro impedisce sì di uscire, ma impedisce anche di entrare e, secondo la mia esperienza, ciò non è cosa indifferente. Non è inutile proteggere i nostri alienati contro la curiosità, spesso fuor di luogo, dell’esterno. Essi stessi non brillano sempre per una tenuta irreprensibile: non vi è alcun vantaggio a mettere in mostra le loro miserie; dobbiamo fare in modo di velarle con discrezione.
Io sottoscrivo che, dove i muri non sono indispensabili, vengano sostituiti con delle grate: ma questo c’è già. A Charenton tutti i nostri cortili, tutti senza eccezioni, ornati di alberi e di cespugli di fiori, sono orientati a mezzogiorno, con una bellissima vista sulla campagna. Nessun muro che interrompa il paesaggio, dappertutto delle grate, quando è possibile provviste di verzura e di piante rampicanti […] Le nostre celle sono divenute camerette bene illuminate e riscaldate. Non abbiamo ancora soppresso le chiavi: ma bisogna pur lasciare qualcosa da fare ai nostri successori. Parlerò delle distrazioni che diamo ai nostri pensionanti? Essi scrivono quanto vogliono e tutto ciò che vogliono: noi forniamo loro largamente la carta. Essi ne fanno uso, a giudicare dalla quantità di lettere, di memoriali, di rapporti che ci consegnano ogni mattina all’ora della visita” (p.p. 71-72).
Già dalle parole che abbiamo citato il lettore scaltrito avrà potuto identificare un certo tipo di realtà asilare. Ma più oltre il nostro psichiatra tradizionalista scopre le proprie batterie e si riferisce (forse con maggior chiarezza di quanto, con visione e intenti ben diversi, non avesse fatto Marandon de Montyel) a una ben precisa concezione del malato di mente:
“Ciò che mi ha colpito nell’argomentazione, non voglio dire requisitoria, del signor Marandon, è il modo in cui egli concepisce l’alienato […] Noi in realtà erriamo sullo stato d’animo dell’alienato, perché lo giudichiamo in base al nostro. Ragioniamo su di lui, così come ragioneremmo su noi stessi. Ci immaginiamo molto bene ciò che proveremmo se, improvvisamente, venissimo strappati dai nostri affari, dal nostro focolare e rinchiusi fra quattro mura (le terribili mura): noi supponiamo, erroneamente, che l’alienato risenta queste cose allo stesso modo. E’ là, a mio vedere, lo sbaglio profondo. L’alienato reagisce in modo del tutto diverso da noi. I suoi rapporti col mondo esterno sono del tutto diversi dai nostri. Io sono persuaso che quando un alienato legge un libro, un giornale, legge in realtà, molto meno di ciò che vi si trova realmente, di ciò che vi leggeremmo noi, e legge piuttosto ciò che vi mette, cioè le sue idee deliranti, le sue illusioni, le sue concezioni morbose. Egli si fa un’idea particolare su tutto ciò che lo circonda, e questa idea non ha alcuna analogia con quelle che ci potremmo fare noi stessi” (p.p. 73-74).
Le conclusioni che seguono, nel loro aspetto di disprezzo e, allo stesso tempo, di indifferenza per il malato, erano già implicite nel discorso precedente:
“Ciò che è indubbio, è che esiste in lui una perversione profonda, assoluta, dei sentimenti affettivi, e che egli manifesta in ogni circostanza un egoismo che nulla può scalfire”.
La condanna moralistica al malato di mente espressa visceralmente in queste parole non tollera una unica spiegazione, né a livello storico né a quello psicologico. Può essere molto illuminante però ricordare una testimonianza precedente, dove l’aggressività dello psichiatra verso il malato si situa in un contesto che ne illumina chiaramente alcune motivazioni.
Secondo Boucher de Nantes, nel 1848, la malattia mentale ha una origine essenzialmente sociale, risultato dell’evoluzione della civiltà che crea delle lotte costanti: «questa terribile malattia, conseguenza di aspirazioni deluse, di appetiti eccitati senza posa, di istinti contrariati» ha «pervertito i sentimenti», essa non è che la conseguenza «del principio dell’individualismo portato all’eccesso», il suo rimedio si trova nella «disposizione contraria». L’organizzazione dell’ospedale dovrà quindi permettere «la regolarizzazione degli atti sottomessi alla direzione di un pensiero estraneo (al malato)»; così posto nell’ospedale in un quadro autoritario dove «i suoi scarti saranno repressi»; il malato potrà rimettersi progressivamente e lentamente in contatto con «l’élite intellettuale e morale della vita sociale»: il lavoro sarà evidentemente l’arma terapeutica indispensabile e il suo aspetto positivo dovrà chiaramente apparire (5).
Il fatto che un discorso così penetrante, così chiaro e così conseguentemente reazionario, fosse possibile e «naturale» nel 1848, più che sessanta o settant’anni dopo, non può stupirci. Non dobbiamo arrestarci, qui, alla relativa ingenuità del determinismo sociopsichiatrico di Boucher de Nantes; importa notare piuttosto che con ogni probabilità la concezione della follia della prima metà dell’Ottocento permetteva di arrivare “direttamente” a scorgere l’esistenza di rapporti che legavano il modo di concepire il malato di mente con il modo di concepire la società.
La follia come problema «morale» aveva probabilmente due facce opposte, rappresentata la prima dal riformismo religioso dei Tuke (che erano, non lo si dimentichi, dei quaccheri) e la seconda dal farisaismo manicheo e sadicamente punitivo dei probi difensori dell’ordine sociale e della normalità «virtuosa» contro le minacce e i rischi del disordine e della sovversione.
L’evoluzione ulteriore del pensiero psichiatrico in senso naturalistico e «scientifico» riuscì a mascherare per più d’un secolo l’esistenza dei legami fra psichiatria e concezioni sociopolitiche. L’avvento e il regno della psichiatria positivistica (che ancora ci condiziona pesantemente in Italia), hanno costituito una svolta involutiva di cui solo oggi cominciamo a comprendere la gravità.
Sotto l’aspetto asilare, la psichiatria del Novecento è migliore di quella dell’Ottocento? Per molti aspetti è lecito dubitarne. Fra l’Ottocento e i primi decenni del Novecento la psichiatria asilare ha subito, secondo la fondata opinione di numerosi autori, un regresso. In uno studio del 1963 di B. Rubin e A. Goldberg (al quale rimandiamo anche per i riferimenti bibliografici pregevoli e completi) si possono leggere queste considerazioni:
“In generale, il periodo fra il 1850 e il 1940 segnò un cambiamento da una viva preoccupazione sulla necessità di aprire gli ospedali a un abbandono pressoché totale dell’idea. Cameron sostiene che «forze sconosciute» mutarono in qualche modo l’opinione pubblica. Le ipotesi su queste «forze sconosciute» si riferiscono abitualmente all’aumento dell’industrializzazione, alla concentrazione urbana, all’aumento di dimensione degli ospedali psichiatrici, alla accresciuta incapacità a tollerare i malati di mente nelle famiglie, e all’avvento della medicina «scientifica» con le psicosi organiche come modello” (6).
E’ probabile che sarebbero necessari nuovi studi storici sia per precisare le modalità con cui tale regresso può essere avvenuto, sia anche per stabilire in quale misura vi sia stata, invece, una continuità poco nota fra la riforma conollyana e quella britannica del secondo dopoguerra, anche attraverso l’opera ben nota di Simon (1923-29). Anche la distanza di anni indicata da Rubin e Goldberg (1850-1940) ci pare troppo vasta per essere considerata in blocco: il periodo a nostro avviso più importante per uno studio sul «regresso istituzionale» dovrebbe essere quello che va fra la fine dell’Ottocento e il 1940-45.
Quanto alle ipotesi sulle cause di questo regresso, il discorso diviene evidentemente più difficile, sconfinando largamente nel campo dell’opinabile: i possibili suggerimenti esprimibili in questa sede valgono più che altro come uno stimolo per ricerche ulteriori. Con una distinzione forse un po’ artificiosa si possono riprendere gli argomenti di Rubin e Goldberg (confronta più sopra) e separare da un lato le cause sociali, e da un altro lato le cause legate agli indirizzi della psichiatria scientifica. Mentre nell’Ottocento la psichiatria si identificava necessariamente, nella sua quasi totalità, con la psichiatria asilare, già alla fine del secolo il sorgere della moderna psichiatria clinica poneva una alternativa di studio sul “caso”, proposte di guarigione individuale, selezione di casi psicologicamente e socialmente «adatti» a un trattamento. Anche il tramonto del moralismo riformistico psichiatrico del Settecento e dell’Ottocento e della stessa «cura morale» della follia, a cui abbiamo accennato in precedenza, può avere avuto una importanza determinante nel distogliere l’attenzione dai «problemi umani» negli asili. Vale la pena di citare un brano di Henry Ey:
“Ridotto a non essere altro che un insieme di sensazioni o di movimenti automatici, libero da catene ma rinchiuso, l’alienato subisce la sorte che il compatimento sociale gli riserva, in uno spazio chiuso in cui rimane abbandonato al gioco dei propri meccanicismi. Questo fascio di riflessi, questa carica di esplosivo, questa macchina sregolata che cigola e gira a vuoto è certamente considerato con il rispetto dovuto a un malato che ha perduto il senno, ma il medico che se lo rappresenta come una marionetta e che, in qualche modo, ha fabbricato questo robot non può liberarsi del tutto dall’illusione che egli stesso si è creato. Le leggi che in tutti i paesi hanno codificato questo atteggiamento della società di fronte alla follia, per quanto possano essere state filantropiche e onorevoli, per quanto possano essere state efficaci, hanno cristallizzato l’immagine del folle-macchina. Costui, «per essere protetto contro se stesso», per poter essere reso inoffensivo per gli altri, viene allora internato. L’internamento assicura il suo riposo, quello della sua famiglia, dei suoi amici solleciti e compassionevoli. E’ allora che nasce tutta una «architettura asilare» la cui funzione essenziale è assicurata dai muri di cinta. Nel seno di questa fortezza, bagni per calmare i malati, cortili circondati da reti per assicurare loro un posto al sole, cellette pulite ma ben dotate di catenacci per isolarli, camicie di forza per evitare loro di ferirsi o di evadere, una visita cordiale e quotidiana del medico per incoraggiarli, una somma di denaro per ricompensarli del lavoro che essi debbono all’istituzione quando sono calmi e ragionevoli, guardiani robusti per contenere i loro tristi furori, visite controllate nel loro stesso interesse, disposizioni di regolamento atte ad assicurare l’amministrazione dei beni che essi non possono gestire in modo ragionevole, la sollecitudine dei magistrati e del potere pubblico che vegliano sulla loro libertà individuale, tutte queste misure di sicurezza, tutte queste previdenze, queste vigilanze e questi zeli amministrativi costituiscono lo statuto dell'”internamento” […] Tutto sommato, dopo essere stati così cattivi verso gli alienati nel medioevo, conveniva adesso dimostrarsi “buoni” nei loro riguardi, «non contrariarli», lasciarli in pace mantenendoli al sicuro. Principi questi fondamentali della prescrizione terapeutica usuale a quell’epoca (fine dell’Ottocento), pregiudizi che, come ognuno ben sa, sono solidamente ancorati nei pregiudizi e proverbi dell’opinione volgare per cui il folle è «incurabile». Tutto si trovava quindi in un ordine logico alla fine di quel diciannovesimo secolo, che aveva forgiato allo stesso tempo la farragine dottrinaria e l'”asilo” della «malattia mentale». Quest’ultima, monolitica nel suo rigoroso inquadramento nosografico, era divenuta il solo oggetto della psichiatria e questa, tutto sommato, si allontanava dall’uomo «malato mentale» per non interessarsi se non alla specie della «malattia mentale» dalla quale egli «era colpito»” (7).
Questo brano di Ey sottolinea implicitamente due ipotesi di notevole importanza: la prima è che un atteggiamento «umanitario» razionale può condurre a una reclusione istituzionale organizzatissima, igienica, educata e caritatevole ma non per ciò meno ferrea; la seconda, è che lo sviluppo, tipico della fine dell’Ottocento, di una concezione «medica», «scientifica» della malattia mentale, con le sue speranze e i continui rinvii della guarigione, non è affatto incompatibile con il mantenimento della segregazione istituzionale, ma tende anzi a rafforzarla.
Possiamo chiederci: la diagnosi tratteggiata da Ey è valida anche per i primi decenni del Novecento? A nostro avviso sì, e anzi a maggior ragione. Il riformismo psichiatrico, fin da Pinel, è figlio (fra l’altro) dell’illuminismo, ma è la stessa volontà ordinatrice e razionalizzante del pensiero illuminista quella che “sistema” l’irrazionalità della follia in una pianificazione oggettivante che conduce, senza soluzioni di continuità, alla asettica eliminazione fisica degli «inguaribili» operata dagli psichiatri nazisti. Dopo Horkheimer e Adorno, sappiamo che una certa dialettica della ragione ha prodotto dei mostri, e sarebbe interessante studiare con più cura in qual modo anche la psichiatria della fine dell’Ottocento e del Novecento non si sia sottratta alla logica involutiva del pensiero illuminista. Come in parte aveva intuito Foucault, la follia, negazione dell’ordine «razionale» della società, è stata negata a sua volta mediante l’espulsione del folle dal corso storico della società; la follia è stata resa puro oggetto, da esaminare nei laboratori e da gestire attraverso la impersonale e vertiginosa minuzia dei regolamenti manicomiali. Volendo limitarci alle teorie psichiatriche, sarebbe anche interessante chiedersi fino a che punto tre studiosi che possono venir considerati padri della psichiatria moderna abbiano influito negativamente, con le loro teorie, sulla riforma della psichiatria asilare: Kraepelin con il suo determinismo clinico e col pessimismo sulla prognosi della demenza precoce; Jaspers con la teoria della «incomprensibilità» psicotica, vero muro concettuale frapposto a ogni tentativo di rapporto col malato; Freud stesso (o i freudiani) in modo più sottile ma forse ancora più nefasto, con la insistenza sulla unicità del sondaggio psicoanalitico come rapporto interpersonale isolato e privilegiato.
Si può osservare a questo proposito che se il «nuovo» riformismo asilare ha un debito nei confronti di Freud, gli squilibri della organizzazione psichiatrica degli Stati Uniti testimoniano, fra l’altro, del fatto che una prospettiva di assistenza psichiatrica basata quasi esclusivamente sul rapporto psicoanalitico individuale finisce coll’interessare soltanto gli strati più abbienti della popolazione, favorendo indirettamente il ritardo organizzativo degli ospedali statali.
Un esame critico della psichiatria (teoretica) del Novecento, dal punto di vista dei suoi possibili influssi sulla stagnazione, o sul regresso, della organizzazione asilare, ci porterebbe troppo lontano. Anche qui, ci limitiamo a segnalare l’importanza del problema. E’ possibile, del resto, che fattori storici, sociologici, politici e culturali (anche nel senso della teorizzazione «colta» degli obblighi assistenziali della società nei confronti dei malati così come dei «sottoprivilegiati») abbiano avuto una influenza “diretta” sulla situazione asilare.
Inoltre, se da un lato non è facile distinguere l’importanza rispettiva dei due ordini di fattori (psichiatrico-teoretici, e storico-culturali), da un altro lato è molto importante chiedersi fino a che punto anche le formulazioni della psichiatria teoretica non possano esser state direttamente influenzate dal «Zeitgeist» colto europeo, e quindi, dalla ideologia degli strati dirigenti borghesi prima e durante il periodo delle guerre mondiali.
Eppure da quello stesso travaglio europeo, fra l’epoca vittoriana e il secondo dopoguerra, sono emersi una serie di positivi strumenti critici, e una serie di nuove consapevolezze e esigenze, che costituiscono oggi la base necessaria per una nuova riforma degli ospedali psichiatrici. Anche qui però è difficile distinguere fino a che punto la psichiatria del Novecento (in particolare con Freud) abbia operato una “rottura” della distanza che separava in precedenza il medico dal malato di mente, utile ai fini della riforma asilare, e fino a che punto, invece, le esigenze attuali di riforma degli ospedali nascano prevalentemente da consapevolezze e considerazioni extrapsichiatriche, come quelle sociologiche sui ruoli nei gruppi e sulle minoranze e quelle politiche sui diritti dei sottoprivilegiati.
La consapevolezza di queste interazioni complesse si ripete al livello di una analisi non più storica ma sincronica della organizzazione psichiatrica. Ricorderemo brevemente come la psichiatria, essendo divenuta “oggetto” di numerosi e penetranti studi sociologici, abbia saputo trovare, contemporaneamente alla sociologia, la via di un autonomo ripensamento come studio del rapporto interpersonale (specificatamente, fra lo psichiatra e il paziente) come rapporto in un ambiente sociale “determinato”. La consapevolezza sociologica e la nuova consapevolezza psichiatrica hanno finito col tendersi la mano, e lo studio della organizzazione della assistenza psichiatrica si è identificato largamente con lo studio della psichiatria.
In questo processo, se è vero che il malato di mente ha perso una precedente astratta genericità, ricomponendo la scissione fra la “persona” e la “malattia”, è vero anche che lo psichiatra ha perso, con qualche resistenza ma indubbiamente con suo vantaggio, quella rispettabilità «data» e «garantita» che era suo privilegio ancora nei primi decenni di questo secolo.
La psichiatria sociale ha contribuito a svelare in qual modo la pratica psichiatrica (come terapia e organizzazione), acquisti il suo vero significato, nell’ambito della società occidentale, solo se vista come parte integrante di una “pratica sociale” che si articola in primo luogo secondo strutture di classe (8). La psichiatria si colloca così nel suo vero contesto, come pratica, ma non si svela necessariamente come ideologia. Per quest’ultimo aspetto vale la pena piuttosto, di riferirci succintamente ad alcune considerazioni di Talcott Parsons; a lui e alla sua scuola dobbiamo infatti quegli studi sulla sociologia della psichiatria, che ci permettono di impadronirci di alcuni strumenti di analisi utili per collegare la pratica sociale reale della psichiatria all'”idea” che la psichiatria si fa di se stessa (9).
Secondo Parsons e la sua scuola, la professione medica è un insieme di comportamenti istituzionalizzati: è un insieme di ruoli che fanno parte di un determinato ambito culturale. Più specificamente, è un sottosistema di minoranza, perché i medici formano una minoranza nell’ambito della popolazione allargata che viene considerata però, qui, come priva di caratteristiche di classe. Nel linguaggio sociologico, essa è un sottosistema di minoranza istituzionalizzato, cioè organizzato secondo modelli di ruolo; la professione medica risente di determinati orientamenti di valore che sono prevalenti nella società. Più precisamente, potremmo aggiungere, questi orientamenti di valore vengono elaborati come sistematizzazione ideologica dei privilegi della classe al potere, e resi «pubblici» cioè assorbiti a livello delle altre classi come valori «comuni» o (falsamente) «naturali».
L'”ideologia” dello psichiatra evidenzia e acuisce sulla base delle premesse parsonsiane, il sistema di valori proprio della ideologia medica generale. Quest’ultima si riassume in alcuni principi tradizionali: che il medico operi con disinteresse missionario, anteponga il benessere del paziente al proprio, escluda dalle proprie motivazioni il motivo del profitto (almeno come motivazione importante) e sia affettivamente interessato, ma personalmente “neutrale”, nei confronti del malato.
Questa ideologia del medico non esclude sottoideologie più specifiche che andrebbero esaminate. La prima osservazione che si impone nei suoi riguardi è comunque che si tratta di una ideologia “falsa”. In altre parole, essa non regge a un semplicissimo confronto con una realtà da “tutti” osservabile, purché questa realtà venga esaminata con occhio sincero.
Secondo Parsons, essa è tuttavia una ideologia in qualche modo “necessaria”: il medico esercita sul paziente un “potere”, che è assai vasto, ma il paziente non ha gli strumenti per esaminare questo potere; egli è inerme nelle mani del medico eppure «deve» credere in lui. E’ necessario sottolineare in questa sede il fatto che il potere psichiatrico è, in questo caso, assai più radicale e più propriamente globale di quello del medico generico: sia per i provvedimenti terapeutici e giuridici con cui esso si esercita, sia perché fa presa direttamente sul malato come totalità (e non attraverso la considerazione tecnica di un organo da riparare) sia ancora perché il paziente psichiatrico non sa fino a che punto il suo stesso disturbo gli impedisca di valutare l’opera di chi si prende cura di lui.
La ideologia (mistificata) dello psichiatra è veramente necessaria, oltre che alla società in generale, al paziente per “rassicurarsi”, o non è invece, in primo luogo, necessaria allo psichiatra? Affermare che l’ideologia del medico è necessaria al paziente non equivale forse al suggerire che l’ideologia del medico sia solo una modalità transferale, cioè riguardi l’atteggiamento del paziente verso il medico? Si può obiettare che l’ideologia del medico è, invece, una modalità controtransferale e riguarda l’atteggiamento del medico verso il paziente; l’ideologia tradizionale del medico è dunque una difesa che il medico ha costruito contro ciò che la malattia e il paziente hanno di minaccioso per lui: essa giustifica la violenza che la società esercita sul malato attraverso il mandato «psichiatrico». Ma forse non è questo il punto: le stesse categorie psicoanalitiche del transfert e controtransfert sono insufficienti a spiegare il reciproco rispecchiarsi della ideologia medica nel medico e nel malato; il contenuto di tale ideologia non è risolvibile in termini psicodinamici, ma politico-sociali. Lo psichiatra agisce come membro di una determinata classe (e Hollingshead e Redlich si sono preoccupati di documentare in qual modo le decisioni «terapeutiche» risentano in modo determinante di questa collocazione di classe) ma ciò non basta: lo psichiatra si nasconde anche dietro una serie di difese teoriche, che vanno dal semplice vanto retorico della «nobiltà» e «disinteresse» della professione medica fino alle autodifese più sottili, elaborate e impermeabili, escogitate dalla psicoanalisi. Ma la verità più dura sulla “pratica” psichiatrica risiede, una volta di più, nei manicomi: è qui che esplode in modo clamoroso la contraddizione fra la psichiatria ufficiale e quella reale. Qui il «potere medico» di cui si parlava viene giustificato sia come “modalità terapeutica”, secondo la tradizione, sia anche come “modalità burocratico-carceraria”; il fatto che questi due mandati sociali riescano a fondersi svela la nascosta violenza già presente nel potere medico (quale esercitato di fatto) e lascia piena libertà al medico manicomiale per svolgere senza contestazioni possibili e senza reale controllo la propria autorità sul malato. Nell’ospedale psichiatrico la classica mistificazione borghese che spaccia per autorità “tecnica” ciò che è già irrimediabilmente compromesso con la violenza del potere «politico» dell’uomo sull’uomo, 6i rivela in tutta la sua chiarezza.
Gli studi sociologici sui manicomi portano alla definizione di una sindrome particolare la cui esistenza era già stata da tempo presentita. Essa è la istituzionalizzazione di Martin (10), o nevrosi istituzionale di Barton (11) o sindrome da istituzionalizzazione totale di Goffman (12) o sindrome asilare di Freudenberg (13) o regressione istituzionale di Basaglia (14).
Non è il caso di esaminare in questa sede le caratteristiche di questa che può essere considerata come una vera e propria malattia mentale. Dall’esame della letteratura e dalla esperienza risulta in modo chiaro che non si tratta di una modificazione aggiunta alla malattia mentale che condusse al ricovero, quanto piuttosto di un modo di essere patologico che dopo un breve numero di anni diventa dominante nella maggior parte dei degenti negli ospedali psichiatrici. Il fatto che nei campi di concentramento e nelle prigioni (e anche, in forme analoghe ma non identiche, nei brefotrofi e orfanotrofi) si osservi una sindrome mentale assai simile rende difficile la distinzione fra i sintomi della malattia primitiva e i sintomi osservabili dopo più di due anni di degenza. Il problema diviene ancora più complesso se si considerano altri elementi: in primo luogo il fatto che la cosiddetta «malattia primitiva» è già il risultato di una complessa interazione fra il paziente e un ambiente che fin dall’inizio ha “gestito” in qualche modo le sue difficoltà; in secondo luogo il fatto che alcuni sintomi psicotici possono essere perpetuati nei manicomi sotto forma di difese istituzionali (15).
A questo punto il cerchio si chiude; la psichiatria, come oggetto di studio sociologico, finisce con l’uscire dai limiti stessi della sociologia per rientrare nuovamente in quelli della clinica, ma in una modalità contraria a quella convenzionale. La psichiatria come disciplina scientifica e pratica terapeutica è chiusa nella propria patologia e non esterna ad essa: è fonte di disturbi mentali, patologia essa stessa.
Il punto di vista della psichiatria clinica su questo stesso problema comporta indubbiamente una certa maggiore autoindulgenza: tuttavia esiste nella psichiatria moderna una serie convergente di correnti di ricerca che tendono a porre in crisi come oggetto della ricerca stessa, il rapporto medico-paziente (16).
Si ha, all’interno del pensiero psicanalitico, una ininterrotta tendenza a privare l’analista della propria «verginità»: lo studio si è spostato al controtransfert, alla realtà del «rapporto» (l’analisi come analisi del transfert nella situazione “attuale”), alla struttura della comunicazione interpersonale dentro e fuori la mediazione psicoanalitica.
La scuola antropofenomenologica tende a cogliere il modo di porsi dello psichiatra nel rapporto con il paziente, non meno che quello del paziente stesso; gli studi psicoanalitici sui gruppi coinvolgono direttamente la figura del medico; gli studi della comunicazione interpersonale a livello psichiatrico dimostrano, portando alle sue logiche conseguenze il concetto di metacomunicazione, che il rapporto verbale medico-paziente viene reso significante per l’una e per l’altra parte da un sistema complesso di rapporti non verbali che coinvolgono la “struttura” stessa del rapporto concepita come totalità, il “setting” in cui tale rapporto avviene, e la collocazione sociale delle due persone implicate nel rapporto (17). In tal modo la riflessione dello psichiatra sul senso e sulla funzione del proprio comportamento non è più confinata ai limiti imposti dagli strumenti di tipo psicologico e psicoanalitico, ma si sposta a considerazioni di ordine sociale.
In altre parole la psichiatria non esamina più se stessa con schemi esclusivamente psicologistici: essa ritrova, paradossalmente, la propria vera realtà psicologica a condizione di venir messa in discussione come rapporto tra persone aventi una collocazione reciproca che non è risolvibile in termini psicologici. Il rapporto psichiatrico in quanto tale può venire esaminato in modo reale, e non mistificato, quando esso ritrovi la propria concretezza su uno sfondo ben diverso da quello troppo comodo del mantello di Ippocrate: le contraddizioni politiche e sociali che determinano i ruoli dei due protagonisti del rapporto rappresentano lo “sfondo generale” che permette al singolo episodio del confronto medico-paziente di venire esaminato nella propria concreta “particolarità”.
Anche qui il cerchio si chiude, ma in senso opposto: lo studio «psichiatrico» del rapporto terapeutico esce dai confini della psichiatria per rientrare in quelli della sociologia. Dalla sociologia, la psichiatria sociale si muove per recuperare, nello studio del rapporto interpersonale, il significato della “clinica”. In questa ricomposizione la psichiatria rischia però di perdere, al termine del proprio “iter” interdisciplinare, il significato del discorso “politico” che si era affacciato.
Ciò non deve avvenire. La psichiatria sociale esce sia dai confini della analiticità sociologica, sia dai confini della analiticità freudiana e postfreudiana per divenire ricerca “polemica” (cioè politica) dei rapporti «necessari» fra psichiatria e società. La psichiatria sociale si ricongiunge dunque alla storia della psichiatria intesa nel senso indicato più sopra.
Questa dimensione politica non è solo esterna ai problemi terapeutici, ma anche interna ad essi. E’ abbastanza facile pensare a tutto un aspetto della pratica psichiatrica che non ha direttamente a che fare con la cura dei malati di mente, bensì con la “gestione” dei malati in quanto elementi di disturbo nella società. Ma questa gestione può essere tenuta distinta dalla terapia psichiatrica vera e propria? Non crediamo. I comportamenti devianti vengono controllati, fin dal momento della loro comparsa, secondo modalità formali ed informali istituzionalizzate in una data cultura: dalle reazioni dei parenti fino alla espulsione dall’ambito sociale «normale» e alla segregazione negli ospedali specializzati. Il fatto che un comportamento deviante venga etichettato come psichiatrico dipende assai meno da motivazioni scientifiche e razionali, che da fattori di ordine sociale; il destino del malato di mente viene deciso in base a giudizi di valore che fanno parte integrante della ideologia dominante in una data società, e il «curriculum» di questo malato viene stabilito in una serie di verdetti che risentono di discriminazioni di classe, di convenzioni legali, di giudizi e pregiudizi che costituiscono lo stesso substrato su cui si edifica la prassi terapeutica.
Sono questi i fattori che decidono se un soggetto con un comportamento deviante debba restare o no in famiglia, essere respinto ai margini della comunità, venir giudicato come delinquente e finire in prigione, o essere giudicato malato e finire sul divano dello psicoanalista nelle anticamere di infiniti ambulatori mutualistici, in una clinica privata o in manicomio.
I complessi meccanismi psicologici per cui nella persona «sana» si formano paure, ostilità, desideri di esclusione nei confronti dei malati di mente, non possono venir valutati correttamente se non nei modi in cui tali atteggiamenti e tale aggressività prendono forma e vengono gestiti e rinforzati dalle istituzioni sociali. La aggressività per il folle da un lato si lega a una prassi sociale e a una concezione del mondo che ha una precisa radice storica (essa non è riscontrabile in tutte le culture); da un altro lato si esplica attraverso canali in cui confluiscono modalità aggressive già presenti nella società. La polizia che veglia sui sonni del cittadino onesto è la stessa che consegna sotto «ordinanza» i malati di mente: il mandato che essa ha ricevuto è sempre identico.
Il fatto che la psichiatria sia dipendente, nella sua stessa teorizzazione, dalle esigenze del potere politico può essere dimenticato dagli psichiatri, ma non viene mai dimenticato dai politici. In un editoriale anonimo, comparso sul «Corriere della sera» sotto il titolo “Troppa indulgenza”, risultano chiaramente non solo l’origine del mandato psichiatrico, ma anche la natura del mandato stesso; lo stesso tipo di autoritarismo che impone maggiore coercività nei confronti del malato di mente, teorizza anche, in modo implicito, l’ipotesi che la «pericolosità» di quest’ultimo non sia affatto il risultato di una pratica psichiatrica inefficiente e autoritaria.
“Prendiamo alcuni recenti fatti di cronaca. A Roma, è indiziato come autore di un efferato duplice omicidio per rapina un giovane, che era latitante per un precedente mancato omicidio, sempre per rapina. A Milano viene arrestato un pregiudicato pericoloso, che poi risulta in temporanea licenza da un manicomio. A Firenze viene arrestato per tentata rapina un evaso dalle prigioni di Livorno. Un latitante, un pazzo e un evaso. Dunque circolano liberamente malfattori, che dovrebbero invece stare in galera o in manicomio. Dunque vi è un difetto evidente di prevenzione rispetto a soggetti socialmente pericolosi.
I casi citati sono di natura diversa, ma a base di tutti c è un fattore comune; la tendenza cioè delle autorità verso l’indulgenza, la benignità, l’umanitarismo, che però tiene conto di colui che agisce, e non tiene conto delle vittime. I medici psichiatrici hanno compassione per i folli, i carcerieri sono generosi verso i detenuti, la polizia è stata privata di molti mezzi per amore di civiltà” (18).
All’interno degli ospedali psichiatrici il problema «politico» della psichiatria è molto più serio: esso si arricchisce di dinamiche sociologiche complesse e particolari, ma riflette sempre una situazione e dei «mandati» provenienti dalla società esterna. L’ospedale deve venir esaminato nella sua struttura e nella sua storia, situato in una società che lo gestisce e ne giustifica l’esistenza, collegato a quelle forze che, all’esterno come all’interno della sua cinta perimetrale, tendono a determinarne l’immobilità burocratico-amministrativa, la violenza e l’autoritarismo tradizionali, la brutalità spacciata come esigenza tecnica, oppure, come oggi avviene, le esigenze di rinnovamento.
Esso non esiste in astratto, così come non è astratto e generico il procedimento che ha portato il malato a esservi rinchiuso: la «manicomialità» come categoria ipostatizzata nella struttura ospedaliera non è se non un artificioso mascheramento di responsabilità identificabili e denunciabili. La follia dei manicomi, non è colpa di un ambiente: è colpa di persone. Può quindi essere illusorio separare i problemi socio-politici della assistenza da quelli «realmente psichiatrici»: all’interno di questi ultimi gli aspetti «politici» si ripresentano sotto l’aspetto delle responsabilità individuali e di gruppo che presiedono alle scelte terapeutiche. Quando poi si considerino i problemi che sorgono nella «nuova» riforma psichiatrica, diviene necessario portare all’interno della psichiatria un discorso politico ancora più ampio. La politicizzazione dell’assistenza ai malati di mente “esiste già di fatto” nella pratica, e il riconoscerne l’esistenza, anche in teoria, è il rischio che si deve correre per ritrovare una nuova ragione di essere alla psichiatria, al di là della distruzione della sua “facies” tradizionale.
Ma qui si apre un nuovo discorso, che non è possibile esaminare in questa sede.
PRESUPPOSTI A UNA PSICOTERAPIA ISTITUZIONALE
di Michele Risso.
“Ils restaient, pour la pluspart, comme pris dans la masse d’une humanité trop folle elle même pour que la folie prit, à ses yeux, un sens” (1).
Anna Maria L., anni ventinove.
Nulla di particolare sui precedenti familiari paterni e materni. I nonni della paziente morirono in tarda età per cause non meglio precisate. Due zii paterni affetti da malattie del ricambio, uno di questi morì per diabete. Un fratello della madre soffre di «esaurimento nervoso»: non è possibile avere notizie più dettagliate, fu curato con ricostituenti, non fu necessario ricovero in clinica o ospedale psichiatrico.
La paziente e i familiari negano malattie mentali negli ascendenti e collaterali. Genitori viventi e sani.
La paziente è nata da parto eutocico a termine di gravidanza fisiologica. Allattamento materno sino a otto mesi. Primo sviluppo fisico e psichico normali. Dentizione, deambulazione e favella in epoca fisiologica. Ha superato le comuni malattie dell’infanzia senza complicazioni. Tonsillectomia a sei anni. Frequentò le scuole elementari con discreto profitto. Non poté continuare gli studi perché la famiglia mancava di adeguati mezzi finanziari. Menarca a dodici anni, in seguito mestruazioni dapprima irregolari poi normali come flusso, quantità e durata.
A sedici anni la paziente inizia il lavoro in fabbrica e le sue prestazioni sono soddisfacenti.
A diciotto anni crisi di cefalea frontale sinistra con lacrimazione e fotofobia, violente e ripetute: esami radiologici negativi. Il medico curante diagnostica emicrania. I disturbi non regrediscono sotto l’azione di comuni farmaci; scompaiono spontaneamente dopo un anno. A vent’anni appendicectomia, in seguito a colite non meglio precisata. A ventidue anni matrimonio con uomo sano. Due gravidanze normali, ha oggi due figli in età di cinque e tre anni. Dopo il matrimonio saltuariamente dismenoroica e sofferente per febbricole la cui eziologia non è stata sinora chiarita: esami radiologici del torace s.p., velocità di sedimentazione e formula leucocitaria normale, esame orine nella norma, metabolismo basale normale.
Normale mangiatrice, modica bevitrice, nega lue e veneree (ha avuto un aborto provocato, senza complicazioni, un anno fa). Alvo piuttosto irregolare con alternanza di stipsi e diarrea, diuresi nella norma.
Sei mesi fa, senza alcun motivo reale, la paziente cominciò a dire di sentirsi stranamente osservata per strada. In seguito ebbe l’impressione che le vicine cominciassero a dir male di lei, che lei trascurava la casa e non si occupava dei bambini (in realtà la paziente è una diligente e accurata donna di casa).
Fu consultato un medico che diagnosticò esaurimento nervoso e prescrisse riposo, ricostituenti e sedativi. Le cure non ebbero risultato. La paziente divenne irrequieta e sempre più ansiosa: comparvero allucinazioni uditive, la malata sentiva voci che la accusavano di essere una «disgraziata delinquente».
Riferisce oggi le voci ad una vicina di casa «che le vuol male». All’ingresso in clinica ben orientata nel tempo nello spazio e sulla propria persona. Non evidenti disturbi dell’ideazione e della condotta. Notevole angoscia, umore chiaramente depressivo. Insiste sulla realtà delle voci. Esami somatici e neurologici normali.
Diagnosi: Probabile schizofrenia paranoide iniziale con componente depressiva. Terapia: E. S.
Si tratta di una cartella clinica quale normalmente si può trovare oggi in molti ospedali psichiatrici italiani. In alcuni non si trova neppure questo. Le storie cliniche, in tal caso, sono più succinte, spesso lapidarie e, comunque, sterili: brevissimi accenni dove il medico precisa, per esempio, che il paziente ha fatto il servizio militare, è stato operato di ernia, è un modico mangiatore e discreto bevitore, per poi descrivere brevemente «un arresto psicomotorio» dell’esaminando all’atto dell’entrata in ospedale. Una vera anamnesi psichiatrica, una analisi psicodinamica della vita del malato manca totalmente. Le origini di tali fatti sono risapute.
La psichiatria è nata male. Ibrido derivante dal connubio tra una anatomopatologia neurologica classificante e localizzatoria ed una medicina in piena fioritura positivista, la psichiatria è stata costretta, sin dall’inizio, da un lato negli schemi della neuropatologia e dall’altro nel letto della clinica medica. Come dice Henry Ey, le condizioni di nascita della psichiatria sono state disastrose per il malato mentale. Il substrato dei primi tentativi di classificazione nosologica e di localizzazione anatomica delle malattie mentali oggi chiamate endogene è stata la paralisi progressiva, una malattia luetica timbrata dalla vergogna, considerata con orrore; un male incurabile. La realtà anatomopatologica e clinica di tale malattia ha certo avuto una influenza non trascurabile nel determinare l'”atteggiamento” degli psichiatri di fronte alla malattia di mente.
Poiché ci occupiamo, in particolare, della situazione della psichiatria in Italia, consultiamo, a questo proposito, il “Trattato delle malattie mentali” di Tanzi e Lugaro che contribuì in modo essenziale alla formazione di due generazioni di psichiatri. Vengono qui riportati brani della terza edizione (1923) che illustrano quale fosse la posizione nosologica della demenza precoce nei confronti della paralisi progressiva, nel primo quarto di questo secolo. Quest’ultima malattia ha
“… un decorso inesorabilmente progressivo, per quanto abbastanza spesso inframezzato da soste e da remissioni, e uccide in pochi anni, dopo aver determinato una graduale dissoluzione dell’intelligenza e del carattere, accompagnata da sintomi d’irritazione e di difetto in ogni campo del sistema nervoso e da disturbi generali della nutrizione che giungono alla più profonda cachessia. Il processo irritativo e distruttivo dei centri nervosi che costituisce la ragione immediata della paralisi progressiva è ben conosciuto nel suo aspetto anatomico; esso è indubbiamente dovuto all’agente specifico della sifilide, quando riesce ad insediarsi nell’intimo della corteccia cerebrale” (p. 97).
Sulla schizofrenia:
“La demenza precoce è un processo di disorganizzazione mentale a decorso cronico, mai regolare, sempre esposto a soste, a miglioramenti che rasentano la guarigione e durano per mesi, anni e decenni, a crisi transitorie di peggioramento acuto.
Essa coglie individui predestinati ma fino allora intelligenti, per lo più giovani. La guarigione completa è possibile, ma eccezionale; ed è tanto meno probabile quanto più il male è inveterato. Di solito, gli ammalati, dopo una serie di episodi turbolenti, rimangono in uno stato di tranquilla deficienza, caratterizzato più che da vere lacune psichiche, da dissociazioni abituali. “I processi demenziali sin qui considerati, che hanno per base, come la paralisi progressiva e la demenza senile, distruzioni ed atrofie diffuse di elementi nervosi” (2), conducono sempre a qualche perdita irreparabile del patrimonio psichico…” (p. 465).
Sulla anatomia patologica della demenza precoce:
“Il cervello dei dementi precoci non sempre dà reperti positivi. “In molti casi la più diligente e raffinata ricerca non permette di rivelare che alterazioni minime, del tutto inadeguate all’imponenza dei sintomi notati in vita, e ad ogni modo di assai dubbio nesso con la malattia mentale” (2), potendosi riconnettere piuttosto a fatti agonici, alla malattia terminale che determinò la morte, all’età, a arteriosclerosi o ad una incipiente involuzione senile” (p. 526).
C’è una contraddizione evidente tra quanto gli autori dicono nella loro definizione della demenza precoce, e quello che affermano trattandone la parte anatomopatologica. La certezza di un substrato organico, affermata nella parte introduttiva, viene, in seguito, chiaramente messa in dubbio.
Lo schema della medicina: eziologia – patogenesi anatomia patologica – sintomatologia – diagnosi – terapia, applicato alla disciplina psichiatrica, rivelò sin dall’inizio interi settori pieni di interrogativi insoluti. Pur rimanendo l’eziologia, la patogenesi e l’anatomia patologica oscure, la nosografia psichiatrica fu costruita sulla falsa riga della nosografia neurologica. La sintomatologia – psichica – portò ad una serie di classificazioni diagnostiche, prive, tutte, ovviamente, di un substrato organico accertato. “La malattia mentale fu vista, comunque, come uno stato di cui non si conosceva ancora l’origine, mentre veniva dato per scontato che questa origine non poteva essere che organica”.
Non sarà il caso, qui, di rifare la storia della psichiatria, né, in particolare, della psichiatria italiana. I malati di mente sono stati, sino a pochi anni fa, come in attesa di giudizio; gli psichiatri hanno continuato – senza frutto – a domandarsi «che cosa» fosse la malattia mentale, trascurando l’esistenza ed il problema del malato di mente.
Per buoni cento anni, in attesa di identificazione, i malati di mente sono rimasti «a letto», rinchiusi, isolati; intorno a loro si è organizzata, per successive incrostazioni, la macchina dell’ospedale psichiatrico, tendente, essenzialmente, a difendere la società dal “mistero” della malattia mentale. Poiché una presenza misteriosa è malamente sopportabile, è fatale che questa, col tempo, si realizzi come “pericolo”. Non sapendo «che cosa» avessero questi disgraziati si è «saputo», in ogni caso, che erano pericolosi. Pericolosi, ma malati: degni, quindi, di attenzione “medica”. Così, le malattie mentali, sono rimaste imprigionate nell’ambito della casualità medica ed i malati sono stati «curati» in ospedali costruiti, ovviamente, sul modello delle cliniche mediche; con i necessari accorgimenti per proteggere la società da questi esseri «pericolosi a sé ed agli altri».
Il contenuto della cartella clinica riportata sopra non deve stupire: essa appare come patente documento del grave malinteso che sta alla base della psichiatria. E’ chiaro, l’esame del malato avviene secondo lo schema fisso della medicina tradizionale: il medico riempie la cartella di dati che, da un punto di vista psichiatrico, sono del tutto accessori; la vita del paziente viene configurata non come storia, ma come sequenza di “avvenimenti isolati”, di carattere morboso, intercalati da periodi di benessere. Allo stesso modo come la paziente ha avuto il morbillo, o è stata tonsillectomizzata a sei anni, così essa, ad un certo punto, comincia a dire di sentirsi stranamente osservata per strada. Prima, non è «successo» nulla, così come la appendice cecale della paziente, prima di essere infiammata, era certamente sana. Questa “distorsione destorificante” della realtà della paziente, questa “Einstellung” del medico che non cambia, sia che si tratti di angoscia che di colecistite, la possiamo trovare in diecine di migliaia di esemplari nei nostri ospedali psichiatrici; ed abbiamo ragione di ritenere che molte delle cartelle cliniche psichiatriche, ancora oggi, in Italia, vengono compilate sulla base di questo schema destorificante.
“The history of somatic treatment procedures in psychiatry has not been a logical development” (3).
Come immediata conseguenza del fatto che la nosografia psichiatrica prende forma sistematica sulla falsa riga di quella medica, vediamo che la terapia psichiatrica subisce l’impronta, lo stile della terapia medica. Anche se lo schema eziologia – patogenesi – eccetera, fondamentale per la medicina, si è rivelato inefficiente per la psichiatria delle psicosi endogene, la terapia psichiatrica torna ad essere una terapia «causale». La storia delle terapie tradizionali psichiatriche parla chiaro. Tali mezzi hanno un orario, una tecnica, un ambiente per la applicazione, dopodiché il malato, «curato», viene lasciato a se stesso, in attesa che la terapia faccia effetto.
“The first successful step in somatic therapy of «mental illness» was based on observations of clinical improvement in «psychotic» (4) patiens during intercurrent infections.
In 1917 Wagner-Jauregg introduced malaria treatment in general paresis, the first successfuly treatment of a mental illness on a purely organic basis” (5).
Gli autori diranno più avanti, che col tempo ci si rese conto che la febbre aveva fatto effetto sulla infezione luetica e “non” sui sintomi psicotici; tuttavia essi parlano, sì, di paralisi progressiva, ma parlano, in genere, di malattie mentali, di pazienti psicotici. “Il fatto che la paralisi progressiva abbia un substrato anatomopatologico accertato e che la si possa curare con mezzi medici lascia sperare che, prima o dopo, questo sia possibile anche per le malattie mentali endogene”.
Questo è un grave malinteso, responsabile in parte del ritardo dello sviluppo della psichiatria e della impasse in cui si trova oggi la maggior parte degli ospedali psichiatrici. Tra il 1933 ed il 1937 fioriscono i trattamenti somatici in psichiatria: compaiono la terapia insulinica di Sakel, la terapia convulsivante di von Meduna, l’E. S. di Bini e Cerletti, la leucotomia di Moniz. Si sviluppa così una serie infinita di ricerche, indagini, lavori statistici che giungono a conclusioni spesso forzate dal desiderio di avere conferma della validità dei mezzi impiegati (vedasi a questo proposito M. Müller 1949 e 1952). Per la verità, in parte, con successo: è indubbio, per esempio, che l’E. S., come ha provato Hoffet (1962) in tutti i quadri clinici di gravi depressioni endogene o endoreattive, dà migliori risultati di tutte le altre terapie. Ma non di questo si tratta: “la speranza riposta nelle terapie somatiche ha distratto l’attenzione degli psichiatri dal problema delle istituzioni psichiatriche”, che – salvo alcune modificazioni trascurabili e tendenti più a sedare i sensi di colpa dei medici che non a modificare sostanzialmente l’ambiente – sono rimaste tali e quali: luoghi di segregazione e di isolamento, nei migliori dei casi modernizzati e perfezionistici, ma nella sostanza immutati.
Come le vecchie cartelle cliniche medico-psichiatriche vengono riempite sulla base di uno schema destorificante, così le terapie somatiche di shock e la leucotomia frontale mostrano la stessa impronta: esse hanno il carattere di una imposizione violenta, provocano una tagliante alterazione dello stato di coscienza, rappresentano una frattura nel vissuto dei pazienti, localizzano nel tempo la malattia senza rispettare la continuità dell’esistenza dei malati. La somatoterapia dimostra poi il colmo del paradosso e della cecità con la leucotomia frontale, ultimo segno della destorificazione e della denaturazione della malattia mentale a malattia cerebrale.
Nel 1952 ha inizio la rivoluzione psichiatrica determinata dalle sostanze neurolettiche. La comparsa di questi farmaci ha posto gli psichiatri di fronte a pazienti non più minacciosi, ma tranquilli e facilmente controllabili; d’altra parte ha permesso, in molti, la nascita di un ambiguo ideale psichiatrico fatto di comoda attesa in una atmosfera priva di sintomi. L’ospedale psichiatrico rischia, in tal caso, di divenire un ambiente sterile, ordinato, pulito e funzionale, in cui la malattia di mente non viene vista come fenomeno individuale nell’ambito di un contesto familiare e sociale, ma, ancora una volta, come «disturbo», per il paziente, i familiari e la società. Disturbo che, con l’aiuto di opportune sostanze, può essere «cancellato», almeno temporaneamente. Destorifìcato, insomma, ancora una volta; certo, con mezzi meno violenti, con una coercizione più larvata, con l’aiuto di una guida paternalistica da parte del medico, fonte di consigli e direttive rivolte ad un essere in stato di inferiorità. Per fortuna, in molti casi, la comparsa dei neurolettici ha messo gli psichiatri di fronte a malati non più «pericolosi» che richiedevano, con la loro presenza e la loro disponibilità, con la riacquistata capacità di contatto, che si facesse qualcosa per loro, che ci si occupasse della loro anziché soltanto della loro malattia.
“Die einzige zur Zeit ernst zu nehmende Therapie der Schizophrenie im ganzen ist die psychische. Leider sind wir aber auch da noch nicht weit über eine blosse Empirie hinaus. Da die Symptomatologie der Krankheit von den Komplexen beherrscht wird, und da man von diesen aus oft in die Psyche der Kranken eindringen kann, sollte man erwarten, dass man sie von da aus beinflussen könnte. Besserungen auf psychische Einflüsse finden auch unzweifelhaft statt, aber wir können im einzelnen Fall nicht sagen, was zu tun ist, um die Besserung herbeizuführen, wir sind also auf Tasten angewiesen, ja ich möchte sagen darauf, dem Zufall recht viele Moglichkeiten zu bieten, damit er eine derselben benutzen könne. Tut man das und im richtigen Moment, so kann man aber recht viel erreichen”.
[«Per il momento, l’unica terapia della schizofrenia che noi possiamo prendere sul serio è quella psichica. Purtroppo, anche qui non andiamo al di là dei dati puramente empirici. Poiché la sintomatologia della malattia è dominata dai complessi e poiché, partendo da questi, spesso si può penetrare nella psiche del malato, ci si dovrebbe aspettare di poterla influenzare servendoci di questo particolare approccio. Senza dubbio si verificano miglioramenti in seguito ad influssi psichici: purtroppo noi non possiamo dire, nel caso specifico, che cosa si debba fare per provocare un miglioramento; noi procediamo, insomma, a tentoni, e porgiamo al caso il massimo delle possibilità sperando che esso scelga e utilizzi una di queste. Facendo questo, ed al momento giusto, si può ottenere veramente molto»] (6).
Nella fondamentale monografia di Bleuler (1911) le teorie di Freud trovano accoglienza e risonanza. Bleuler dice testualmente nella sua introduzione:
“… l’idea complessiva della demenza precoce deriva da Kraepelin; a lui dobbiamo quasi esclusivamente anche il raggruppamento e la distinzione dei singoli sintomi […] Una parte importante del tentativo di sviluppare le nostre conoscenze in questo campo della patologia non è altro che la applicazione delle idee di Freud alla demenza precoce. Io penso che ogni lettore avrà chiara conoscenza di quanto noi dobbiamo a questo autore…” (7).
Nel Burghözli Abraham e Jung si interessano attivamente dei meccanismi psicogenetici delle psicosi endogene. Nei paesi della Mitteleuropa, a lato delle ricerche di indirizzo organicistico, si sviluppano le ricerche sulla psicogenesi e psicoterapia delle malattie mentali. [Vedansi a questo proposito, tra gli altri, i lavori riassuntivi di Ellenberger 1955, Benedetti 1956, C. Müller 1959 e la monografia di Wyss 1961]. Siamo all’inizio di questo secolo. In Italia, in questo periodo, ed in seguito, non succede nulla; la cultura neuropsichiatrica italiana rimane impermeabile alle teorie psicodinamiche. E’ interessante, a questo proposito, leggere alcuni brani del “Trattato delle malattie mentali” di Tanzi e Lugaro, che nella terza edizione del 1923 (ben dodici anni dopo l’opera di E. Bleuler) si esprime così:
“Una teoria elaborata da S. Freud, che da principio non tendeva se non a precisare e a generalizzare l’origine dei sintomi isterici fu spinta alla spiegazione dell’omosessualità ed estesa da ultimo a formare il fondamento patogenetico di tutte le psicosi funzionali Anzi, “non manca nemmeno chi tenta applicarla persino alla genesi di psicosi nelle quali è dimostrabile una lesione anatomica della corteccia cerebrale” (8). S. Freud è ormai circondato da una schiera di seguaci fanatici, che dànno alle idee, già molto farraginose, del maestro uno sviluppo fantastico ed una pubblicità clamorosa” (p. 85).
“… la parte dottrinale della teoria che Freud propugna e che mira a spiegare l’origine di molti fenomeni psicopatici per mezzo del subcosciente e dell’incosciente […] non è che un edifizio di ingegnose metafore che esprimono fenomeni e stati subiettivi in una maniera pittoresca, ma che non indicano nulla di preciso, e non riescono, malgrado il loro carattere descrittivo, a renderci alcun conto del processo “organico” (8. che ad essi corrisponde” (p. 90).
Sulla interpretazione dei sogni:
“… anche su questa indagine incombe la plumbea preoccupazione dei pervertimenti sessuali: i sogni, secondo Freud, non rappresenterebbero che la realizzazione di un desiderio represso, sempre di indole sessuale, e quasi sempre di natura perversa […] Non ci saremmo indugiati su questo argomento, se queste elucubrazioni dottrinarie non suscitassero un interesse che per molti versi sa di patologico. Ma l’infatuazione dei neofiti passerà, e già nella chiesa psicanalitica s’avverano scismi precursori dello sfacelo” (p. 516).
Non stupisce che, dopo queste premesse, a distanza di parecchi anni, il voluminoso trattato di “Psichiatria clinica e forense” di C. Ferrio (1959, complessive 2216 pagine) dedichi a Freud quattro brevissime citazioni che, messe insieme, coprono a fatica mezza pagina. L’autore rimanda a trattati specialistici, dicendo indirettamente che psichiatria e psicanalisi hanno poco da spartire.
In campo di psicoterapia delle psicosi, sinora, in Italia, non è successo davvero nulla. Il citato lavoro di C. Müller (1959), contenente 507 voci bibliografiche dalla letteratura internazionale, contiene un unico richiamo ad un lavoro pubblicato in italiano, sulla psicanalisi della epilessia. Sarà qui opportuno vedere brevemente quello che è successo all’estero.
Negli altri paesi la psicoterapia è entrata in ospedale psichiatrico per merito della psicoanalisi. Essa ha tentato sin dall’inizio, contrariamente alle terapie somatiche e farmacologiche, di mettere in risalto la storia, e non soltanto la storia clinica, del malato; ha tentato di rendere chiare le dinamiche psicologiche che hanno preceduto il manifestarsi di sintomi psicopatologici conclamati. Soprattutto essa ha voluto salvare la “continuità” dell’esistenza del malato, prima fratturata dagli interventi di shock.
Purtroppo si deve dire che la psicoterapia, pure avendo un profondo e rivoluzionario significato per quanto riguarda il futuro della psichiatria, non è riuscita nel suo intento clinico. “Questa nuova corrente, nell’ambito delle cliniche psichiatriche, si è inserita ed allineata accanto alle altre terapie, affrontando queste ultime ad un livello tecnico, avente come base il criterio – molto dibattuto – del miglioramento, anziché prendere una posizione di contestazione, tendente a mettere in crisi il significato della istituzione e delle terapie in essa praticate ed a subordinare queste ultime ad una visione essenzialmente
psicoterapica dell’istituzione psichiatrica”. Il compito della psicoterapia sarebbe quello di rivoluzionare la struttura dell’ospedale psichiatrico, di porre in discussione ed in crisi un gran numero di presupposti e pregiudizi nosografici che hanno da un lato la comoda e passiva approvazione di buona parte degli psichiatri e confermano dall’altro la validità della istituzione psichiatrica quale essa è stata sinora. Invece la psicoterapia ha accettato il compromesso ed il malinteso psichiatrico. Essa è stata «somministrata» in un ambiente che con i suoi sistemi di controllo e di sicurezza, aventi le loro radici nel terrore della malattia mentale, impedisce una vera comunicazione tra paziente e medico ed elimina le possibilità di stabilire un vero e proprio contatto terapeutico. Un altro malinteso ha avuto come base il tentativo, da parte degli psicanalisti, di dimostrare che le schizofrenie croniche possono essere curate con gli strumenti terapeutici della psicanalisi. Tale tendenza ha portato gli psicanalisti a dibattere il problema eziologico della malattia mentale: in tal modo una ricerca eziologico-psicogenetica si è allineata e contrapposta ad altre ricerche nel campo della somatogenesi di queste malattie. Così è continuata la sterile polemica tra psicogenetisti e somatogenetisti nei confronti della malattia mentale. Intanto, gli ospedali psichiatrici continuano ad essere quello che sono: luoghi di custodia e di eventuale ricupero dei malati mentali. La psicoterapia ha avuto il torto di fare di alcuni casi psichiatrici «bei casi» casi «interessanti» anziché mettere in crisi l’intera istituzione, pretendendo una nuova struttura degli ospedali psichiatrici, nella quale sia possibile una psicoterapia. D’altra parte è ovvio che le cose siano andate così. La maggior parte degli psicoterapeuti delle schizofrenie è costituita da psicanalisti: essi, per formazione e per indirizzo specialistico sono portati a dare il massimo risalto alla dinamica individuale del paziente, trascurando talvolta più vasti problemi di carattere sociale. Nella maggior parte dei casi essi hanno una funzione subordinata nell’istituzione psichiatrica, il che li rende dipendenti e dà loro scarsa possibilità di decisione e di scelta. Inoltre, come abbiamo visto, per affermare la validità del loro metodo terapeutico nel campo delle schizofrenie, essi hanno rivolto la loro attenzione ai casi «cronici», ritenuti irrecuperabili; questo perché i casi acuti hanno, in genere, una evoluzione «benigna». Così, la psicoterapia delle schizofrenie, anziché rivolgere la sua preminente attenzione alle prime manifestazioni di questo male (9), ha tentato di guarire alcuni casi che erano stati abbandonati al loro destino dalla psichiatria tradizionale, dopo svariati tentativi di cure somatiche. Una buona parte delle imprese terapeutiche nel campo delle schizofrenie croniche ha dato risultati incerti, ciò ha permesso agli psichiatri tradizionali di dubitare della validità della psicoterapia delle psicosi e di confermare la necessità inevitabile dell’attuale istituzione psichiatrica.
In altre parole, la psicoterapia, entrata nell’ospedale psichiatrico con il significato di una rivoluzione “totale” di questa istituzione anacronistica, ne è uscita per tornare nello studio degli psicanalisti o entrare nelle cliniche private. Ma non poteva andare diversamente. Psicoterapeuti che hanno tentato una esperienza attiva in ospedale psichiatrico hanno espresso giudizi pessimistici sulla possibilità di un approccio psicoterapico nell’interno della istituzione psichiatrica; Rosen considera, per esempio, l’ospedale psichiatrico come un ambiente dannoso allo schizofrenico; Sullivan vede questa istituzione «diabolicamente organizzata per rendere il malato incurabile»; Meerwein indica quanto sia difficile per uno psicoterapeuta fare veramente qualcosa in ospedale psichiatrico (citati da Ellenberger 1955 e C. Müller 1959). Per non citare che alcuni nomi: tutti coloro che hanno avuto una personale esperienza di psicoterapia delle psicosi sanno che è praticamente impossibile curare un malato nell’interno di una istituzione che nega, con il suo «funzionamento», il significato ed il vero problema della malattia mentale. E questo succede in paesi ben più evoluti del nostro.
“Parlare del ruolo della psicoterapia in riferimento all’organizzazione ospedaliera psichiatrica in Italia, presuppone la conoscenza dello stato reale della stessa psichiatria in Italia: conoscendo su quale piano si muova, su quale realtà sociale e culturale poggi, a quale grado di istituzionalizzazione sia giunta, parlare di psicoterapia come routine di lavoro suona quasi un’irrisione verso i ricoverati della maggior parte dei nostri istituti psichiatrici” (10).
Ci troviamo, in Italia, di fronte ad un tutto da fare meglio, ad un tutto da disfare, ad un tutto da rifare. Non dobbiamo, tenendo conto della altrui esperienza, compiere l’errore di inserire la psicoterapia individuale tra le terapie somatiche nell’ambito chiuso, coartato ed anacronistico della istituzione psichiatrica. Uno psicoterapeuta che si adatti, all’interno di una simile istituzione, a somministrare colloqui ad un singolo malato, compirà una fatica di sisifo, tentando di trasportare l’atmosfera dello studio psicanalistico in una prigione condotta paternalisticamente con criteri che vogliono soltanto rendere il malato tranquillo ed inoffensivo.
Purtroppo, in Italia, noi cominciamo spesso dalla fine: riceviamo elasticamente e senza troppo meditare i prodotti importati da culture psichiatriche che hanno ben altre radici e dimensioni storiche e sociali delle nostre e li immettiamo, con deprecabile intenzione di «aggiornamento» nelle nostre decrepite tradizionali strutture. Accettiamo tutto, siamo aperti a tutto: così, in un ospedale o in una clinica dove i pazienti vengono tenuti a letto, dove continua ad essere praticato il giro dell’aiuto con i suoi assistenti, dove l’esame psichiatrico del malato viene fatto praticamente in pubblico, dove l’elettroshock viene somministrato in presenza di altri malati, ad un certo punto si presenta qualche psicoterapeuta sprovveduto che, ritirandosi in una camera casualmente disponibile pretende di creare un approccio psicoterapico. Il direttore dell’ospedale potrà così affermare che nel suo istituto si pratica “anche” la psicoterapia: e questo è prodotto da inequivocabile malafede. “La psicoterapia può essere realizzata esclusivamente in un ambiente che sia, di per sé, psicoterapico”: i pazienti non dovrebbero neppure accorgersi che «si fa» della psicoterapia.
In Italia, ed altrove, la psichiatria deve percorrere inevitabili sviluppi. Nell’ambito di tali sviluppi la psicoterapia, intesa come cura caratterizzata da un rapporto personale, intenso e regolare tra il medico e il malato e dall’analisi dei fattori personali, familiari e sociali che possono aver determinato o favorito dei disturbi psichici, costituisce l’ultima di una serie di innovazioni attraverso le quali deve passare l’istituzione psichiatrica. Sino ad oggi, nonostante l’infinita serie di accuratissime ricerche condotte soprattutto dagli autori di lingua tedesca, non abbiamo criteri prognostici sufficientemente validi nel campo delle schizofrenie; noi non sappiamo, in realtà, quale sia il decorso spontaneo delle malattie mentali endogene per il semplice fatto che i pazienti sinora esaminati sono stati mantenuti in un’istituzione in cui la spontaneità di un decorso è stata sfavorevolmente influenzata dall’isolamento, dalla impossibilità di un rapporto umano, da incredibili ed inutili sistemi di controllo. I nostri strumenti di giudizio nei confronti dei decorsi della malattia sono stati sinora fortemente limitati da una realtà istituzionale che anziché tentare di guarire la malattia non ha fatto altro che alimentarla considerandola oggetto di ricerca al difuori di ogni contesto umano. Soltanto in un ospedale psichiatrico veramente libero e nuovo, soltanto in una atmosfera di comunicazione ai diversi livelli – tra pazienti, personale e medici – noi avremo possibilità di stabilire forse nuovi criteri prognostici, di distinguere tra decorsi e forme più o meno gravi, d intravedere la possibilità di una nuova nosografia psichiatrica. Questo è il primo fondamentale passo che deve fare la psichiatria.
La psichiatria è giunta ad una svolta in cui non sono più possibili piccole riforme o trattamenti aggiunti. Allo stesso modo, la psicoterapia non può essere considerata qualcosa che viene dato «in più» al malato di mente, non può entrare a far parte delle incrostazioni successive che si sono depositate a formare l’istituzione psichiatrica; essa deve, soprattutto, mettere in crisi questa istituzione ed imporre la necessità di ospedali psichiatrici completamente nuovi.
Questo significa: una concezione del tutto nuova della architettura psichiatrica; un personale di assistenza opportunamente istruito, cosciente, responsabile e partecipante a tutti i livelli della vita dell’ospedale; una équipe di psicologi, sociologi e assistenti sociali specificatamente preparati, una équipe medico-psichiatrica dotata di buone conoscenze in campo psicanalitico e psicodinamico, conoscenze altrettanto utili per una direzione psicoterapica dell’istituto, quanto per il superamento dei problemi interpersonali all’interno dei gruppi.
Il problema della psichiatria italiana è, in effetti, ancora più grave di quanto possa apparire ad una prima analisi. Saranno necessari addirittura decenni per rivoluzionare alla base le istituzioni psichiatriche: sarà necessario preparare tempestivamente centinaia di medici provvisti di una preparazione specifica, in grado di curare i malati e formare il personale di assistenza; sarà necessario che psicanalisi, psicoterapia e psichiatria clinica stabiliscano una aperta collaborazione che in altri paesi è stata iniziata da tempo e che da noi, a causa di vecchi problemi di priorità e della chiusura cieca ed assoluta di alcuni centri di potere, non esiste ancora.
Le persone responsabili dell’attuale stato dell’istituzione psichiatrica italiana devono provvedere con una urgente ed adeguata legislazione e pianificazione: se questo non avviene, rischieremo di ridurci sempre di più nello stato di una colonia che importa con inevitabile ritardo idee e innovazioni che in altri paesi si sono affermate da tempo per inserirle frettolosamente in strutture istituzionali indegne di un paese civile.
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COMMENTO A E. GOFFMAN,
“LA CARRIERA MORALE DEL MALATO MENTALE”
di Franca Ongaro Basaglia (1).
“… parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo”.
PRIMO LEVI
Il termine «carriera» è riservato abitualmente ad un tipo di privilegi goduti da chi progredisce, secondo tappe graduali, in una professione di successo. Si usa tuttavia lo stesso termine, in senso più ampio, per riferirsi ad una sorta di filo conduttore – di carattere sociale – seguito nel ciclo dell’intera vita di una persona. Si adottano qui i metodi delle scienze naturali, tralasciando cioè i singoli risultati particolari, per mettere l’accento sui mutamenti fondamentali che si rivelano comuni, nel tempo, ai membri di una categoria sociale, pur verificandosi in modo indipendente. E’ dunque evidente che una carriera, intesa in tal senso, non può essere ritenuta né brillante né deludente, né un successo né un fallimento e appunto, sotto questa luce, intendo avvicinare il malato mentale.
Uno dei vantaggi del concetto di carriera è che presenta, contemporaneamente, due facce. L’una si ricollega a meccanismi interni, gelosamente custoditi, come l’immagine di “sé” ed il sentimento di identità; l’altra riguarda invece la posizione ufficiale, la figura giuridica, lo stile di vita e fa parte di un complesso istituzionale che proviene dall’esterno. Un tale concetto permette di passare dal personale al pubblico e viceversa, senza dover ricorrere, per la raccolta dei dati, all’immagine di “sé” che ogni persona si costruisce.
Questo articolo è un saggio sullo studio del “sé” nell’ambito di un istituto e concerne, soprattutto, gli aspetti “morali” della carriera che in esso si svolge – vale a dire l’insieme di mutamenti regolari nel “sé” e nell’immagine di “sé” di una persona, così come nel giudizio di “sé” e degli altri che tale carriera comporta.
La categoria dei «malati mentali» è qui intesa in senso strettamente sociologico [1] [* I numeri fra parentesi quadra rinviano al commento di Franca Basaglia Ongaro, alla fine del saggio]. In questa prospettiva la valutazione psichiatrica di una persona assume significato solo nel momento in cui essa ne alteri il destino sociale – alterazione che diventa fondamentale nella nostra società quando, e soltanto quando, la persona viene immessa nel processo di ospedalizzazione. Escludo quindi altre categorie affini: i possibili candidati che sarebbero giudicati «malati» secondo criteri psichiatrici, ma che non arrivano mai al punto di essere ritenuti tali da sé o dagli altri, sebbene possano causare notevoli difficoltà; il paziente che lo psichiatra ritiene di poter trattare ambulatoriamente con farmaci o shock; o quello in trattamento psicoterapico. Includo invece chiunque venga preso, in un modo o nell’altro, nel pesante ingranaggio del servizio ospedaliero psichiatrico, indipendentemente dalla sua struttura personale. In questo senso gli effetti derivanti dall’essere trattato come malato mentale, possono essere tenuti distinti da quelli cui va incontro una persona con caratteristiche che un clinico riterrebbe psicopatologiche. I malati che si ricoverano negli ospedali psichiatrici variano fra di loro nel tipo di malattia, nel grado di gravità diagnosticato dallo psichiatra e nelle caratteristiche con cui li descriverebbe un profano. Pure, una volta immessi in questa dimensione, si trovano ad affrontare circostanze del tutto analoghe, cui reagiscono in maniera del tutto analoga. Siccome però queste analogie non derivano dalla malattia mentale, si potrebbe dire si verifichino suo malgrado. E’ quindi un riconoscimento del Potere delle forze sociali il fatto che la condizione uniforme di «malato mentale» sia in grado di determinare in un insieme di persone, un destino e quindi un carattere comune, tenendo anche presente che questo tipo di pressione sociale si verifica sul materiale umano più ostinatamente diverso che si possa raggruppare. Manca qui il frequente costituirsi di una vita protettiva di gruppo fra ex ricoverati, per poter illustrare il ciclo classico di reazioni, attraverso le quali, persone «disadattate» si trovano a costituire, psicodinamicamente, dei sottogruppi nella società.
Questa prospettiva sociologica generale è notevolmente rafforzata da una scoperta cruciale, messa in luce da studiosi di sociologia, nel corso di ricerche in ospedali psichiatrici. Come è stato più volte dimostrato nello studio di società preletterate, il disgusto, il disagio e l’impressione di barbarie provocati da una cultura estranea alla propria, possono diminuire nella misura in cui lo studioso si familiarizza con la concezione di vita di chi sta esaminando. In modo analogo colui che fa ricerche in un ospedale psichiatrico può scoprire che la follia o il «comportamento malato» attribuito al paziente è, in gran parte, prodotta dalla distanza sociale fra chi giudica e la situazione in cui il paziente si trova e non, principalmente, dalla malattia mentale [2]. Indipendentemente dalla precisione della diagnosi dei vari pazienti, e indipendentemente dai particolari aspetti per cui la vita sociale all’interno dell’ospedale risulta unica, il ricercatore può rendersi conto di partecipare ad una comunità che non differisce in modo significativo da qualsiasi altra abbia studiato. Naturalmente, se vive ristretto nei limiti di un reparto semiaperto, può avere l’impressione – come del resto accade ad alcuni pazienti – che la vita nei reparti chiusi sia invece strana; se si trova in un reparto chiuso di osservazione o convalescenza, può avere l’impressione che i reparti per cronici siano luoghi socialmente assurdi. Basta però che partecipi direttamente alla vita dei reparti «peggiori» dell’ospedale, per mettere anche questi socialmente a fuoco come un mondo vivo e pieno di sempre nuovi significati. Il che non esclude tuttavia che possa trovare, in ogni reparto o gruppo di pazienti, una minoranza che continua ad apparirgli come incapace di seguire le regole di un’organizzazione sociale; oppure che l’adattamento alle regole della comunità sia reso, in parte, possibile da misure strategiche che si sono istituzionalizzate negli ospedali psichiatrici.
La carriera del malato mentale comprende, come si sa, tre fasi principali: il periodo che precede l’ospedalizzazione che chiamerò la fase del “predegente”; il periodo del ricovero, cioè la fase del “degente”; e il periodo successivo alla dimissione dall’ospedale, se questa avviene, cioè la fase dell'”ex degente”. Questo articolo si limiterà all’analisi delle due prime fasi.
– La fase del predegente.
Un numero relativamente piccolo di predegenti entra in ospedale psichiatrico spontaneamente, perché lo ritiene utile o perché concorda appieno con le decisioni dei familiari. E’ probabile che queste reclute si siano trovate ad agire in modo da dimostrare a se stesse che stavano perdendo il senno o il controllo di sé. Nella nostra società, questo modo di vedersi, di giudicarsi, sembra una delle più gravi minacce che possa colpire il “sé”, specialmente perché è facile sopravvenga quando la persona è già abbastanza turbata per rivelare il tipo di sintomi che essa stessa è in grado di giudicare. Sullivan così lo descrive:
“Ciò che scopriamo nel sistema del sé di una persona che cade vittima di un’evoluzione schizofrenica o di un processo schizofrenico è, dunque, nella sua forma più semplice, una perplessità fortemente caratterizzata da un sentimento di timore, che consiste nell’uso di processi di pensiero piuttosto generalizzati e per nulla perfezionati; processi cui si ricorre nel tentativo di far fronte all’incapacità di essere uomo – all’incapacità, cioè, di essere qualcosa che possa venire rispettata come degna di esistere”.
Alla necessità di ricostruire la propria disintegrazione si associa – in chi ne soffre – la necessità, quasi altrettanto opprimente, di nascondere agli altri quelli che ritiene dei mutamenti fondamentali avvenuti in lui, e di tentare di scoprire se anche gli altri se ne sono accorti. Ciò che intendo dire è che la percezione di perdere il senno è legata a stereotipi culturali e sociali che riconoscono grande importanza a sintomi quali l’udire voci, perdere l’orientamento spaziotemporale, avere la sensazione d’essere inseguiti; sintomi che, in realtà, sono spesso psichiatricamente ritenuti un semplice e temporaneo sconvolgimento emotivo in una situazione stressante, per quanto terrificante possa risultare una tale esperienza per chi la vive [3]. Analogamente, l’ansia scatenata da questa percezione di “sé” e le strategie adottate per ridurla, non sono di per sé anormali, ma corrispondono esattamente a quelle che manifesterebbe chiunque appartenesse alla nostra cultura ed avvertisse di essere sul punto di perdere il senno. E’ interessante notare come le varie subculture nella società americana differiscano palesemente nella quantità di stereotipi e nel tipo di incitamento che offrono per una tale visione di sé, così che si riscontrano livelli diversi di “autodenunce”. Comunque, questa capacità di giudicare il grado della propria disintegrazione, senza alcun intervento da parte di psichiatri, sembra uno dei privilegi culturali – alquanto discutibile – delle classi superiori.
Per colui il quale sia giunto a considerarsi – in modo più o meno giustificato – come mentalmente squilibrato, l’entrata in ospedale psichiatrico può talvolta portare sollievo, forse, in parte, a causa della rapida trasformazione del suo status sociale: invece di essere, ai propri occhi, una persona discutibile che tenta di conservare il ruolo di persona integra, diventa una persona ufficialmente discussa ma che, ai propri occhi, non lo è poi tanto. In altri casi invece l’ospedalizzazione può peggiorare lo stato del malato che si ricovera spontaneamente, nel suo riconoscere confermato, in una situazione obiettiva, ciò che era stato prima solo un’esperienza personale.
Una volta entrato in ospedale, il malato che si ricovera spontaneamente viene immesso nella stessa routine di esperienze di chi viene ricoverato a forza. E’ comunque a quest’ultimo tipo che voglio riferirmi, dato che attualmente in America esso costituisce il gruppo di gran lunga più numeroso. L’ingresso dei pazienti nell’ospedale può avvenire secondo tre forme classiche: perché supplicati dai familiari o sotto la minaccia di perdere i legami con la famiglia qualora rifiutino di entrare «spontaneamente»; con la forza, accompagnati dalla polizia; a loro insaputa, indotti con sotterfugi da altri, caso quest’ultimo limitato soprattutto ai giovani.
La carriera del predegente può essere ritenuta un modello di esclusione [4]: egli si presenta come un uomo dotato di diritti e di legami con il mondo, di cui già all’inizio del suo soggiorno in ospedale, non rivela quasi più traccia. Gli aspetti morali di tale carriera incominciano quindi, di solito, con un’esperienza di abbandono, di slealtà e di amarezza, sia che siano gli altri a ritenere necessario il ricovero, sia che il malato stesso, una volta entrato in ospedale, concordi con una tale soluzione.
La storia della maggior parte dei pazienti mentali presenta casi di trasgressione alle norme del vivere sociale – nel proprio ambiente familiare, nel posto di lavoro, in una organizzazione semipubblica come una chiesa o un grande magazzino, in zone pubbliche come strade o parchi. Spesso la cosa viene riferita da un “accusatore” che risulta così colui che ha dato l’avvio al ciclo che porterà l’accusato alla ospedalizzazione. Costui può anche non essere quello che fa il primo passo, ma quello che ha portato alla prima azione determinante. E’ qui che comincia “socialmente” la carriera del paziente, e ciò prescindendo dal momento in cui può collocarsi l’inizio psicologico della sua malattia mentale.
I tipi di trasgressione che portano all’ospedalizzazione sono socialmente vissuti in modo diverso da quelli che portano ad altri esempi di esclusione – detenzione, divorzio, perdita del lavoro, ripudio, esilio, trattamento psichiatrico non istituzionale eccetera. Ben poco si sa però sui fattori che determinerebbero tali differenze e quando si studiano i fatti relativi ad un internamento, risulta spesso evidente che sarebbe stato possibile trovare anche altre soluzioni. Appare vero, inoltre, che per ogni tipo di trasgressione che porti ad una denuncia, ve ne sono molte altre – simili dal punto di vista psichiatrico – che tuttavia non portano alle medesime conseguenze. Nessuna azione viene intrapresa; oppure viene intrapresa un’azione che porta ad altro tipo di esclusione; oppure l’azione intrapresa non ha effetti determinanti dato che serve a tranquillizzare l’accusatore o a farlo desistere dalla denuncia. Così, come Clausen e Yarrow hanno dimostrato, anche trasgressori delle norme che, alla fine, vengono ospedalizzati, spesso sono già stati oggetto di una serie di azioni intraprese contro di loro, senza risultato.
Separando le trasgressioni che avrebbero potuto essere prese come giustificazione al ricovero, da quelle che sono effettivamente usate a questo scopo, si trova un gran numero di ciò che gli studiosi dell’occupazione e del lavoro chiamano «contingenze di carriera». Alcune di queste contingenze nella carriera del malato mentale sono già state indicate, se non proprio indagate: la condizione economica, la clamorosità della trasgressione, la vicinanza di un ospedale psichiatrico, la possibilità di trattamento, l’opinione della comunità sul tipo di trattamento attuato negli ospedali disponibili e così via. Per ulteriori informazioni su altre serie di contingenze ci si può riferire a fatti di cronaca: uno psicotico è tollerato dalla moglie fino a quando non si sia trovata un amico, o dai figli adulti finché non si siano trasferiti in un altro appartamento; un alcolista viene inviato in ospedale psichiatrico perché non c’è posto in prigione; un tossicomane perché rifiuta un trattamento psichiatrico ambulatoriale; una adolescente ribelle perché non viene più tollerata in famiglia in seguito ad una relazione con un uomo non adatto, eccetera. In corrispondenza ad esse, esiste tuttavia una serie di contingenze opposte, altrettanto importanti, che consentono di evitare questo destino. Quando poi il predegente entra in ospedale, sarà ancora una serie di contingenze che contribuirà a determinare il momento della dimissione: il desiderio della famiglia di riaverlo in casa, la possibilità di trovare un lavoro adatto e così via. Il fatto dunque che la società ritenga, ufficialmente, che i ricoverati negli ospedali psichiatrici si trovino in quella situazione perché sono dei malati mentali, non pare corrisponda alla realtà. Se si pensa che i «malati di mente» che vivono liberamente fuori dagli ospedali si avvicinano, come numerose addirittura non lo superano – a quelli che sono invece ricoverati, si potrebbe concludere che ciò che distingue i secondi dai primi non è il tipo di malattia, quanto piuttosto un certo numero di contingenze.
Le contingenze di carriera si verificano, per il predegente, associate ad un altro elemento: il circuito di agenti e di enti che influiscono sul suo destino nel passaggio dallo status civile a quello di degente. Si ha qui un esempio di quell’importante insieme del sistema sociale, costituito appunto da agenti ed enti, che convergono nell’occuparsi della stessa persona, spingendola verso l’ospedale. E’ il caso di citare alcuni di questi ruoli di agente, tenendo conto che in ogni insieme, un ruolo può essere coperto più di una volta, e che una persona può coprirne più d’uno.
Primo, la «”persona di fiducia”» (next-of-relation), colui che il malato considera il più accessibile e disponibile in caso di bisogno: l’ultimo a metterne in dubbio lo stato di salute mentale e il primo disposto a fare il possibile per salvarlo dal destino che gli si prepara. Si tratta di solito di un parente stretto, ma ho qui preferito usare questo termine specifico, perché non è detto che lo debba essere sempre. In secondo luogo c’è l'”accusatore”, quello che per primo ha dato l’avvio alla serie di contingenze che portano il paziente all’ospedalizzazione. Ultimi i “mediatori”, l’insieme di agenti ed enti cui il predegente viene segnalato e che lo segue nel suo procedere verso l’ospedale: polizia, clero, medici generici, psichiatri, personale di cliniche, legali, assistenti sociali, insegnanti scolastici, eccetera. Solo uno di questi personaggi avrà il mandato legale di consegnare il paziente all’ospedale, mentre gli altri avranno soltanto partecipato ad un processo le cui conseguenze non erano ancora definite. Quando i mediatori escono dalla scena, è allora che il predegente diventa un degente, affidato ad un unico agente che è il direttore dell’ospedale.
L’accusatore non agisce, abitualmente, in veste professionale ma come cittadino, come datore di lavoro, come vicino di casa o parente del paziente; mentre i mediatori sono, per lo più, specialisti che presentano una notevole distanza dall’oggetto di cui si occupano: hanno un’esperienza cui riferirsi nel trattare i problemi e quindi un certo distacco professionale. Ad eccezione dei poliziotti e forse di una parte del clero, essi tendono a formarsi un orientamento psichiatrico così da poter diagnosticare – più di quanto non possa fare il profano – quando si presenta la necessità di un trattamento [5].
Un aspetto interessante è dato dagli effetti del reciproco interagire dei ruoli. Ad esempio i sentimenti del paziente possono essere diversamente influenzati a seconda che colui che esercita il ruolo di accusatore abbia, più o meno, anche quello di “persona di fiducia”, combinazione alquanto imbarazzante che si verifica più di frequente nelle classi superiori che in quelle inferiori. Consideriamo ora alcuni degli effetti che ne derivano.
Nel cammino che da casa lo conduce all’ospedale, il paziente può viversi come l’oggetto di ciò che ritiene una sorta di coalizione “alienante”. La “persona di fiducia” fa pressione su di lui perché vada a discutere a fondo la cosa con un medico, uno psichiatra, o comunque un competente. Se rifiuta di farlo, si minaccia di abbandonarlo e di ricorrere ad azioni legali; oppure gli si assicura che si tratta di un incontro di carattere puramente interlocutorio. Nel frattempo però la “persona di fiducia” si sarà preoccupata di predisporre la visita scegliendo il professionista, stabilendo l’appuntamento, illustrandone già prima il caso: passi questi che tendono, in effetti, a definire la posizione della “persona di fiducia” come la responsabile cui si può comunicare i risultati dell’incontro, e la posizione dell’altro, come quella di un malato. Spesso il predegente va a farsi visitare presumendo di essere esattamente allo stesso livello del suo accompagnatore, cui è legato tanto intimamente da non supporre che una terza persona sia in grado di interferire fra di loro su questioni fondamentali (il che del resto è uno dei modi in cui vengono definiti i legami profondi nella nostra società). Pure, non appena entra nell’ambulatorio, il predegente scopre che a lui e alla “persona di fiducia” che lo accompagna non sono riconosciuti gli stessi ruoli; che una evidente, precedente intesa lega il suo accompagnatore al professionista, e ciò a suo danno. Spesso il professionista può intrattenersi prima con il paziente da solo – per formulare una diagnosi – e successivamente con la “persona di fiducia” per darle un responso, evitando accuratamente di discutere la cosa seriamente in presenza di entrambi. Anche nei casi in cui non si tratta, in realtà, di una consultazione, quanto piuttosto di un’azione di forza intesa a strappare il malato alla famiglia che vorrebbe tenerlo con sé, la “persona di fiducia” è spesso indotta a prender parte all’azione generale, per cui il predegente si sente oggetto di una sorta di “coalizione alienante” organizzata contro di lui.
La percezione di essere l’oggetto di una congiura di tal tipo può amareggiare il predegente, soprattutto per il fatto che i disturbi di cui soffre lo hanno già portato – è probabile – ad un certo distacco dalla “persona di fiducia”. Tuttavia, dopo il suo ingresso in ospedale, il fatto che la “persona di fiducia” venga a visitarlo spesso, può dargli la consapevolezza che tutto sia stato fatto nel suo interesse; mentre le prime visite lo potranno rinforzare, temporaneamente, nella convinzione di essere stato abbandonato. Accade allora facilmente che il paziente implori l’amico di farlo uscire di là, di fargli almeno ottenere qualche privilegio o di capire la mostruosità della sua situazione – al che l’amico non può che rispondere incitandolo a sperare, non «dando seguito» alle sue richieste, oppure rassicurandolo sulle capacità tecniche dei sanitari che faranno il loro meglio per curarlo. Tuttavia, a questo punto, il visitatore se ne va, ritornando – semplicemente – nel mondo che il paziente sa, ricco di libertà e privilegi, mentre a lui resta il sospetto che l’amico stia solo tentando di stendere un velo di pietà su un caso palese di abbandono e di tradimento.
Questo amaro sentimento può essere aggravato, inoltre, dalla presenza di un estraneo che agisce come testimone della sua posizione; fattore, quest’ultimo, che ha grande importanza in molte situazioni a tre. E’ facile infatti che una persona offesa si comporti con tolleranza ed accondiscendenza verso chi l’ha offesa, qualora i due contendenti siano soli, anteponendo il quieto vivere alla giustizia. La presenza di un testimone sembra, invece, aggiungere un significato particolare all’offesa, perché non è più in potere dell’offeso e dell’offensore, dimenticare, cancellare e rimuovere l’accaduto: l’offesa è diventata un fatto sociale, un avvenimento pubblico. Se poi – come talvolta succede – il testimone di un tale tradimento sia la commissione giuridica di igiene mentale, la cosa assume allora il carattere di una «cerimonia di degradazione». In questo caso il paziente offeso può sentire la necessità di un ampio atto riparatorio, per ristabilire il suo onore ed il suo valore sociale.
Sono da ricordare altri due elementi impliciti nel sentimento di tradimento. Primo, il fatto che coloro i quali hanno spinto il malato al ricovero è probabile non gli abbiano dato una visione realistica di quanto la cosa possa incidere in lui. Spesso gli viene solo detto che lì potrà avere il trattamento medico di cui ha bisogno ed un periodo di riposo: potrà dunque uscire in pochi mesi. In alcuni casi chi lo incita al ricovero nasconde al malato ciò che sa, ma penso, in generale, dicano quello che credono sia vero. In realtà, c’è una differenza notevole fra il punto di vista del degente e quello dei mediatori professionali. I “mediatori”, più di quanto non faccia il pubblico in genere, non giudicano gli ospedali psichiatrici luoghi di esilio forzato, ma istituzioni sanitarie per degenze a breve scadenza, nelle quali si può ottenere la cura e il riposo necessari [6]. Quando però il predegente entra in ospedale, impara molto rapidamente che le cose sono ben diverse e scopre allora che le informazioni avute sulla vita dell’ospedale sono servite soltanto a fargli opporre meno resistenza al suo ricovero, di quanta ne avrebbe opposta se realmente avesse saputo come stavano le cose. Così, quali che fossero le intenzioni di coloro che hanno contribuito al suo passaggio dal ruolo di persona a quello di paziente, non può vivere la nuova esperienza che come un inganno, che l’ha condotto alla sua attuale penosa situazione.
Ciò che intendo dire è che il predegente inizia la sua carriera con almeno una parte di diritti, libertà, soddisfazioni propri di un civile, e finisce in un reparto psichiatrico, spogliato quasi completamente di tutto. Il problema è ora il “modo” in cui questo accade, ed è il secondo aspetto del tradimento che voglio considerare.
Così come lo può vedere il predegente, il cerchio di figure determinanti nella sua carriera assume, ai suoi occhi, il significato di una sorta di «vortice degli inganni». Il passaggio dal ruolo di persona a quello di degente può, infatti, avvenire attraverso una serie di fasi collegate, ciascuna controllata da un agente diverso. Mentre ogni fase tende a portare una netta diminuzione nello status di persona libera del predegente, ogni agente può tentare di fingere che non ci saranno ulteriori diminuzioni e può perfino riuscire ad indirizzare il predegente all’agente successivo, mantenendo una tale finzione. Inoltre ogni agente richiede implicitamente al predegente con parole, cenni, gesti – di intrattenersi con lui in una conversazione superficiale ed educata evitando, con tatto, di toccare certi aspetti amministrativi della situazione; conversazione che va facendosi gradualmente sempre più irreale, in netto contrasto con la situazione concreta [7]. La moglie preferisce non dover piangere per convincere il marito a farsi visitare dallo psichiatra; lo psichiatra preferisce evitare scene clamorose nel momento in cui il predegente capisce che dovrà essere visitato separatamente dalla moglie, e in modo diverso; la polizia raramente porta un predegente all’ospedale in camicia di forza: trova più comodo offrirgli sigarette, dirgli parole gentili e dargli la possibilità di rilassarsi sul sedile posteriore dell’automobile; lo stesso psichiatra addetto all’accettazione dei malati trova più conveniente fare il suo lavoro nella quiete e nell’eleganza del suo studio, dove ci siano segni, indicazioni puramente accidentali, che possano far ritenere l’ospedale come un luogo veramente confortevole. Se il predegente presta ascolto a queste implicite richieste e si comporta nel complesso discretamente, può percorrere l’intero ciclo da casa all’ospedale, senza costringere chi gli sta attorno a rendersi conto di quello che sta realmente succedendo, evitandogli quindi di affrontare la cruda emozione che la drammatica situazione potrebbe fargli esprimere. Il suo tenere in considerazione quelli che lo spingono verso l’ospedale, consente loro di tenerlo, a sua volta, in considerazione, con il risultato che queste interazioni riescono a sostenersi sulla base dell’armonia protettiva, tipica dei normali rapporti amichevoli che intercorrono fra due persone. Ma, se appena il nuovo degente ripercorre con la mente la sequenza dei passi che l’hanno portato all’ospedale, può avvertire che ci si è dati da fare per mantenere in equilibrio il benessere momentaneo di tutti, a scapito del suo benessere futuro, e una tale scoperta può costituire un’esperienza morale che lo separa ulteriormente dal mondo «di fuori».
Ora considererò l’insieme degli agenti partecipanti alla carriera del malato, dal loro punto di vista. I “mediatori” che partecipano al suo passaggio dallo status civile a quello di degente – così come coloro che ne curano la custodia una volta ricoverato – hanno interesse a stabilire che la “persona di fiducia” responsabile assuma, nei confronti del degente, il ruolo di tutore o di “guardiano”; ove non ci fosse un candidato naturale per questo ruolo, se ne può trovare uno e persuaderlo ad accettare l’incarico. In questo modo, mentre l’uno si trasforma gradualmente in paziente, l’altro si trasforma in guardiano. Con un guardiano sulla scena, l’intero processo di transizione può “mantenersi pulito” [8]. Il “guardiano” dovrebbe occuparsi delle implicazioni civili e degli interessi del predegente, collegandone i fili smarriti che, altrimenti, potrebbero imbrogliare le cose nella vita dell’ospedale. Alcuni dei diritti civili abrogati al paziente possono venire trasferiti a lui, aiutando così a mantenere, agli occhi del degente, la finzione legale secondo cui, pur trovandosi egli nella condizione di non avere più alcun diritto effettivo, in qualche modo non li ha completamente perduti tutti.
Normalmente i degenti – almeno per qualche tempo – vivono il ricovero come una grave, ingiusta privazione e talvolta riescono a convincere in questo senso anche persone del mondo esterno. In questo caso può risultare spesso utile per coloro che sono ritenuti responsabili – anche se in maniera giustificata – di queste privazioni, riuscire ad accordarsi e a contare sulla collaborazione di qualcuno il cui legame con il paziente lo metta al di là di ogni sospetto, essendo chiaramente colui che ha veramente a cuore i suoi interessi. Se il “guardiano” è soddisfatto di come vanno le cose al nuovo paziente, pure la società dovrebbe esserlo.
Ora sembrerebbe che quanto maggiore interesse personale e legittimo abbia una parte nei confronti dell’altra, tanto più possa assumerne il ruolo di “guardiano”. Ma socialmente gli atti legali che sanciscono la fusione ufficiale degli interessi di due persone, comportano altre conseguenze. Perché la persona cui il paziente ricorre per essere aiutato e difeso dal pericolo di venire imprigionato, è la medesima cui mediatori ed amministratori dell’ospedale si rivolgono per averne l’autorizzazione al ricovero. E’ quindi comprensibile come i pazienti avvertano, almeno per un periodo, che il fatto di essere parenti o intimamente legati a qualcuno, non ne garantisce la fedeltà.
Ci sono altri effetti funzionali derivanti da questa complementarietà dei ruoli. Se e quando la “persona di fiducia” chiede aiuto ai “mediatori”, per far fronte alle difficoltà che incontra con il predegente, può – in effetti – non pensare all’ospedalizzazione. Anzi, può addirittura non considerare il predegente come un malato mentale o, se lo fa, il suo può non essere ancora un giudizio definitivo. E’ l’insieme dei mediatori – con la loro preparazione psichiatrica e la loro certezza circa il carattere medico degli ospedali psichiatrici – che spesso definisce la situazione alla “persona di fiducia”, assicurandole che l’ospedalizzazione può essere una soluzione, che essa non comporta alcun tradimento nei confronti del malato dato che si tratta solo di un’azione medica, decisa per il suo bene [9]. E’ ora che il familiare impari che, per fare il suo dovere verso il predegente, è facile ne perda la fiducia e che, per questo, il malato può arrivare anche ad odiarlo. Ma già il fatto che la cosa sia stata suggerita e proposta da professionisti e che sia stata da loro definita come un dovere morale, scarica in parte il senso di colpa che la “persona di fiducia” avverte nei confronti del malato. E’ un fatto doloroso che un figlio o una figlia adulti siano qualche volta spinti al ruolo di mediatori, dato che l’ostilità che altrimenti si sarebbe riversata sul coniuge, viene scaricata su di loro.
Una volta ricoverato il malato, lo stesso sentimento di colpa nei suoi confronti vissuto dalla “persona di fiducia”, può diventare un elemento significativo su cui lo staff può agire. Le spiegazioni che lo scagionino dall’aver tradito il paziente – anche se il paziente continua a pensarlo – possono servirgli, in seguito, come una linea di difesa da seguire al prossimo incontro con il malato in ospedale e come la garanzia che il rapporto con lui possa venire ristabilito, dopo il periodo del ricovero. Naturalmente, qualora la cosa sia percepita dal paziente, può fornire ai suoi occhi delle attenuanti per la “persona di fiducia” nel caso gliele chieda.
Così, mentre la “persona di fiducia” può svolgere funzioni importanti per i mediatori, e gli amministratori dell’ospedale, essi stessi possono, a loro volta, svolgerne altre importanti per lei. Dal che si può vedere emergere un complesso di scambi e di reciprocità senza alcuna intenzionalità, dato che questo tipo di funzioni è spesso non intenzionale.
Il punto finale che voglio ora considerare nella carriera del predegente è il suo particolare carattere “retroattivo”. Finché una persona non entra effettivamente in ospedale, in genere non pare vi sia modo di prevedere con certezza il suo destino in tal senso, tenendo conto del ruolo determinante che qui giocano le contingenze di carriera. Oltre al fatto che, finché non ha varcato la soglia dell’istituto, il predegente è ancora nella possibilità di non considerarsi e di non essere considerato dagli altri una persona che sta per diventare un malato mentale. Tuttavia, poiché egli sarà trattenuto in ospedale contro la sua volontà, la “persona di fiducia” e lo staff ospedaliero avranno bisogno di razionalizzare le difficoltà di rapporto che devono affrontare e, fra il personale, i medici necessiteranno di prove capaci di testimoniare che si tratta di un paziente della loro specialità. Questi problemi sono ridotti – indubbiamente senza intenzione – dall’anamnesi del caso: essa si basa sulla ricostruzione del passato del paziente e ciò con l’effetto di dimostrare che già da molto tempo si stava ammalando, che infine si è ammalato seriamente, e che cose ben peggiori gli sarebbero accadute se non fosse stato ricoverato in ospedale – il che, naturalmente, può anche essere vero [10]. Per inciso, se il paziente vuole ricavare un senso dal suo soggiorno in ospedale e se – come già suggerito – vuole mantenere viva la possibilità di riabilitare ai suoi occhi la “persona di fiducia” come degna di rispetto e le cui intenzioni non possono essere messe in dubbio, anch’egli si troverà a dover credere a qualche rielaborazione psichiatrica del suo passato.
Questo è un momento cruciale per l’analisi sociologica della carriera. Un elemento importantissimo di ogni carriera è l’idea che ci si costruisce, quando ci si volta a guardare il cammino percorso. E purtuttavia, in un certo senso, l’intera carriera del predegente deriva da questa ricostruzione. L’aver avuto una carriera di predegente, incominciata in seguito ad un’accusa reale, diventa un elemento determinante per quello che sarà il malato mentale; ma il fatto che un tale elemento entri in gioco soltanto dopo il ricovero, prova che ciò che il paziente aveva e non ha più – è una carriera di predegente.
– La fase del degente.
L’ultimo passo della carriera del predegente può corrispondere alla sua presa di coscienza – più o meno giustificata – di essere stato abbandonato dalla società e tagliato fuori da ogni rapporto. ~ interessante notare come il paziente – soprattutto se di prima ammissione – tenti di impedirsi di rendersene conto, anche se in realtà si trovi già in un reparto chiuso di un ospedale psichiatrico. Al suo ingresso in ospedale può provare il bisogno violento di non rivelarsi, agli occhi degli altri, come persona capace di ridursi in condizioni tanto degradanti, o di comportarsi così come si è comportato prima del ricovero. Eviterà quindi di parlare; si manterrà per quanto possibile, appartato e perfino “fuori contatto” o “maniaco”, per non rischiare di convalidare qualsiasi rapporto gli richieda un ruolo di reciproca cortesia e o possa esporre a dimostrarsi, agli occhi degli altri, per ciò che è diventato. Quando la “persona di fiducia” si sforza di andarlo a trovare, può essere respinta dal suo mutismo o dal rifiuto di recarsi in «parlatorio». Molto spesso questo tipo di strategia fa supporre quanto il paziente si aggrappi a ciò che resta dell’antico rapporto che lo univa a coloro che facevano parte del suo passato, e di come stia tentando di proteggerne gli ultimi resti dalla distruzione totale, rifiutando di trattare con le persone nuove che essi sono diventati [11].
Di solito finisce per rinunciare a questo sforzo snervante, inteso a mantenere l’anonimato e a negare la sua presenza lì, ed incomincia a cercare, nella comunità ospedaliera, rapporti sociali di tipo convenzionale. Da allora in poi si ritrarrà solo in qualche modo particolare – usando sempre il suo nomignolo, firmando l’articolo nel settimanale dell’ospedale solo con le iniziali, servendosi dell’innocuo indirizzo di «copertura» fornito con tatto da alcuni ospedali; oppure in qualche circostanza particolare – quando un gruppo della scuola infermieri fa un breve giro nel reparto, o quando, nei limiti consentiti dallo spazio ospedaliero, incontra all’improvviso un civile che conosceva prima. Talvolta questo arrendersi viene definito dagli infermieri come un «adattamento». In realtà, esso denota una nuova posizione, presa e sostenuta apertamente dal paziente, che ricorda il processo del “rivelarsi” cui si assiste in altri gruppi. Una volta che il predegente abbia incominciato ad “adattarsi”, le linee principali del suo destino tendono a seguire quelle di un’intera categoria di segregazioni – prigioni, campi di concentramento, campi di lavoro eccetera, nella cui area l’internato trascorre tutta la vita, vivendo passo passo la sua giornata irreggimentata, a stretto contatto con altri compagni della medesima condizione istituzionale.
Come il neofita in molte di queste «istituzioni totali» [12], il nuovo degente si trova completamente spogliato di ogni convinzione, soddisfazione e difesa abituali, soggetto com’è ad una serie di esperienze mortificanti: impossibilitato a muoversi liberamente se non entro limiti consentiti; costretto ad una vita in comune; sottomesso all’autorità di un’intera squadra di comandanti. E’ qui che si incomincia ad apprendere quanto sia limitata l’estensione entro la quale può essere mantenuto il concetto di sé, qualora l’insieme di sostegni abituale venga improvvisamente a mancare.
Nel sottostare a queste esperienze degradanti, il degente impara a muoversi secondo il «sistema del reparto». Negli ospedali psichiatrici pubblici ciò consiste, generalmente, in una serie di livelli di vita che si svolgono attorno ai reparti, nelle unità amministrative chiamate «servizi», negli ambiti entro i quali i pazienti possono essere lasciati liberi. Il livello «peggiore» non offre spesso che panche di legno per sedersi, cibo piuttosto cattivo ed un angolo per dormire. Il livello «migliore» può comprendere una stanza per persona, il privilegio di muoversi nell’area ospedaliera e di andare in città, rapporti non troppo mortificanti con il personale, cibo discreto ed ampie possibilità ricreative. Se disobbedisce alle norme generali dell’istituto, il degente riceverà una severa punizione tradotta in termini di perdita di privilegi; se invece ubbidisce, gli sarà perfino concesso di godere nuovamente di qualche piccolo piacere che – prima di entrare in ospedale – riteneva ovvio soddisfare.
L’istituzionalizzazione di questi livelli di vita radicalmente diversi, mette in luce l’influenza dell’ambiente sociale sulla formazione del “sé”. Ciò significa che il “sé” non trae origine semplicemente da un processo di interazioni significative fra l’io e gli altri, ma anche dal tipo di strutture che gli si organizza intorno.
Difficilmente una persona riconoscerebbe certi ambienti come espressione o estensione di sé. Quando un turista visita i bassifondi, si diverte non tanto nella misura in cui si riconosce nella situazione, quanto piuttosto perché la sente tanto assurdamente lontana. I «salotti» ad esempio possono essere usati come luoghi dove si può influenzare a proprio favore l’opinione degli altri. Altri ambienti, come i posti di lavoro, esprimono il livello professionale del lavoratore, livello sul quale però egli non ha alcun controllo decisivo dato che viene esercitato seppure con tatto – dal suo datore di lavoro. Gli ospedali psichiatrici sono un esempio limite di quest’ultima possibilità, e ciò è dovuto non solo al livello di vita particolarmente degradante cui sono soggetti i pazienti, ma anche al modo particolare in cui viene qui reso esplicito il valore di “sé”, e ciò in maniera persistente, penetrante e sistematica.
Una volta che il degente si sia stabilito in un reparto, gli si spiega subito che le restrizioni e le privazioni cui andrà incontro non sono dovute a norme tramandate o a criteri economici – il che non avrebbe niente a che fare con il valore del “sé” – ma fanno parte intenzionale della cura, corrispondono a ciò di cui in quel momento egli ha esattamente bisogno: sono quindi espressione del livello di degradazione cui è arrivato. Avendo tutti i motivi per richiedere un trattamento migliore, se lo fa, gli si risponde che quando lo riterranno «capace di affrontare» o «pronto» per un reparto di livello superiore, allora decideranno il da farsi. Ciò significa che l’assegnazione ad un dato reparto non viene presentata come un premio o una punizione, ma come espressione del grado di socialità e delle condizioni del paziente [13]. Premettendo che i reparti «peggiori» offrono un livello di vita che i malati mentali organici possono sopportare con una certa facilità – e quei minorati sono lì a testimoniarlo – si possono valutare alcuni degli effetti prodotti dall’ospedale.
Il sistema del reparto diventa allora un caso limite di come le strutture fisiche di un’istituzione possano venire esplicitamente usate per definire il concetto di sé di una persona. Inoltre lo stesso mandato psichiatrico dell’ospedale contribuisce ad incidere con aggressioni, anche più dirette e più violente, sul modo in cui il malato concepisce se stesso. Quanto più «medico» e moderno è un ospedale psichiatrico – quanto più cerca di assolvere la sua funzione terapeutica, rifiutando di limitarsi alla sola custodia – tanto più il malato si troverà di fronte ad uno staff altamente qualificato che gli dimostrerà come il suo passato sia stato un fallimento; che la causa è dentro di lui, che il suo atteggiamento verso la vita è sbagliato e che se vuole essere un uomo, dovrà mutare il tipo di rapporti che instaura e l’immagine che ha di se stesso. Spesso il valore morale di queste aggressioni verbali gli verrà imposto attraverso la richiesta di esercitarsi ad accettare l’interpretazione psichiatrica data su di lui, durante le periodiche confessioni organizzate sia in corso di psicoterapia individuale, che di gruppo.
Si può ora puntualizzare, nella carriera morale dei ricoverati, un fenomeno generale che si riscontra in molte carriere morali. Dato il grado raggiunto in qualsiasi carriera, si nota che ci si costruisce un’immagine della propria vita – passato, presente, futuro – selezionando, scegliendo e distorcendo i fatti per fornire un quadro di noi stessi, tale da poter essere vantaggiosamente presentato nella vita quotidiana. Generalmente il criterio difensivo che si segue per ciò che riguarda il sé porta ad allinearsi con i valori fondamentali della società in cui si vive, nel qual caso si parlerà di un'”apologia”. Qualora si sia in grado di fornire un quadro della situazione quotidiana nel quale possano evidenziarsi qualità personali espresse nel passato, ed un destino favorevole che ci attende, questa potrà essere una “storia di successo”. Nel caso invece il passato e il presente siano terribilmente cupi, sarà meglio che la persona dimostri di non essere responsabile di ciò che è successo e il termine “una storia triste” sarà perfettamente adatto al caso. E’ piuttosto interessante notare come, quanto più il passato ha fatto deviare la persona dall’apparente allineamento con i valori morali fondamentali, tanto più spesso sembra costretta a raccontare – in qualsiasi compagnia si trovi – la sua triste storia. Il che forse risponde, in parte, al bisogno che avverte negli altri di non vedere insultato il significato della propria vita. Comunque, è soprattutto fra carcerati, alcolisti e prostitute che si trovano sempre pronte le storie più tristi. Ora vorrei prendere in esame le vicende della “triste storia” del malato mentale.
Nell’ospedale psichiatrico le strutture e le regole dell’istituto contribuiscono a convincere il malato che – in fondo – è un caso mentale, che ha sofferto di una sorta di collasso sociale avendo completamente fallito: la sua presenza in quel luogo ha quindi uno scarso peso sociale, poiché egli sarebbe difficilmente in grado di comportarsi da persona normale [14]. Un tale tipo di umiliazioni è probabilmente avvertito più acutamente da malati borghesi, dato che la loro precedente condizione di vita li immunizza scarsamente contro questo tipo di offese; pure, tutti i pazienti avvertono una qualche degradazione. Esattamente come qualunque persona del medesimo livello subculturale, spesso il paziente reagisce a questa situazione, raccontando una triste storia, nel tentativo di dimostrare di non essere «malato», che i «piccoli guai» in cui è incorso sono stati, in verità, causati da altri, che la sua vita passata era retta ed onorata e che perciò l’ospedale è ingiusto ad imporgli la condizione di malato mentale. Questa tendenza al mantenimento della propria dignità agli occhi degli altri è fortemente istituzionalizzata nella comunità dei malati, dove i contatti sociali si conservano generalmente entro i limiti di una semplice informazione volontaria sulla sistemazione nel reparto e sulla durata del soggiorno, senza arrivare mai a dare spiegazioni sul motivo della loro presenza lì – il che è, del resto, abituale nelle normali conversazioni superficiali. Una volta familiarizzati, in genere i pazienti forniscono spontaneamente una versione relativamente accettabile del loro ricovero, accettando a loro volta – senza domande indiscrete – le versioni fornite dagli altri. Vengono, ad esempio, raccontate e apertamente accettate storie come queste:
“Frequentavo la scuola serale perché volevo laurearmi e, contemporaneamente, lavoravo. L’impegno è stato troppo per me”.
“Gli altri qui sono malati di mente. Ma io ho solo un esaurimento nervoso ed è per questo che ho queste fobie”.
“Sono qui per errore, a causa di una diagnosi di diabete e sarò dimesso in un paio di giorni”. [Il paziente era in ospedale da sette settimane].
“Fallii come bambino e più tardi, con mia moglie, cercai un rapporto di dipendenza”.
“Il mio guaio è che non posso lavorare. Questo è il motivo per cui sono qui. Avevo due lavori, una bella casa e tutto il denaro che volevo”.
A volte il degente sottolinea queste storie fornendo una rappresentazione ottimistica del tipo di occupazione cui si dedicava: se era riuscito ad ottenere un’audizione per annunciatori radio, si atteggia a radio-annunciatore; se aveva lavorato alcuni mesi come fattorino in un giornale, essendogli stato assegnato un lavoro di reporter da cui fu licenziato tre settimane dopo, si definisce reporter.
Sulla base di queste finzioni reciprocamente sostenute, è possibile ricostruire un intero ruolo sociale nella comunità dei malati, dato che tali convenevoli reciproci sono generalmente confermati anche dalle chiacchiere fatte alle spalle che – rispetto alle versioni originali – si avvicinano soltanto di un grado ai «fatti obiettivi». Il che ricorda, tuttavia, una delle classiche funzioni sociali dei rapporti informali fra persone dello stesso livello, rapporti che servono da auditorio reciproco per storie costruite a sostegno della propria rappresentazione di sé.
Tuttavia, l'”apologia” del degente viene menzionata solo in circostanze particolari, poiché poche altre situazioni possono essere altrettanto lesive nei confronti della rappresentazione di sé data dal malato, come quella manicomiale; ammenocché non si tratti, naturalmente, di una versione costruita secondo criteri psichiatrici. Questa capacità distruttiva dell’istituto si fonda comunque su qualche cosa di più del documento che dichiara il paziente insano di mente, pericoloso a sé e agli altri – anche se tale attestazione sembra già incidere profondamente sull’orgoglio del degente e sulla sua possibilità di averne.
Le stesse condizioni degradanti dell’ambiente ospedaliero contribuiscono, naturalmente, a smascherare molte di queste rappresentazioni ottimistiche di sé proposte dai pazienti: il che è del resto confermato dal fatto stesso che i protagonisti sono ricoverati in un ospedale psichiatrico. Inoltre, non sempre c’è, fra i degenti, un grado di solidarietà sufficiente ad impedire che l’uno discrediti l’altro; esattamente come non c’è sempre un numero sufficiente di infermieri con ruoli professionali, tale da impedire che uno di questi screditi un paziente. Un paziente chiedeva ripetutamente ad un compagno:
«Se sei così in gamba, come mai sei capitato qui?»
Tuttavia gli ordinamenti ospedalieri hanno un potere ancor più lesivo. Il personale ha tutto da guadagnare screditando la versione raccontata dal degente, qualunque sia il motivo che lo spinga a farlo. Se la finalità dell’ospedale è riuscire a controllare la situazione giornaliera senza lamentele o richieste da parte del degente, risulterà utile fargli notare che i diritti che reclama e sui quali razionalizza le sue pretese, sono falsi; che egli non è ciò che dice di essere, e che in effetti non è altro che un fallito [15]. Se i medici vogliono convincere il paziente della loro interpretazione psichiatrica sul suo bisogno di mascherarsi di fronte agli altri, devono essere in grado di dimostrare dettagliatamente come la versione da loro data del passato e del carattere del paziente, sia molto più reale della sua. Se gli infermieri addetti alla custodia e lo staff addetto alla cura vogliono farlo cooperare al trattamento necessario, risulterà utile che lo distolgano dall’idea che egli si è fatta circa i loro scopi e gli facciano capire che sanno quello che fanno e che fanno esattamente il meglio. Le complicazioni causate da un paziente sono dunque strettamente legate alla versione che egli dà di ciò che gli è accaduto, e se si vuole che sia collaborativo è necessario che questa versione venga screditata. Il degente deve arrivare a convincersi «interiormente» di accettare e di far accettare il giudizio che l’ospedale ha su di lui.
Il personale dispone poi di mezzi ideologici – oltre all’influenza dell’ambiente – per rifiutare le ragioni del degente. L’attuale dottrina psichiatrica definisce il disordine mentale come qualcosa che può avere le sue radici nei primi anni del paziente; che mostra i segni della sua presenza nell’intero corso della vita e invade quasi ogni settore della sua attività. Nessun punto particolare del passato o del presente viene così a trovarsi fuori della giurisdizione psichiatrica. Gli ospedali psichiatrici istituzionalizzano burocraticamente questo mandato così vasto, basando la cura del malato essenzialmente sulla formulazione della diagnosi e sull’interpretazione psichiatrica del suo passato, che da una tale diagnosi proviene.
La cartella clinica lo evidenzia chiaramente. Si tratta infatti di un dossier dove non si registrano mai le circostanze in cui il paziente ha dimostrato di essere in grado di affrontare dignitosamente e con successo difficili situazioni di vita, né vi si segnala la media di comportamento della sua condotta passata. Uno dei suoi scopi è dimostrare i diversi modi in cui il paziente è «malato» e la ragione per la quale era giusto rinchiuderlo in ospedale ed è tuttora giusto tenervelo rinchiuso [16]. Il che viene attuato ricavando dal corso di tutta la sua vita un elenco di quei fatti che hanno o potrebbero aver avuto un valore «sintomatico». Vengono citate le disavventure dei genitori o dei fratelli che potrebbero far pensare ad una tara familiare. Vengono segnalati fatti precedenti in cui il paziente dimostrò un «disturbo di giudizio» o qualche alterazione emotiva; si descrivono situazioni in cui agì in modo strano, tale da poter essere giudicato da un profano come un immorale, un pervertito sessuale, debole, infantile, sconsiderato, impulsivo, pazzo. E’ probabile vi si riportino dettagliatamente scorrettezze fatte dal paziente che qualcuno considerò come l’ultima goccia, causa di provvedimenti immediati nei suoi confronti. Vi sarà descritto, inoltre, lo stato al momento del suo ingresso in ospedale – momento non certo facile e calmo per lui. Potranno esservi riferite risposte devianti date dal paziente a domande imbarazzanti, facendolo apparire come persona che presenta e fa affermazioni in evidente contrasto con i fatti:
“Asserisce di vivere con la figlia maggiore o con le sorelle soltanto quando è ammalata e bisognosa di cure; altrimenti con il marito – ma il marito stesso afferma di non vivere con lei da dodici anni”.
“Contrariamente a quanto riferisce il personale, egli asserisce di non sbattere più sul pavimento o di gridare al mattino”.
“… nasconde il fatto di essere stata isterectomizzata, pretende di avere ancora le mestruazioni”.
“Dapprima negò di aver avuto esperienze sessuali prematrimoniali, ma quando le fu chiesto di Jim, disse di averlo dimenticato perché la cosa era stata spiacevole”.
Qualora l’autore della documentazione non conosca fatti negativi, la loro eventuale presenza viene scrupolosamente annotata come possibile:
“La paziente negò ogni esperienza eterosessuale, non si riuscì neppure a farle ammettere di essere stata incinta o di aver fatto qualsiasi tipo di esperienza sessuale, negando pure la masturbazione”.
“Anche sottoposta a considerevoli pressioni, non risultò disposta ad impegnarsi in proiezioni di meccanismi paranoidi”.
“Nessun contenuto psicotico poté essere allora dedotto”.
In mancanza di fatti più precisi, appaiono spesso note di scredito nelle descrizioni del comportamento generale del paziente in ospedale:
“Quando veniva interrogato si mostrava mite, apparentemente sicuro di sé e, parlando, faceva affermazioni di carattere generale, gratuite e altisonanti”.
“Di aspetto pulito, baffetti alla Hitler ben curati, quest’uomo di quarantacinque anni, che ha passato gli ultimi cinque o più ricoverato, è riuscito ad adattarsi alla vita ospedaliera dimostrandosi un uomo allegro ed elegante che non solo supera intellettualmente i compagni, ma è anche molto virile con le donne. Il suo discorso è pieno di parole multisillabe che usa generalmente a proposito, ma se parla un po’ a lungo appare chiaro che, completamente perso nella sua diarrea verbale, ciò che dice risulta quasi del tutto privo di senso”.
I fatti registrati nella cartella clinica sono dunque esattamente quelli che il profano considererebbe calunniosi, diffamatori, portatori di discredito. Si deve anche precisare che il personale ospedaliero, a tutti i livelli, non riesce in genere a trattare questo materiale con la neutralità morale proclamata necessaria in dichiarazioni mediche e diagnosi psichiatriche, ma partecipa invece con il tono e con i gesti (se non con altri mezzi) alla reazione tipica dei profani verso questi atti. Ciò accade sia nel rapporto personale-paziente, che in quello fra i diversi membri dello staff in assenza del paziente [17].
In alcuni ospedali psichiatrici l’accesso alle documentazioni cliniche è tecnicamente limitato ai medici e agli infermieri più qualificati; tuttavia il personale di grado inferiore può avervi accesso – se pur non ufficiale – ed ottenere nuove informazioni. Inoltre si riconosce comunemente al personale dei reparti il diritto di essere informato sugli aspetti della vita passata del paziente che – sommati alla situazione in atto – rendono possibile il trattarlo opportunamente, a suo vantaggio e a minor rischio degli altri. I diversi livelli dello staff hanno poi accesso alle note giornaliere tenute dagli infermieri del reparto sul corso della malattia e del comportamento del paziente; note che forniscono, per il presente, il tipo di informazioni che le cartelle cliniche dànno per il passato.
Ritengo che la maggior parte delle informazioni raccolte nelle cartelle cliniche sia esatta, per quanto si potrebbe obiettare che nella vita di ciascuno di noi può essere riscontrato un numero sufficiente di fatti negativi la cui documentazione potrebbe giustificare il ricovero. Comunque non voglio soffermarmi qui sull’opportunità di mantenere la documentazione dei casi, o sui motivi che lo staff ha di conservarla. Il punto è che – nella misura in cui questi fatti relativi al paziente sono veri – egli non potrà certo sottrarsi alla normale pressione culturale che lo spinge a nasconderli, e si sentirà forse maggiormente minacciato nel sapere che essi sono a disposizione di altri e che egli non è in grado di avere alcun controllo su chi ne viene a conoscenza. Un giovane – dall’aspetto virile – reagisce al richiamo alle armi scappando dalla caserma e nascondendosi nell’armadio di una stanza d’albergo, dove la madre lo trova in lacrime; una donna viaggia dallo Utah a Washington per avvisare il presidente dell’incombente giudizio universale; un uomo si spoglia davanti a tre ragazze; un ragazzo chiude la sorella fuori dalla porta e le rompe due denti quando tenta di rientrare dalla finestra. Ognuna di queste persone ha fatto qualcosa che vorrà, ovviamente, nascondere agli altri ed avrà motivi per mentire al riguardo.
Il tipo di comunicazioni che mantiene collegati i membri dello staff tende poi ad ampliare le notizie già divulgate dalle cartelle cliniche. Un atto che screditi il degente, accaduto in un momento della giornata e in un settore della comunità ospedaliera, sarà probabilmente riferito a chi controlla altri settori della sua vita ed il paziente si troverà costretto a negare di aver potuto agire in quel modo.
Significativa – come del resto in altre istituzioni sociali – è l’abitudine sempre più frequente di organizzare riunioni a tutti i livelli dello staff, riunioni nelle quali si espongono i diversi punti di vista sui pazienti e si concorda collegialmente la linea di condotta da far loro seguire e quella dello staff nei loro confronti. Un paziente che instauri un rapporto «personale» con un infermiere o che lo renda ansioso accusandolo insistentemente di imperizia, può essere rimesso al suo posto per mezzo della riunione del personale, dove si fa presente e si conferma all’infermiere il fatto che il degente è «malato». In questo senso l’immagine differenziale di sé che ciascuno vede riflessa in coloro che – a vari livelli – gli stanno attorno, viene qui ad essere unificata dietro le quinte, in un unico tipo di approccio: è facile quindi che il paziente si trovi, in questa situazione, come di fronte ad una sorta di coalizione contro di lui, anche se si ritiene sinceramente di fare tutto per il suo bene [18].
Si aggiunge poi il fatto che il trasferimento formale di un paziente da un reparto o servizio ad un altro, avviene abitualmente trasmettendone – in modo informale – le note caratteristiche, e ciò per semplificare il lavoro di colui al quale il paziente viene affidato. Infine, le conversazioni del personale durante il pranzo o la sosta per il caffè, spesso vertono – al più informale dei livelli – sulle ultime prodezze del paziente, dato che qui il pettegolezzo, tipico di ogni istituzione sociale, è intensificato dal fatto che tutto quanto concerne il paziente riguarda, in qualche modo, il personale dell’ospedale. In teoria non dovrebbe esservi ragione alcuna perché tale pettegolezzo non abbia a presentare una visione migliore, piuttosto che peggiore, della persona di cui si parla, a meno che non si affermi che tutto ciò che si dice alle spalle degli assenti, tende sempre ad essere una critica, al fine di mantenere l’integrità e il prestigio della cerchia di persone con cui si sta parlando [19]. Anche se chi parla sembra animato dalle migliori intenzioni, il discorso implica, inevitabilmente, il fatto che il malato non è un uomo “completo”. Per esempio, un coscienzioso terapista di gruppo, veramente partecipe ai problemi dei pazienti, così raccontava ad un gruppo di colleghi al bar:
“Ho avuto all’incirca tre elementi negativi per l’integrazione del gruppo. Uno in particolare, un avvocato [sotto voce] James Wilson – veramente intelligente, che mi rendeva le cose molto penose e che dovevo sempre incalzare a partecipare in qualche modo, a fare qualcosa. Ebbene, stavo proprio disperando quando incontrai il suo terapista che mi spiegò come, dietro a quella sua aria da bluff, avesse un gran bisogno del gruppo: per lui probabilmente il gruppo aveva un significato maggiore di qualsiasi altro beneficio avesse potuto ricavare dall’ospedale. Aveva appunto bisogno di sostegno. Bene, questo mi fece cambiare opinione nei suoi confronti. E adesso è fuori”.
In generale, dunque, gli ospedali psichiatrici provvedono sistematicamente a far circolare su ciascun paziente il genere di informazioni che egli cercherebbe di nascondere e che ogni giorno – in modo più o meno dettagliato – vengono usate per frustrarne le pretese. Al momento dell’ammissione o durante i colloqui diagnostici, gli verranno rivolte domande alle quali – se vorrà mantenere il rispetto di sé – non potrà che dare risposte false e allora gli potrebbe venir rinfacciata quella vera. Un infermiere cui il paziente dia una versione personale del suo passato e della causa del ricovero, può sorridere in modo incredulo e dire «Non è così che l’ho sentita», secondo i criteri psichiatrici che tendono a riportare il malato ad un livello di realtà. Nel caso un paziente si avvicini ad un medico o ad un infermiere nel reparto per domandare un favore o chiedere di essere dimesso, gli si risponde con domande cui non può ribattere dicendo la verità, se non richiamando alla memoria un momento del passato in cui ebbe a comportarsi in modo vergognoso. Quando poi interviene alle discussioni durante la psicoterapia di gruppo, il terapista – nella sua qualità di esaminatore – può tentare di disingannarlo circa l’interpretazione che egli dà al fine di salvare il proprio rispetto di sé, incoraggiandolo invece a giudicarsi come persona da biasimare e che deve cambiare. Nel caso sostenga con il personale o con i compagni di sentirsi bene e di non essere mai stato veramente ammalato, vi può essere qualcuno pronto ad illustrargli dettagliatamente il modo in cui – solo un mese prima – se ne andava pavoneggiandosi come una ragazza; o pretendeva di essere Dio o rifiutava di parlare o di mangiare, o metteva gomma nei capelli.
Ogni qual volta lo staff demolisce le rivendicazioni del degente, il giudizio su ciò che dovrebbe essere una persona e ciò che dovrebbero essere le regole su cui si basano i rapporti sociali fra individui dello stesso livello, induce il paziente a ricostruire nuovamente la sua rappresentazione di sé; ma ogni qual volta lo fa, i criteri custodialistici o psichiatrici su cui lo staff si uniforma possono portare a screditargliela nuovamente.
Sotto queste oscillazioni del “sé” del paziente prodotte dal giudizio degli altri, anche la base istituzionale continua a muoversi in modo altrettanto precario. Contrariamente a quanto si pensa, il «sistema del reparto» consente, soprattutto durante il primo anno di ricovero, un notevole grado di mobilità sociale all’interno degli ospedali psichiatrici [20]. In questo primo periodo, il degente può essere stato trasferito una volta da un dipartimento all’altro, tre o quattro volte da un reparto ad un altro e può essergli stato mutato parecchie altre volte il grado di libertà consentitogli; cambiamenti questi che possono venir da lui vissuti come buoni o cattivi. Ognuno di questi movimenti comporta un drastico mutamento del livello di vita e del materiale a disposizione per costruirsi un certo giro di attività, capace di servire da sostegno al “sé” del paziente; il significato di un tale mutamento equivale – per così dire – al passaggio da una classe all’altra in un sistema di classi più ampio. Inoltre i compagni con i quali il degente è parzialmente identificato, si sposteranno in maniera analoga ma in differenti direzioni e a ritmo diverso, il che non può non provocare in lui sentimenti di mutamento sociale, anche quando non ne sia il diretto protagonista. Come si è già detto, gli stessi criteri psichiatrici possono contribuire ad aumentare le fluttuazioni sociali del sistema del reparto. Una corrente psichiatrica attuale considera, infatti, questi sistemi di reparto come una sorta di «serra» sociale, nella quale i pazienti incominciano la loro carriera come infanti sociali, e la finiscono – entro un anno – come adulti risocializzati in un reparto per convalescenti. Questo modo di interpretare la cosa aumenta sensibilmente il grado di merito e di orgoglio con cui il personale può vivere il proprio ruolo [21] e occorre una notevole dose di cecità – specie ai più alti livelli dello staff – per non dare al sistema del reparto significati diversi, riconoscendolo, ad esempio, come un mezzo per disciplinare, attraverso punizioni e ricompense, persone difficili da governare. Ad ogni modo, questa tendenza alla risocializzazione, può trovarsi a dare un’importanza eccessiva al grado in cui i pazienti dei reparti peggiori sono incapaci di un comportamento socializzato, e al livello in cui i pazienti dei reparti migliori sono invece disposti a partecipare al gioco sociale. Dato che il sistema del reparto è qualche cosa di più di una «camera di risocializzazione», i ricoverati hanno modo di trovarvi molte occasioni per «far disordine» o per mettersi nei pasticci, il che significa molte occasioni per essere retrocessi alla condizione dei reparti meno privilegiati. Questi spostamenti possono essere ufficialmente considerati come ricadute di carattere psichiatrico o slittamenti morali, confermando in ciò l’indirizzo dell’ospedale tendente alla risocializzazione. Secondo un’interpretazione di tal tipo, una semplice infrazione alle regole, con conseguente degradazione sociale, viene dunque vista come l’espressione diretta delle condizioni psichiche del paziente. Analogamente le promozioni – imputabili a sovraffollamento del reparto, al bisogno in un altro reparto di un «paziente-lavoratore», o ad altri motivi irrilevanti dal punto di vista psichiatrico – possono trasformarsi in qualche cosa che risulti come l’espressione profonda delle condizioni psichiche del paziente [22]. Inoltre, lo staff può in qualche modo pretendere che il paziente stesso si sforzi, in modo personale, di guarire in meno di un anno, così che sarà da lui costantemente stimolato a pensare in termini di successo o di fallimento. In questo contesto i ricoverati possono scoprire che, nella loro condizione, le degradazioni morali non sono poi così terribili come avevano immaginato. Dopotutto, infrazioni in grado di provocare un tal tipo di retrocessione, non possono accompagnarsi a sanzioni legali o alla riduzione allo stato di malato mentale, dato che questa è già appunto la loro condizione presente. Inoltre nessun delitto, passato o presente, sembra tanto orrido da far estromettere un malato dalla comunità dei malati. E’ per questo che i fallimenti rispetto ad una condotta normale vengono qui a perdere parte del loro significato stigmatizzante. Infine, accettando la versione data dall’ospedale sulla sua caduta in disgrazia, il degente può decidere di «ravvedersi» ed ottenere così simpatia, privilegi ed indulgenza da parte dello staff che vuole incoraggiarlo in questa sua decisione.
Imparare a vivere costantemente soggetto a smascheramenti e ad oscillazioni su ciò che è il proprio valore (con scarsa possibilità di controllo quando un tale valore gli venga riconosciuto e quando negato) è un passo molto importante nel processo di socializzazione del degente, tale da poter dire qualcosa di veramente significativo su ciò che è un ricoverato in un ospedale psichiatrico. Il fatto di avere i propri errori passati e la situazione presente sotto costante critica morale, sembra richiedere un adattamento particolare che consiste in un atteggiamento – meno morale – verso gli «ideali dell’io» [23]. I propri errori e i propri successi diventano un problema troppo centrale e continuamente contraddetto per permettere che ci si possa preoccupare – in modo normale – del punto di vista degli altri al proposito. Non è molto consigliabile tentare di reclamare qualche fondato diritto personale. Il degente tende ad imparare che non bisogna dare troppo peso alla propria degradazione e alla ricostruzione del proprio valore apprendendo – insieme – che il personale ed i ricoverati sono disposti a guardare con una certa indifferenza all’espandersi e al restringersi del “sé” di un individuo. Apprende che un’immagine giustificabile di sé può essere considerata come qualcosa di estraneo alla persona stessa, qualcosa che può essere costruita, perduta, ricostruita, e tutto ciò con grande rapidità ed una certa indifferenza. Impara così il modo per arrivare ad assumere un punto di vista – e quindi un “sé” al di fuori di quello che l’ospedale può dargli e togliergli.
L’ambiente sembra allora generare una sorta di sofisticazione cosmopolita, di apatia civica. In questo contesto morale, non «serio» anche se assurdamente esagerato, il fatto di costruirsi un’immagine di sé o di vedersela distruggere, diventa parte di un gioco privo di pudori e l’imparare a considerare questo processo – che pure è così vitale – un gioco, sembra favorire un certo scadimento morale. In ospedale il degente può, dunque, apprendere che il “sé” non è una fortezza, quanto piuttosto una cittadella aperta e può disgustarsi di dover continuare a mostrarsi felice quando è nelle mani delle sue truppe, e addolorarsi quando è nelle mani del nemico. Una volta imparato cosa significhi essere definito dalla società come persona che manca di un “sé” vitale, questa minacciosa definizione – minacciosa nella misura in cui è in grado di spingere le persone ad aderire al “sé” che la società concede loro – diventa più debole. Il paziente sembra aver raggiunto un nuovo livello di equilibrio quando ha imparato che può sopravvivere se agisce in un modo che la società giudica lesivo per lui stesso [24].
Si potrebbero dare qui alcuni esempi di scadimento e di rilassamento morale. Negli ospedali psichiatrici di stato sembra comunemente accettata, da parte dei degenti, e più o meno tollerata dal personale, una sorta di «moratoria matrimoniale». Se un paziente «corteggia» contemporaneamente più di un partner, si può assistere ad una certa pressione informale nei suoi confronti da parte dei compagni; ma lo stringere una relazione, temporaneamente costante, con un membro dell’altro sesso, sembra provocare solo scarsa disapprovazione, anche se si sa che entrambi sono sposati, hanno figli e perfino ricevono regolarmente le visite dei coniugi. Negli ospedali psichiatrici, insomma, c’è la libertà di ricominciare a corteggiarsi, beninteso però che non ne risulti nulla di serio e permanente. Come gli amori che nascono a bordo delle navi o in vacanza, questi legami testimoniano in che modo l’ospedale è tagliato fuori dalla realtà esterna, diventato ormai un mondo a sé, che funziona a beneficio dei suoi stessi cittadini. Indubbiamente un tal tipo di «moratoria» è espressione del distacco e dell’ostilità che i degenti avvertono verso coloro ai quali erano strettamente legati prima del ricovero. Ma, oltre a questo, è anche l’evidenza del rilassamento morale che deriva dal vivere in un mondo all’interno del mondo, in condizioni che rendono difficile riconoscere la piena serietà dei valori, sia dell’uno che dell’altro.
Il secondo esempio riguarda il sistema del reparto. Al livello del reparto peggiore, pare siano frequenti fatti disdicevoli, causati in parte dalla mancanza di opportunità di vita, in parte dagli scherni e dal sarcasmo che sembrano essere la regola su cui si fonda il controllo sociale del personale addetto ai reparti. Nel contempo, la scarsità di attrezzature e di diritti cui rifarsi corrisponde alla limitata possibilità, data al degente, di ricostruirsi un “sé”. Egli si trova così costantemente sul punto di perdere l’equilibrio, avendo a disposizione uno spazio ristrettissimo dove poter cadere. In alcuni di questi reparti pare si sviluppi una specie di umorismo macabro, con notevole libertà da parte dei degenti di far fronte al personale, rendendo offesa per offesa. Se questi pazienti possono essere puniti, non è infatti altrettanto facile che possano venire ad esempio disprezzati, dato che godono di ben pochi privilegi per poter essere feriti da qualche offesa sottile. Come per le prostitute in ciò che riguarda il sesso, i ricoverati in questi reparti hanno ben poco da perdere in reputazione e diritti, per cui possono permettersi anche certe libertà. Ma, man mano che si sale a livelli superiori nel sistema dei reparti, il degente può riuscire, a poco a poco, ad evitare gli incidenti che possano frustrare la sua pretesa ad essere uomo, e ad acquistare un numero sempre maggiore di elementi diversi che possano portare alla ricostruzione del rispetto di sé. Ma se infine si troverà a cadere – e questo succede – la caduta lo farà precipitare molto più in basso. Il degente privilegiato, per esempio, vive in una dimensione più ampia di quella definita dai limiti del reparto. E’ il mondo costruito dai terapisti addetti alle attività ricreative, i quali possono – su richiesta – concedere dolci, carte da gioco, palline da ping-pong, biglietti per il cinema, carta da lettere. Dato però che questi privilegi non si pagano – e il pagamento è, nel mondo esterno, il mezzo di controllo sociale esercitato da chi ne riceve qualcosa in cambio – il degente corre il rischio che anche un esponente dello staff di buon cuore possa, ad una sua richiesta, umiliarlo dicendogli di aspettare che finisca di parlare, o molestarlo continuando a chiedergli ragione di ciò che ha domandato, o rispondergli con un lungo silenzio e con uno sguardo freddo di valutazione [25].
Lo spostarsi in un senso o nell’altro all’interno del sistema del reparto, non ha dunque soltanto il significato di una rotazione delle risorse disponibili per costruirsi il “sé”, un significato per la condizione che ne deriva, ma anche quello di un cambiamento nel calcolo dei rischi. La valutazione dei rischi su ciò che riguarda il concetto di sé fa parte dell’esperienza morale di ognuno; ma arrivare a comprendere che un dato livello di rischio non è che un dispositivo sociale, rappresenta un tipo di esperienza più raro, tale da contribuire a disincantare la persona che lo prova.
Un terzo esempio di rilassamento morale lo si nota a proposito delle condizioni in cui spesso il malato si trova al momento della dimissione. Egli viene dimesso sovente sotto il controllo e la responsabilità giuridica della “persona di fiducia” o di un datore di lavoro, scelto appositamente e particolarmente vigile. Se il paziente fa qualcosa che non va mentre si trova sotto la loro protezione, essi potranno ottenerne l’immediata riammissione in ospedale. Ciò significa che il paziente viene a trovarsi sotto il potere speciale di persone che, normalmente, non avrebbero su di lui questo tipo di potere e verso i quali potrebbe, inoltre, aver avuto precedenti motivi di acredine. Tuttavia, per poter uscire dall’ospedale, può nascondere il suo malcontento al riguardo e farsi vedere disposto – almeno finché non sia stato cancellato con certezza dalla lista dei degenti – ad accettare un tal tipo di custodia. Queste procedure per la dimissione forniscono quindi un esempio esplicativo di come si possa assumere in modo esplicito un ruolo, evitando quelle che sono le implicazioni personali dell’accordo; il che sembra aumentare maggiormente la distanza che separa la persona dal mondo che gli altri prendono tanto sul serio [26].
La carriera morale di un individuo di una data categoria sociale implica un susseguirsi standardizzato di mutamenti nel modo di giudicarsi includendo – in maniera significativa – il modo di concepire il proprio “sé”. Questo processo quasi sotterraneo può essere seguito studiando le sue esperienze morali – cioè i fatti che segnano una svolta nel modo in cui egli considera il mondo – sebbene sia difficile stabilire le particolarità di questo modo di concepirlo. Si prende nota di tattiche e strategie evidenti, vale a dire delle posizioni prese dal soggetto in esame, di fronte a determinate altre persone, qualunque sia la natura nascosta e variabile della sua adesione interna a queste posizioni da lui assunte. Prendendo nota di esperienze morali o di prese di posizioni personali apertamente sostenute, si può ottenere un tracciato relativamente obiettivo di questioni relativamente soggettive.
Ogni carriera morale, e, dietro ad essa, ogni “sé” si svolge entro i confini di un sistema istituzionale, sia esso una istituzione sociale come un ospedale psichiatrico o un complesso di rapporti personali e professionali. Il “sé” può essere quindi visto come qualcosa che risiede nel sistema di accordi che prevale in una società. In questo senso esso non risulta di proprietà della persona cui viene attribuito, ma risiede piuttosto nella dinamica del controllo sociale esercitato su di lei, dalla persona stessa e da coloro che la circondano. Questo tipo particolare di ordinamenti istituzionali, più che servire di sostegno al “sé” lo costituisce.
In questo articolo sono stati presi in considerazione due tipi di ordinamenti istituzionali, per puntualizzare ciò che accade quando queste regole vengono a mancare. Il primo riguarda la fedeltà della “persona di fiducia”. Il “sé” del predegente è descritto come una funzione del modo in cui sono messi in relazione tre ruoli, aumentando e diminuendo il tipo di legame che esiste fra la “persona di fiducia” e i mediatori. Il secondo riguarda la protezione necessaria per la costruzione di un’immagine di sé da presentare agli altri e il modo in cui il progressivo venir meno di questa protezione può costituire un aspetto sistematico, se non intenzionale, del funzionamento di un istituto. Desidero sottolineare che questi sono solo due tipi di ordinamenti le cui regole incidono nella formazione del “sé”; altri che non sono stati considerati in questo articolo, sono tuttavia altrettanto importanti.
Nel ciclo normale di socializzazione seguito dall’adulto, ci si aspetta che dopo l’alienazione e la mortificazione segua un nuovo insieme di credenze riguardo al mondo ed un nuovo modo di concepire se stessi. Nel caso del degente dell’ospedale psichiatrico, questa rinascita avviene qualche volta prendendo la forma di una incrollabile fiducia nelle prospettive psichiatriche o, almeno per qualche tempo, nell’impegno sociale a trovare un trattamento migliore per il malato mentale. La sua carriera ha, tuttavia, un interesse unico poiché può evidenziare la possibilità che il malato – nello spogliarsi dell’abito del vecchio “sé”, o nel vederselo strappare – non ne abbia a cercare uno nuovo e non debba adoperarsi per trovare un nuovo pubblico di fronte al quale nascondersi. Può, al contrario, imparare, almeno per un certo tempo, a praticare di fronte a tutti i gruppi l’arte amorale della spudoratezza.
COMMENTO DI FRANCA BASAGLIA ONGARO.
1. La limitazione del problema alla sola prospettiva sociologica, è ciò che può rivelare il ruolo relativo giocato dalla malattia nel processo di istituzionalizzazione del malato mentale. L’analisi di Goffman evidenzia, infatti, il processo di graduale limitazione e restringimento di sé al quale è costretto il malato mentale dal momento in cui è “ufficialmente” riconosciuto come malato; processo la cui evoluzione risulta staccata dalla malattia che si trova qui a giocare un ruolo puramente casuale.
La tecnica della «messa fra parentesi» della sindrome di cui il malato è affetto, può risultare dunque utile anche a livello psichiatrico, se si voglia riuscire ad individuare quale parte – nel disastroso processo di demolizione personale tipica del degente nel ricovero psichiatrico – sia imputabile all’azione dell’istituto e quale alla malattia. Questo tipo di prospettiva presenta il vantaggio di consentire di avvicinare il problema senza preconcetti o etichettamenti che ne possano falsare il significato, dato che non esiste una classificazione sociologicamente codificata del mondo istituzionale psichiatrico che abbia la rigidità della classificazione nosografica delle sindromi.
Del resto l’esempio di altre situazioni concentrazionali e l’analisi dei loro risultati, presentano una base comune – uno stereotipo di vita, di relazioni e di reazioni – che, non potendo essere imputato alla malattia mentale, non può che essere motivato dalla comune vita concentrazionale. Un approccio sociologico al problema si rivela quindi utile se si voglia chiaramente comprendere se il malato mentale sia ciò che è in quanto malato mentale, o in quanto costretto ad una vita concentrazionale. Il che potrebbe essere di enorme interesse per ciò che concerne la malattia mentale e l’immagine, tuttora in uso, che di tale malattia è stata costruita.
Se essa non è il solo elemento che porta alla totale disintegrazione dell’uomo, l’indagine di ciò che è l’azione dell’istituto sul malato e del potere del giudizio esclusorio di chi lo circonda, potrebbe mettere a nudo quello che sarebbe la malattia se non fosse già precedentemente fissata in un giudizio irreversibile, dato una volta per tutte.
In questo senso l’analisi sociologica della vita istituzionale psichiatrica potrebbe risultare chiarificatrice per ciò che concerne il significato di alcuni sintomi di malattia, una volta che essi venissero riconosciuti prodotti dal livello coercitivo e arbitrariamente autoritario della comunità ospedaliera. Una tale verifica sarebbe attuabile attraverso l’analisi del rovesciamento avvenuto in una comunità psichiatrica prevalentemente aperta, dove il nuovo clima istituzionale abbia già modificato lo stato del degente liberandolo – ad un certo grado – delle sovrastrutture impostegli dal processo di istituzionalizzazione.
2. Su questo principio si basa l’istituzione psichiatrica di tipo comunitario. Il raccorciamento delle distanze che separano i diversi ruoli all’interno dell’organizzazione ospedaliera (malati, infermieri e medici) si impone, originariamente, come primo passo indispensabile nel momento in cui si tenda ad una reciprocità di rapporto a tutti i livelli. Una volta in atto, però, esso agisce in profondità, nel senso che ogni membro della comunità si trova – seppure entro i limiti del suo ruolo – a partecipare direttamente della situazione degli altri, imparando a conoscerla nella sua realtà e non nell’immagine riflessa ed estranea che la “distanza” ne può rifrangere. In questo caso la lontananza verrebbe ad avere la funzione di uno spazio in cui si possono proiettare i propri meccanismi di difesa di fronte all’abnorme, al mostruoso, a ciò che non si conosce: il che servirebbe di schermo per rendere ancor più estranea la situazione intravista a distanza.
Le riunioni o assemblee generali che si svolgono in un ospedale di tipo comunitario, verrebbero quindi ad agire come occasioni nelle quali i diversi livelli che costituiscono la vita ospedaliera si trovano a fondersi o comunque ad affrontarsi: ciascuno nella possibilità di conoscere le modalità di vita dell’altro ed il loro significato. In questo modo si tende a ridurre (o almeno a dialettizzare) il persistere di tecniche esclusorie quale quella del “capro espiatorio” che, all’interno dell’ospedale, si concreta nella distanza qualitativa fra un gruppo di malati “liberi” e la categoria dei submalati in cui i primi tendono a racchiudere il “male” da cui vogliono salvarsi.
L’esistenza di reparti ancora chiusi all’interno dell’organizzazione ospedaliera ed il modo in cui essi sono vissuti dai malati “liberi”, rivela la possibilità di meccanismi opposti:
a) Ad un grado di maturità ancora scarso, il reparto chiuso (posto a distanza e quindi concretato agli occhi del degente come diverso) può essere vissuto come la testimonianza della propria “diversità” nei confronti del malato più grave che necessita di essere rinchiuso in un reparto con maggiori garanzie di tutela. In un certo senso, il livello di integrità del malato “libero” sarebbe confermato dall’esistenza di un livello peggiore cui egli non partecipa: ciò si concretizzerebbe ai suoi occhi come la garanzia dell’integrità del gruppo cui appartiene, con il conseguente costituirsi di un senso di appartenenza, sconosciuto in regime asilare di tipo tradizionale. Se questo senso di appartenenza può risultare positivo all’inizio del processo di riabilitazione del malato, esso si mantiene però nei limiti di una reazione vendicativa, dove l’elemento più significativo è rappresentato dall’esistenza di un valore inferiore al proprio, il cui riconoscimento serve di garanzia al proprio valore.
Ci si manterrebbe dunque ancora in pieno terreno razzista, nel senso che la propria affermazione di sé è data soltanto dal fatto di riconoscere (se non proprio di creare) l’esistenza di un livello di vita inferiore a quello di chi giudica. Il che è, comunque, uno dei meccanismi abituali nei rapporti interpersonali e non certo tipico del malato mentale.
b) Ad un successivo grado di maturità, la consapevolezza delle privazioni subite e del livello di coercizione sopportato nei reparti chiusi, porta il malato che gode ormai di una certa libertà a comprendere la situazione del degente ancora “prigioniero”, in modo da rifiutarla in suo nome. Ma una comprensione di tal natura, risulta possibile solo qualora l’ammalato “libero” abbia raggiunto un grado di consapevolezza del proprio valore personale (e quindi un grado di integrazione di sé), capace di sussistere senza bisogno di essere confermato dal confronto con altri. Il che è, in fondo, difficilmente riscontrabile in una società ad alto livello competitivo, anche nei rapporti normali dove, molto spesso, il proprio valore risulta costruito solo in rapporto al valore o al giudizio altrui.
c) Il persistere della dimensione manicomiale – seppure notevolmente ridotta – all’interno di una organizzazione comunitaria, agisce tuttavia come l’avallo da parte dell’organizzazione stessa dei meccanismi di esclusione attuati dai malati “liberi” nei confronti di quelli coatti.
Pur servendo questo confronto di occasione per la dialettizzazione comunitaria di tali processi, non si può negare che il fatto stesso che questa dimensione manicomiale sussista, confermi all’interno della struttura ospedaliera l’esistenza di una differenziazione qualitativa.
Il malato “libero” vive infatti una situazione ambivalente dato che, all’interno dell’ospedale, gode di una certa libertà ed autonomia, continuando però – contemporaneamente – a mantenere il ruolo di escluso nei confronti del mondo esterno. Si trova dunque a subire l’atto di esclusione della società che lo relega nello spazio a lui dedicato, dove la esistenza di un livello peggiore al proprio gli dà la possibilità di affermarsi per confronto, vendicando il rifiuto subito dall’esterno.
In questo senso la scomparsa di zone in cui poter concentrare ciò che il malato rifiuta in sé, può agire come l’inizio della distruzione di un meccanismo di tal genere, facendo spostare il rifiuto della propria condizione, dall’oggetto su cui viene abitualmente concretato, al soggetto che lo determina: la società come responsabile di questa esclusione originaria. Ciò significa che può, in questo modo, essere messo in discussione e razionalizzato lo stesso processo messo in atto dalla società nei confronti del malato di mente, e ciò da parte del malato stesso che viene così acquistando una sempre maggior consapevolezza della propria identità e del proprio rapporto con il reale. L’esistenza del malato ad un livello inferiore al proprio, pare invece mantenere confuso in una certa ambiguità il ruolo del malato “libero”, che può trovare più facilmente le sue gratificazioni nell’affermarsi sul debole, che non nel combattere il forte.
Questi meccanismi – che si rivelano mescolati e confusi a seconda del diverso grado di maturità – sono comunque tipici di ogni rapporto interpersonale e non particolari del mondo malato. Se è dunque riconosciuto che la società mantiene ancora nei confronti di questa categoria di malati il suo giudizio di tipo esclusorio, non è poco che una comunità psichiatrica tenda a sviluppare nei ricoverati – attraverso la comprensione e la dialettizzazione della loro situazione – una presa di coscienza della realtà, capace di far mettere in discussione uno dei processi fondamentali su cui si basano abitualmente i rapporti interpersonali.
3. Questo implica, naturalmente, 1a netta distinzione fra ciò che è normale e ciò che non lo è, fra un male ed un bene stabilito al di fuori della propria misura personale, il cui valore ha assunto un carattere dogmatico e definitivo. La “norma” è dunque un limite entro cui l’uomo sa di dover vivere, tanto che il superarlo può scatenare in lui crisi violente di disadattamento dovute non tanto allo stato emotivo in cui si trova, quanto all’ansia che gli provoca la consapevolezza dell’abnormità della sua condotta, rispetto ad un valore medio accettato e riconosciuto come unico e definitivo.
Si tratterebbe qui di una sorta di “ideologia della norma” i cui valori non hanno più nulla di personalmente vissuto, ma alla quale tutti tendono ad uniformarsi per sfuggire all’ansia di trovarsi soli, al di fuori di ogni schema. Il fatto che i primi sintomi di alterazione psichica non siano ritenuti di grave entità da parte dello psichiatra – così come più oltre afferma Goffman – e che questa rassicurazione non incida minimamente su chi ne soffre, comprova quanto si va qui affermando. Oltre all’azione degli stereotipi culturali che riconoscono un carattere di gravità ai sintomi riferiti da Goffman come l’udire voci o l’avere allucinazioni, è evidente che esiste un limite, varcato il quale l’uomo si trova in balia di se stesso, senza le necessarie implicite rassicurazioni del gruppo cui appartiene. La percezione di aver varcato questo limite e di trovarsi solo di fronte alle proprie esperienze, potrebbe essere l’occasione allo scatenarsi di uno stato d’ansia che, una volta messo in moto, creerebbe un circuito difficilmente arrestabile.
4. L’analisi della «carriera morale» del malato mentale è infatti l’analisi del graduale processo di esclusione di cui è oggetto dal momento nel quale viene individuato come “malato”. Un tale processo si muove a più livelli, costantemente interagenti fra di loro, causa e nello stesso tempo effetto l’uno dell’altro: l’esclusione che il malato fa del reale e l’esclusione che il reale fa ai danni del malato. Il retrocedere del reale agli occhi del paziente psichiatrico è, infatti, confermato dal restringimento dello spazio vitale che gli viene concesso, tanto che alla fine di un simile processo – di fronte al malato istituzionalizzato dei ricoveri psichiatrici – non si è in grado di riconoscere fino a qual punto abbia agito la malattia o la realtà dell’internamento.
Che il malato mentale sia soprattutto un “escluso” è del resto confermato dalla motivazione originaria alla sua reclusione: «Pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo». Così viene definito al momento del suo ingresso in ospedale, non tenendo evidentemente conto del suo essere un soggetto che soffre di una particolare malattia, ma solo del fatto di essere la personalizzazione oggettuale di ciò di cui la società ha paura. Un giudizio tanto relativo che, implicitamente, riconosce l’impotenza dello psichiatra di fronte alla malattia mentale nel suo definirla «incomprensibile» e quindi «pericolosa», ha tuttavia portato a conclusioni tanto assolute come quelle che, dalla definizione di «pericolosità» del malato, sono venute a determinare la natura dello spazio in cui doveva essere circoscritto. Ciò perché l’incertezza dello psichiatra veniva a coincidere con il bisogno della società di accantonare in qualche modo il problema che non era in grado di affrontare direttamente.
«Di fronte alle sue paure e alla necessità di assumersi le proprie responsabilità, l’uomo tende ad oggettivare nell’altro la parte di sé che non sa dominare: ad escludere l’altro che ha in sé come sua contingenza. E’ un modo di negarla in sé, negando l’altro; di allontanarla, escludendo i gruppi in cui è stata oggettivata… è la scelta di un mondo manicheo dove la parte del male è sempre recitata dall’altro, appunto dall’escluso; dove solo in questo escludere affermo la mia forza e mi differenzio» (F. Basaglia e F. Basaglia Ongaro, “Un problema di psichiatria istituzionale”, in «Riv. sper. di fren.», vol. 90, fasc. 6, 1966).
Questo concetto dell’esclusione come proiezione ed oggettivazione nell’altro di ciò che si rifiuta in sé, è fondamentale nella comprensione della carriera del malato mentale. L’istituzione è stata creata, infatti, essenzialmente a tutela dei sani, quindi con l’evidente finalità di accogliere – in una dimensione costruita per loro – gli esclusi dalla società che, nel momento in cui isola in uno spazio concreto le proprie contraddizioni, può continuare ad illudersi di essere al sicuro. Ciò però le richiede di erigere contro i suoi stessi membri e quindi nel suo stesso seno, barriere che siano in grado di proteggerla da quella realtà che continua a negare, altrimenti essa potrà minare la solidità del sistema su cui poggia.
La storia della psichiatria ne fa, del resto, testimonianza come, in altro campo, sono testimonianza di questo stesso tipo di “esclusione” gli esempi più recenti e clamorosi dei campi di eliminazione nazisti o la condizione dei colonizzati.
L’analisi di Goffman del ricoverato negli ospedali psichiatrici o quella di Franz Fanon sulla condizione del negro, o quella ancora, di Primo Levi sul prigioniero dei campi di eliminazione nazisti, parlano tutte lo stesso linguaggio perché si riferiscono tutte allo stesso fenomeno.
Quando Goffman dice: «La carriera del predegente può essere ritenuta un modello di esclusione: egli si presenta come un uomo dotato di diritti e di legami con il mondo, di cui, già all’inizio del suo soggiorno in ospedale, non rivela quasi più traccia». Primo Levi risponde: «Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere se stesso» (“Se questo è un uomo”, Silva, Torino 1947). Franz Fanon incalza: «E’ il colono ad aver fatto e a continuare a fare il colonizzato… fin dalla nascita è chiaro per lui che quel mondo ristretto, cosparso di divieti, non può essere ripreso in esame se non attraverso la violenza assoluta… il mondo coloniale è un mondo a scomparti… l’indigeno è un essere chiuso in un recinto, l’apartheid non è che una modalità della divisione in scomparti del mondo coloniale» (“I dannati della terra”, trad. di Cignetti, Einaudi, Torino 1962).
Prescindendo dalla malattia in sé, è evidente che si tratta qui del medesimo fenomeno di esclusione; il che significa che quando si parla della condizione asilare del malato mentale, la malattia si trova ad avere un valore puramente accessorio nel processo di ciò che Primo Levi chiama la «demolizione» dell’uomo e D. Vail (“Dehumanization and the Institutional Career”, Charles e Thomas Publishers, Springfield [Ill.] 1966) la «disumanizzazione» cui si assiste.
In questo senso la presa di coscienza, da parte dell’escluso, del suo essere stato rifiutato da una società che ha visto nei sintomi di cui soffriva (o nel colore della pelle) solo la pericolosità per sé, può risultare il punto di partenza per la comprensione da parte del malato (così come del colonizzato e del prigioniero) del suo ruolo reale, che gli appare per la prima volta libero da ogni significato di malattia (o di inferiorità). Questa presa di coscienza del reale, del proprio ruolo di escluso, può essere l’avvio ad una presa di coscienza da parte del malato nei confronti della malattia stessa, dato che in questa sua opposizione o contestazione all’esclusione, egli va acquistando un graduale rafforzamento dell’io la cui demolizione era stata attuata dal processo di istituzionalizzazione.
Un esempio della dialettica esclusione-contestazione è riscontrabile nel tema trattato in una riunione di comunità. La discussione generale verteva sulla morte dei malati e sul fatto che l’intera comunità ospedaliera non ne fosse messa al corrente, come è d’uso nella zona, con un tocco di campana per le donne, due tocchi per gli uomini. La cosa non giustificava tuttavia la partecipazione emotiva dei ricoverati all’argomento, finché non si evidenziò che il silenzio che accompagnava la morte di un compagno li faceva sentire accomunati all’unica morte che non viene annunciata con i tocchi di campana: quella del suicida che riconoscevano, in qualche modo vicino nel suo essere escluso dalla realtà, tanto da volersene escludere volontariamente.
Il prendere coscienza di una tale situazione (dell’essere cioè trattati alla stessa stregua dei suicidi) aveva provocato in un primo tempo un livello di mortificazione generale, concretatosi in lunghi silenzi pieni di significato. Finché la tensione si sbloccò nella conferma del precedente rifiuto di non essere accompagnati dal tocco di campana dopo la morte, rifiutando in ciò di essere considerati concretamente degli esclusi da accomunarsi ai suicidi.
L’esempio, didatticamente valido, della dialettica esclusione-contestazione ha, quindi, evidenziato la possibilità, attraverso un tale processo, del ricupero, da parte dei membri della comunità, dello stato di mortificazione in cui la presa di coscienza del loro ruolo reale li aveva lasciati.
5. La suddivisione sociologica delle varie categorie con cui quello che diventerà un malato mentale si trova in contatto (gli accusatori, i mediatori e i tecnici professionali) sembra molto importante per ciò che riguarda il loro diverso modo di viverlo.
E’ qui il caso di puntualizzare una situazione che sarà analizzata più oltre: «l'”accusatore” non agisce abitualmente in veste professionale» e la sua accusa ha un peso ancora relativo nella carriera del malato mentale. Ciò che invece pare determinante, se non ancora definitivo, è l’incontro con i “mediatori” che corrisponderebbero alla prima categoria professionale, con un ruolo tecnico da esplicare, in cui si imbatte la persona psichicamente disturbata, prima di essere stigmatizzata scientificamente.
Sembra interessante notare come, in questa trafila che porta il predegente al ruolo di degente, l’incontro del malato con il professionista, il tecnico, sembri il momento in cui il suo destino viene segnato. Fino a questo momento, infatti, egli riesce a mantenere con gli altri un tipo di rapporto in cui gli si riconosce ancora un ruolo personale: il datore di lavoro che si lamenta delle sue stranezze, il familiare che lo colpevolizza per il suo comportamento, stanno ancora pretendendo da lui qualcosa il cui ottenimento lo manterrebbe ai loro occhi su un terreno d’uguaglianza. Il lamentarsi di un comportamento presume il ritenere la possibilità che un tale comportamento venga modificato in seguito al proprio intervento, tenendo conto, contemporaneamente, delle ragioni che verranno opposte a spiegazione o a giustificazione del comportamento stesso.
Ma il tecnico (il mediatore prima e il professionista specialistico dopo) sembrano invece strappare il malato da questo rapporto ancora personale (con la possibilità di una reciproca aggressività e di una reciproca difesa in esso implicite), per fissarlo in un ruolo oggettuale, nel momento in cui diventa l’oggetto della loro ricerca e della loro cura. Nei suoi rapporti con i mediatori difficilmente il malato viene contraddetto o rimproverato: la realtà comincia, già molto prima del suo internamento definitivo, ad apparirgli ambigua e gradualmente sempre più aproblematica, nel senso che se originariamente egli voleva – attraverso acting-out qualche volta apparentemente ingiustificati – contestare il mondo, ora è il mondo stesso a venirgli incontro lasciandosi contestare in modo irreale. Questa azione del mediatore e del tecnico assume così il significato di un giudizio che definisce e nello stesso tempo de-responsabilizza il comportamento del malato, aiutandolo a staccarsi dal reale il cui confronto è per lui tanto problematico.
Quando questo giudizio tecnico sia stato formulato, il malato cessa di essere vissuto da chi lo circonda come un problema costante che richiede costanti prese di posizione reali, per diventare un fantasma, liberato di volta in volta da ogni vincolo di responsabilità e di consapevolezza. Il che non può non agire sul malato come la dimostrazione che, il fatto di essere stato riconosciuto “malato” dai tecnici, lo autorizza a regredire perdendo ogni controllo sulla propria vita.
Questo processo di oggettivazione del malato nel momento del suo incontro con il «mondo tecnico», sembrerebbe del resto ricalcare ciò che è già accaduto nella evoluzione storica della malattia mentale.
Fintantoché la malattia mentale era considerata una delle modalità umane con cui l’uomo conviveva, esisteva fra la società e i malati un rapporto del tipo di quello ora esaminato fra il malato e l'”accusatore”: una partecipazione all’abnorme attraverso una vita comune, in cui il malato conserva agli occhi della società, il suo carattere contraddittorio, così come lo conserva la realtà agli occhi del malato (confronta al proposito M. Foucault, “La storia della follia”, Rizzoli, Milano 1963 e Gregory Zilboorg, “Storia della psichiatria”, Feltrinelli, Milano 1963). Ma, dal momento in cui la scienza lo ha individuato come oggetto di ricerca, lo ha fissato in modo così definito nel suo nuovo ruolo di “diverso”, da dover creare uno spazio per lui dove questa sua diversità avrebbe trovato conferma. La realtà del malato, così come la realtà dell’istituzione costruita per lui, si sono trovate a muoversi in una sola dimensione, dove le contraddizioni o erano eliminate o venivano inglobate e definite nei sintomi della malattia. Esattamente come succede nel rapporto fra quello che sarà il malato e la categoria dei mediatori e dei tecnici che, nella individuazione della malattia, esplicano il loro ruolo e trovano un significato alla loro azione.
6. Il fatto che i “mediatori” non giudichino gli ospedali psichiatrici luoghi di esilio forzato, ma istituzioni sanitarie, merita qui una precisazione.
Non si tratta né di un «errore di giudizio», né di un tradimento ai danni del malato, ma di un meccanismo del tutto diverso. I mediatori sono investiti del loro ruolo professionale che li porta a credere nella validità delle istituzioni da cui dipendono, per garantirsi la validità della propria azione. Dubitare delle istituzioni, equivarrebbe a dubitare di sé; così come riconoscerne il valore, equivale ad incorporarlo in se stessi come suoi diretti artefici.
In questo senso i mediatori (per lo più specialisti: polizia, clero, medici generici, psichiatri, personale di cliniche, legali, assistenti sociali, insegnanti scolastici eccetera, come Goffman li definisce) sono i mandati della società che – per mezzo delle istituzioni da cui dipendono – cerca di risolvere i problemi di un dato settore. Il loro ruolo è dunque originariamente ambiguo, nell’essere legati ad una istituzione per mezzo della quale si affermano personalmente, e nell’agire insieme come espressione della società che affida loro un dato mandato.
Ciò comporta da parte loro una totale adesione all’istituzione, il che corrisponde all’avallo incondizionato delle sue regole: si tende cioè a riconoscere come buone e valide situazioni che, in realtà, lo sarebbero solo in parte, unicamente perché vi si partecipa con un ruolo preciso che deve essere a tutti i costi mantenuto.
E’ dunque ovvio che il giudizio, e quindi l’atteggiamento dei mediatori nei confronti degli ospedali psichiatrici, sia decisamente positivo, quanto quello del pubblico è negativo. Per i mediatori ne va del loro prestigio: fuori dall’ingranaggio dell’istituzione di cui si sentono un elemento determinante, cadrebbero nel vuoto – completamente persi nella loro stessa identità. Il pubblico invece – per cui l’istituzione è preparata – la subisce senza ricavarne alcun compenso, né reale né psicologico, e vede quindi la situazione senza schermi o diaframmi. E’ tuttavia vero che i mediatori potrebbero, a loro volta, trovarsi nella situazione di dover essere ricoverati, il che naturalmente li porterebbe a modificare il loro giudizio sull’istituzione. La loro selezione professionale si trova però a corrispondere ad una categoria sociale che abitualmente sfugge al ricovero coatto, trovando altre soluzioni meno drastiche e meno distruttive.
E’ solo se la realtà istituzionale psichiatrica muta, che muterà nel pubblico il preconcetto che l’ospedale psichiatrico sia «un luogo di esilio forzato», dato che questo preconcetto proviene dall’esperienza reale che il pubblico fa durante l’ospedalizzazione propria o di un parente. Le attestazioni dei mediatori o dei tecnici circa la perfetta efficienza dell’istituzione, non riusciranno certo a smuovere un tale pregiudizio che, per il momento, risulta molto più vicino alla realtà, di quanto non siano le ideologiche sicurezze dei tecnici.
7. Si è già puntualizzato l’ammorbidirsi della realtà attorno a colui che è stato individuato come un malato mentale.
La descrizione di Goffman circa il tipo di rapporto che il malato può incontrare, evidenzia come il mondo si vada facendo attorno a lui sempre più aproblematico ed irreale. Un suo atto di protesta o di provocazione non ha più mordente, come se all’improvviso non trovasse più una realtà da scalfire e su cui lasciare il segno della sua presenza. Dal momento in cui è stato individuato come “malato”, proprio per il suo disturbato rapporto con il reale, egli risulta non soltanto l’oggetto di una congiura nel senso che lo si spinge verso l’ospedalizzazione, ma l’oggetto di una serie di rapporti irreali, a-contraddittori che contribuiscono a confermare la frattura già in atto fra il malato e la realtà.
Così come, “prima”, il mondo doveva presentarsi ai suoi occhi in tutta la sua greve problematicità, tale che egli non era riuscito a farvi fronte; ora si sente, invece, immerso in una realtà lievissima, dove vengono prospettate veloci soluzioni per tutto, che non possono non apparirgli come una rete tesa per prenderlo in trappola.
Questo capovolgersi della realtà è il momento decisivo nel quale il “malato” è definitivamente oggettivato nel suo nuovo ruolo. Postosi come problema di fronte alla realtà, è la realtà a rifiutarlo come problema, ammorbidendone tutte le contraddizioni per poter facilitare la sua ospedalizzazione. Una volta entrato in ospedale psichiatrico, si troverà in un mondo ad una sola dimensione dove l’aproblematicità della sua esistenza verrà data per scontata, poiché vengono esplicitamente negati tutti gli elementi che potrebbero farla sussistere.
Si ritorna qui, ancora una volta, al significato dell’incontro del malato con il «mondo tecnico», dove ogni valore personale viene trasceso e giustificato nella malattia, quindi non più contraddetto o contestato. Il che significa che viene completamente negato.
8. L’istituto in questo modo si trova a coinvolgere nella sua azione anche la “persona di fiducia” che viene delegata a tutelare gli interessi del malato. Nel momento in cui – dal ruolo socialmente indifferente che ricopriva – le viene affidato un ruolo ufficiale (come tutore o “guardiano”) le si richiede, implicitamente, di partecipare all’azione regressiva sul degente «incitandolo a sperare, non dando seguito alle sue proteste o rassicurandolo sulle capacità tecniche dei sanitari». Il che non può che portare la “persona di fiducia” a stabilire con il malato il rapporto di tipo aproblematico ed oggettivante che l’istituto ha già stabilito.
Il degente viene così a trovarsi in una posizione ambivalente nei confronti del suo “guardiano”. Da un lato lo vive come un prolungamento dell’istituto nel senso che – pur agendo egli apparentemente nell’interesse del suo protetto – si muove in realtà per l’istituzione e per il suo buon andamento. Dall’altro egli rappresenta ancora l’unico legame con il mondo da cui il degente è stato tagliato fuori e quindi può essere, ai suoi occhi, la dimostrazione del suo possedere ancora un linguaggio comune ed un comune terreno d’intesa e di valori con la realtà esterna. In questo senso il malato si troverebbe nella necessità di identificarsi con il “guardiano” attraverso un rapporto fantasmatico che gli consenta di trascendere la propria situazione per riuscire a sopportarla.
«Bettelheim (B. Bettelheim, “The Informed Heart”, The Free Press, Elencoe 1960) e Steiner (J. D. Steiner, “Treblinka”, Fayard, Paris 1966) sostengono un analogo punto di vista per quanto riguarda la sopravvivenza di internati in campi di eliminazione nazisti, attraverso l’adesione fantasmatica ai valori dei dominatori, adesione che veniva quasi a giustificare la situazione di completa soggezione in cui doveva vivere». (F. Basaglia e F. Basaglia Ongaro, “Un problema di psichiatria istituzionale” cit.).
Il fatto che, solitamente, i malati più regrediti siano quelli che i parenti (in veste di persone di fiducia, di guardiano o di tutore) non vengono più a visitare, evidenzia l’ambivalenza di questo rapporto che – pur essendo oggettivante in quanto strettamente legato al mandato dell’istituto – agisce ancora sul malato come l’unico richiamo possibile alla realtà e come la presenza nella sua vita di un valore altrui capace di dare un significato alla sua attesa ed uno scopo alla lotta. Che il rapporto fra degente e “guardiano” non sia del tutto oggettivante è del resto confermato dalla ripresa delle “visite”, una volta che il malato risalga, attraverso un processo di riabilitazione, dallo stato di totale istituzionalizzazione. Ciò significa che, nel momento in cui il malato si riabilita agli occhi del “guardiano” – il guardiano stesso riesce ad impostare con lui un rapporto ad un certo livello di reciprocità, nella misura in cui in questo incontro sente di poter trovare qualche compenso.
In tal modo si spiegherebbe l’aggressività e la fantasmatizzazione insieme del “guardiano” da parte del degente che vede in lui, contemporaneamente, l’istituto e una realtà così ricca di valori che, proprio in quanto tale, gli permette di sopportare la propria situazione.
9. Si evidenzia qui nuovamente il momento della frattura fra la situazione reale del malato e della “persona di fiducia” (ancora reciprocamente legati in un rapporto problematico e contraddittorio) e la situazione ideologica del tecnico in cui il malato si trova costretto ad entrare (caratterizzata da una totale aproblematicità).
E’ ancora l’incontro con il «mondo tecnico» che convince la “persona di fiducia” ad agire verso il malato in un modo che, oscuramente, percepisce come negativo o distruttivo nei suoi confronti. Ed è ancora il «mondo tecnico» che se ne assume la responsabilità, sollevandola dalle spalle della “persona di fiducia”, che viene così a trovarsi privata di uno degli elementi che la legavano al malato: la loro storia comune che la portava ad essere coinvolta in un comune destino. Entrambi si trovano quindi staccati dalla loro storia: il malato nel senso che essa sarà vista – da questo momento in poi – solo in funzione della malattia; la “persona di fiducia” nel senso che si trova ad affidare alla istituzione non soltanto il malato che tutelava, ma anche il tipo di rapporto che aveva con lui, per assumerne uno che non tiene conto dei legami reciproci (seppure li aggressività e colpevolizzazione) che li teneva uniti.
10. E’ qui evidente il processo destorificante (confronta anche il lavoro di Michele Risso sulla psicoterapia istituzionale) che si attua nell’anamnesi. Partendo da una conclusione (il giudizio di malattia e quindi la diagnosi) si ricostruisce il passato in funzione di questa, non tenendo conto che – se il numero di contingenze che ha portato il «disturbato mentale» all’ospedalizzazione fosse stato diverso, anche la sua storia, il suo passato sarebbero stati visti in una diversa prospettiva. Quindi anche il passato – così come il suo futuro – si trova in balia di quel numero di circostanze che lo hanno portato al ricovero.
In tal modo l’immagine di sé che gli viene proposta non può coincidere con quella – seppur disturbata ed alterata – che il malato aveva “prima”, dato che si rivela strettamente legata ad una serie di contingenze esterne che egli non può riconoscere come proiezione di sé.
11. Il momento del ricovero stabilisce dunque il passaggio dal ruolo di «persona intenzionale» a quello di «persona malata» che, proprio in quanto tale, ha perso ogni intenzionalità o è ridotta ad una pura «intenzionalità malata».
Una tale dimensione, fondamentale in ogni comportamento, non può tuttavia sparire: se essa scompare è solo in quanto non viene più riconosciuta come intenzione degli atti del malato, ma semplicemente ridotta a sintomo di malattia. In questo senso, una volta negatagli la possibilità di rapporti problematici e quindi intenzionali, il malato si trova rinchiuso in un ruolo oggettivante che di per sé inibisce ogni intenzionalità. Così quello che era nato originariamente come un’interpretazione soggettiva del suo comportamento da parte dell’istituto, diventa una situazione obiettiva, reale, confermata dalla stolidità e dall’incomprensibilità dei suoi atti.
Come più oltre precisa Goffman, ciò che viene interpretato come l'”adattarsi” all’ambiente da parte del degente, può essere invece espressione della sua intenzione – e quindi della scelta di un nuovo comportamento che gli faccia vivere meno dolorosamente la frustrante esperienza di essere stato escluso e rifiutato.
In un rapporto comunitario il far leva sulla presa di coscienza di questo momento – l’esclusione – per poter sopportare il quale il malato si è trovato costretto ad inventare un nuovo modo intenzionale di vivere, potrebbe costituire il punto di partenza più immediato per il riconoscimento in lui di una intenzionalità ancora presente, anche se definita e racchiusa nei limiti della «malattia».
12. Il problema dell'”istituzionalismo” è, in realtà, il problema centrale della carriera del malato mentale.
Goffman dedica un intero capitolo del suo libro “Asylums” all’analisi delle “istituzioni totali” che così definisce: «Le istituzioni sociali sono luoghi… dove si svolge con regolarità una certa attività… Ogni istituzione si impadronisce di una parte di tempo e di interessi di coloro che ad essa fanno capo, provvedendo loro in cambio un particolare tipo di mondo. Ogni istituzione tende quindi a circuire i suoi componenti in una sorta di accerchiamento… Questo carattere appunto ‘accerchiante’ o totale è simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale con il mondo esterno e nelle premesse, spesso concretamente fondate sulle stesse strutture fisiche dell’istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste o brughiere. Questo tipo di istituzioni io lo chiamo “istituzioni totali”». Le caratteristiche di queste istituzioni individuate da Goffman sono: «Primo, che tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, che ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le stesse cose. Terzo, che le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito che le porta dall’una all’altra, dato che il complesso di attività è imposto da un sistema di regole formali esplicite e da un corpo di addetti alla loro esecuzione. Infine che le varie attività forzate sono organizzate secondo un unico piano razionale, significativamente designato per raggiungere lo scopo ufficiale dell’istituzione».
In queste poche righe Goffman fissa già il significato essenziale delle istituzioni totali: organizzazioni burocratiche di interi gruppi di persone la cui finalità trascende la «persona» per risolversi nell’organizzazione stessa.
Da una tale premessa, risulta ovvio il conseguente processo di istituzionalizzazione del malato, il quale si trova costretto ad aderire ad un istituto in cui viene totalmente incorporato. La «nevrosi istituzionale» di Barton, o l'”istituzione totale” di Goffman, o la «istituzionalizzazione» di Martin, o la «disumanizzazione» di Vail, parlano tutte del fenomeno di regressione istituzionale di cui il degente è oggetto dal momento della sua ospedalizzazione. Il malato si trova a perdere le proprie caratteristiche personali, per assumere l’unica che gli è consentita: quella di essere un oggetto dell’istituto.
In termini sociologici Levinson e Gallagher (D. J. Levinson e E. B. Gallagher, “Patienthood in the Mental Hospital”, Houghton Milfin Company, Boston 1964) considerano la “istituzione totale” di Goffman come una comunità «quasi burocratica» considerando l’ospedale psichiatrico un sistema correttivo-terapeutico-educativo paragonabile alle prigioni nel suo aspetto correttivo, agli ospedali generali, nel suo aspetto terapeutico e ai collegi, nel suo aspetto educativo.
Si rimanda comunque, per l’analisi del problema dell’istituzionalizzazione, ai già citati autori e, in particolare a R. Barton, “Institutional Neurosis”, Wright, Bristol 1959; R. K. Merton, “Social Theory and Social Structure”, The Free Press, Glencoe [Ill.] 1957; B. Bettelheim, “The Informed Heart” cit.; D. V. Martin, “Institutionalisation”, in «Lancet», 3, 1955, 1188-90; D. J. Vail, “Dehumanization and the Institutional Career” cit., per non citare che i più importanti, puntualizzando comunque che il lavoro di Goffman su “Asylums” non è altro che la precisa analisi del processo di istituzionalizzazione del malato mentale.
13. E’ qui da precisare però che, se anche l’assegnazione del degente ad un dato reparto venisse presentata come un premio o una punizione, lo stato di restringimento di sé non ne verrebbe in alcun modo ridotto, né il concetto di sé risulterebbe avvantaggiato, dato che si manterrebbe in balia di oscillazioni legate, sempre, a giudizi di valore.
Verrebbe dunque a mutare soltanto apparentemente la natura della coercizione in cui il degente è costretto: il clima paternalistico lo continuerebbe a mantenere alla stessa distanza da chi ha in mano la sua sorte e la retrocessione ad un reparto peggiore, come simbolo delle sue condizioni psichiche o come punizione in seguito ad una sua azione riprovevole, avrebbe sempre ai suoi occhi il valore di una sopraffazione morale contro la quale non ha armi a disposizione.
Direi di più che nel caso della punizione e del premio (che non possono non essere legate ad un giudizio di carattere «morale» nella netta distinzione fra un comportamento «buono» e uno «cattivo») entrerebbe in gioco anche la presa di coscienza, da parte del degente, della bontà sia del premio che della punizione, con la sua diretta identificazione al giudizio formulato.
La retrocessione ad un reparto «peggiore» come «espressione del grado di socialità e delle condizioni del paziente» conserva ancora un carattere aggressivo nei confronti del degente stesso che gli consente di reagire con pari aggressività alle imposizioni subite. Nel caso del «premio» e della «punizione» si entrerebbe, invece, nella pericolosa situazione – solo apparentemente più liberale – di un’organizzazione psichiatrica di tipo paternalistico, dove il malato troverebbe un clima più profondamente istituzionalizzante di quello tradizionalmente coercitivo.
F. Basaglia (“La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione”, in «Ann. neurol. psichiatr.», e «Ann. osp. psich. di Perugia», LIX, fasc. 1, 1965) afferma che «lo scioglimento delle contenzioni fisiche ha attualmente liberato il malato dal suo stato di soggezione alla ‘forza’ cui, comunque, riusciva “deliberatamente” e “personalmente” a ribellarsi – attraverso i suoi ‘eccessi’. La libertà donatagli dal medico e dal nuovo clima ospedaliero può produrre ora in lui uno stato di soggezione ancora più alienante, perché frammisto a sentimenti di dedizione e di riconoscenza che lo legano al medico in un rapporto ancora più stretto, più infrangibile, più profondamente mortificante e distruttivo di qualsiasi contenzione fisica: un rapporto di assoluta soggezione e dedizione al ‘buono’ che si dedica a lui, che si china – dalla sua altezza – ad ascoltarlo e non dice mai di no. Ciò non potrà che accelerare il processo regressivo che lo spingerà a sprofondare gradualmente in un morbido, indolore annientamento totale che chiamerei una sorta di “istituzionalizzazione molle”».
14. Da questa precisazione risulterebbe che l’intenzionalità di cui il malato sembra privo sia stata incorporata dalle strutture fisiche dell’organizzazione ospedaliera, che agiscono su di lui con intenzioni esplicitamente regredenti. E’ dunque ovvio che egli si difenda, attraverso meccanismi di malafede o di «fantasmatizzazione di sé», per riuscire a sopravvivere alle continue allusioni, estremamente significative, che le strutture e le regole dell’istituto continuano a proporgli circa il suo valore tanto discusso.
In questo senso risulta comprensibile la tendenza, di cui parla più oltre Goffman, al mantenimento della propria dignità almeno agli occhi dei «compagni di sventura», dato che una tale dignità sembra essere il bersaglio, sistematicamente scelto dall’istituzione, come oggetto specifico dei suoi attacchi.
Le giustificazioni e le «storie» costruite dal paziente sono dunque ancora l’espressione del sopravvivere in lui di una propria misura personale e del conservarsi di uno schema di valori sovrapponibile a quello su cui si allinea la vita quotidiana del mondo esterno. Se non avesse l’esatta percezione del livello di degradazione cui è giunto, non sentirebbe la necessità di mantenere, agli occhi degli altri, una «facciata» che gli consenta, per quanto possibile, di conservare il rispetto di sé attraverso il rispetto che gli altri hanno di lui.
15. E’ esattamente questa premessa – che si trova alla base dell’organizzazione ospedaliera tradizionale – a condizionare l’intero significato dell’ospedalizzazione e della cura. Se la finalità è l’efficienza dell’istituto, ogni interferenza del malato, ogni sua azione spontanea che vada oltre le regole che irreggimentano la sua vita, viene ovviamente ritenuta di ostacolo all’andamento generale. Il malato non «collaborativo», secondo il criterio istituzionale, è semplicemente quello che si presenta come la persona non ancora del tutto serializzata.
Questo è il punto cruciale dell’intero trattamento istituzionale del malato mentale: il malato si presenta all’istituto come un problema e come tale viene negato sistematicamente perché non problematicizzi l’intera istituzione. I risultati di una simile trasposizione di valori (dall’uomo, all’efficienza dell’organizzazione che lo tutela), sono evidenti e riconosciuti come negativi: ci si limita a risolvere i problemi del malato negandone la problematicità e costruendogli attorno una realtà ad una sola dimensione dove ogni contraddizione viene implicitamente risolta attraverso la negazione della contraddittorietà dei termini.
Nel momento in cui l’istituzione rifiuta il malato come problema che possa metterla in discussione, non ha altra alternativa oltre quella di annullarlo, istituzionalizzandolo. Ma se il malato riesce a problematicizzare l’istituto; se l’istituto non si propone di risolverne i problemi, pianificandolo, ma li assume comunitariamente su di sé in modo che il nuovo entrato partecipi con gli altri alla loro dialettizzazione, allora si incomincia a creare un terreno in cui i rapporti non sono inevitabilmente oggettivanti e ad una sola via, dove i problemi rimettono in discussione dall’interno ogni posizione raggiunta e il malato partecipa – così come tutti gli altri poli presenti nell’ospedale – alla finalità di una istituzione che non si propone di risolvere i problemi, ma di affrontarli tentando di dialettizzarne la drammaticità.
16. La cartella clinica sembrerebbe dunque più una pezza di giustificazione che l’ospedale prepara per motivare il ricovero, che non un documento in cui risulti la storia del paziente. E’ quindi evidente che l’iniziale formulazione della diagnosi illumina di un colorito particolare ogni atto o avvenimento, evidenziandone solo gli elementi che possano appunto essere interpretati sotto questa luce.
Si può dire che con la formulazione della diagnosi si assiste, nella cartella clinica, non solo alla ricostruzione a posteriori di una malattia, ma alla ricostruzione di una storia che sembra sia stata vissuta solo in funzione di questa malattia e, soprattutto in funzione del ricovero. Il che (se ci si rifà al problema delle “contingenze” di cui parlava prima Goffman e su cui ci si è soffermati) non sembra reale.
Così come il malato si costruisce la storia della propria vita, selezionando gli avvenimenti più ottimistici e lusinghieri per poter presentare un’immagine di sé accettabile dagli altri; la cartella clinica sembra intenzionata ad individuare gli elementi più negativi, i fallimenti più nascosti, gli avvenimenti vergognosi per costruire un quadro del malato che egli non potrà mai riconoscere come sua immagine.
Inoltre la presenza in negativo (il parlarne cioè per negarli) di fatti della cui esistenza non si hanno prove, è una dimostrazione evidente della necessità di creare un quadro interamente coerente con le premesse. In assenza di elementi reali, il negare la loro esistenza non fa che puntualizzarne, in qualche modo, la presenza nella vita del malato; anche se è dato per sottinteso che non si tratta di notizie sicure. Tutto ciò assume un significato screditante per il ricoverato che, non solo risulta aver avuto esperienze tanto vergognose, ma anche le nega.
Dagli esempi proposti da Goffman, che il paziente sia o non sia ciò che appare sulla cartella, il risultato sembrerebbe lo stesso: lo si fa diventare ciò che si vuole, giungendo al punto di metterne in dubbio i sintomi, qualora non corrispondano alla diagnosi ormai formulata (confronta ad esempio: «Nessun contenuto psicotico poté essere allora dedotto» oppure: «Anche sottoposta a considerevoli pressioni, non risultò disposta ad impegnarsi in proiezioni di meccanismi paranoidi»).
In definitiva, attraverso la cartella clinica si potrebbe riconoscere la presenza dell’intenzionalità che pareva scomparsa dalla dimensione del malato: si tratta però di una intenzionalità solo negativa, un’intenzionalità “malata” confermata, appunto, dall’intero quadro sindromico.
17. La preparazione tecnica del personale – a tutti i livelli – non implica infatti una liberazione dalla paura di ciò che, socialmente, viene ritenuto un «male». Se la società considera ancora il malato mentale e la sua malattia come qualcosa di pauroso da escludere, sarà difficile che coloro che ne sono i rappresentanti all’interno dell’ospedale non ne continuino a garantire i valori.
In una dimensione comunitaria però questa libertà dai valori, per così dire, “esterni”, può essere l’oggetto di una conquista da parte del personale medico ed infermieristico, attraverso la conquista della libertà reale del malato. Si verrebbero a creare così i presupposti per un’azione veramente reciproca, nel senso che tutti i poli dell’organizzazione comunitaria possono trovare – ciascuno nell’altro – il proprio significato.
I 8. Se questa puntualizzazione di Goffman è esatta per quanto riguarda l’immagine di sé che viene proposta al malato in modo univoco da tutto lo staff ospedaliero, si deve qui precisare che ciò accade però sempre in una situazione – seppure tecnicamente perfetta – che si mantiene ad un livello tradizionale. Il malato cui viene proposta un’immagine di sé costruita per lui «dietro le quinte», è sempre l’oggetto della costruzione fatta da altri, di quell’immagine che dovrà incorporare.
Se però le riunioni a tutti i livelli dello staff sono alternate a riunioni comunitarie di tutti i livelli che compongono il campo ospedaliero, compresi quindi i malati, questi ultimi si troveranno a partecipare – per quanto possibile – ad ogni decisione da prendere nei confronti loro e dell’intera comunità. Per cui se si trama qualcosa alle loro spalle, questo qualcosa verrà verificato o smascherato nelle assemblee di comunità dove nessuno sfugge alla contestazione dell’altro.
Una bugia intenzionale detta dal medico o dall’infermiere ad un malato, sarà continuamente riproposta come un inganno. Un impegno preso e non mantenuto diventa agli occhi di tutti “un impegno preso e non mantenuto” che necessita di essere giustificato e dialettizzato agli occhi di tutti.
In una situazione del genere la sola presenza dell’altro dovrebbe creare i limiti e le responsabilità reciproche, così che ognuno costruisce di fronte all’altro la propria immagine di sé, attraverso la contestazione che l’altro gli oppone, senza che ci si occupi di prepararne una alle spalle, per presentargliela già confezionata.
19. Il meccanismo del quale parla Goffman pare possa essere riportato al concetto di esclusione (di cui al punto «4») intesa come proiezione nell’altro di ciò che si rifiuta in sé. Denigrando l’altro, in qualche modo ci si afferma, stabilendo una distanza fra il proprio valore e quello altrui.
Nel caso del malato mentale il cui «scarso» valore sociale è già dato per scontato, la distanza dai «sani» è stabilita in partenza e questo presupposto è inevitabilmente sempre presente in ogni tipo di rapporto che si instauri: con lui, in sua presenza o in sua assenza.
Qualora però si parli di un ospedale aperto, retto comunitariamente, una volta che la realtà con le sue contraddizioni sia penetrata nel mondo istituzionale, si può riconoscere che il «pettegolezzo» o il commento denigratorio fatto alle spalle, è uno dei modi abituali di impostare i rapporti. Grave è quando questo modo si mantiene – come nelle organizzazioni tradizionali – ad una sola via. Ma nella misura in cui anche i malati possono usufruire, in seguito al raccorciamento della distanza fra i diversi ruoli, della stessa tecnica, si può instaurare un certo livello di reciprocità, basato anche su questo piano.
20. Se, come precisa Goffman, il grado di mobilità sociale all’interno dell’ospedale può portare a continue fluttuazioni e oscillazioni del “sé” del paziente a causa del mutamento delle strutture e delle persone in cui tende ad identificarsi, ciò può d’altra parte risultare positivo qualora, in un mondo dove tutto è dato per garantito, il mutamento (come simbolo di vita, di movimento, di rottura) risponda ad una esigenza comunitariamente valida.
Ciò significa che, finché il “mutamento” viene vissuto come imposizione dall’alto, il malato si troverà defraudato di quei pochi beni che era riuscito a costruirsi: l’amico, l’angolo personale, l’infermiere comprensivo, eccetera.
Ma se partecipa alla decisione comunitaria dello spostamento di un dato gruppo in un dato reparto, secondo una finalità che sia stata scelta insieme, ciò che perde lo può riconquistare attraverso il suo essere coinvolto in un’azione comune che gli creerà nuovi compensi. E ciò ad un livello diverso di maturità e di risocializzazione.
21. Se la preparazione tecnica del personale non prevede un mutamento radicale del tipo di rapporto tradizionale con il malato; se cioè non si stacca dal rapporto oggettivante dell’organizzazione psichiatrica di tipo gerarchico-autoritario, il ruolo del paziente resta sempre un ruolo passivo nel suo essere completamente affidato nelle mani di chi si cura di lui. Quanto più sarà scarsa la sua partecipazione alla guarigione, tanto più il personale tecnico aumenterà «il grado di merito e di orgoglio» (come dice Goffman), con cui vive la propria azione terapeutica, confermando in ciò l’antiterapeuticità della sua impostazione.
Dove esiste un dare e un ricevere la distanza è incolmabile e non esiste reciprocità fra i due poli. Dove non esiste reciprocità non esiste un rapporto. Quindi il malato che passa nella «serra di risocializzazione» dal reparto infanti al reparto convalescenti e il personale che si congratula fra sé per i successi ottenuti, non si sono neppure sfiorati, non hanno scambiato uno sguardo che possa dirsi umano: l’uno chiuso nella sua passività agli occhi dell’altro; l’altro occupato a trascendersi nel proprio ruolo.
22. Questo è il modo tradizionale di considerare le oscillazioni nel comportamento del malato come sintomo di malattia, quindi come espressione di una ricaduta o di un miglioramento. Ciò deriva dal fatto che la diagnosi di malattia ha assunto nell’istituzione un valore definitivo nel quale il malato stesso viene ad essere incorporato, tanto che ogni suo atto o reazione all’ambiente, viene inevitabilmente interpretato come un sintomo.
E’ grave tuttavia il fatto che, secondo questo criterio, sarà ritenuta come auspicabile la condizione del malato completamente istituzionalizzato il quale – con il suo comportamento ormai amorfo e privo di un solo «guizzo» personale – risulterà il malato ideale, il cui livello di morbosità sarà ritenuto inferiore a quello del malato, ad esempio, «provocatorio».
Questo però non potrà non incidere sul sistema di valori all’interno dell’organizzazione ospedaliera che additerà il malato istituzionalizzato, completamente ammansito ai voleri dell’istituto, come la condizione ideale cui tutti dovrebbero tendere.
23. «Il furto fra Häftlinge viene generalmente punito, ma la punizione colpisce con uguale gravità il ladro e il derubato. Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere, che cosa potessero significare in Lager le nostre parole ‘bene’ e ‘male’, ‘giusto’ e ‘ingiusto’; giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra esposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato» (Primo Levi, “Se questo è un uomo” cit.).
E’ evidente da questa sovrapposizione di analisi come sia la condizione umana del coatto a creare simili analogie e non tanto la malattia mentale come fonte di degradazione e di decadimento morale.
Levi continua più oltre dicendo che «parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo». Il che significa che nei rapporti siamo noi a dover essere ciò che vogliamo che gli altri siano e, nel caso dell’istituzione psichiatrica, sono le sue strutture a dover essere modificate ad immagine e somiglianza di ciò che si vuole sia un uomo, anche se un malato mentale: libere, contraddittorie e dotate di alternative esplicite.
24. Sarebbe da vedere se non si tratti dello stesso processo cui si assiste analizzando il rapporto fra il malato mentale e la famiglia (R. Laing e A. Esterson, “Sanity Madness and the Family, Families of Schizophrenics”, Tavistock Publications, 1964).
Qualora la famiglia agisca sul malato con la stessa forza distruttrice e regredente dell’ospedale psichiatrico – il che succede molto spesso – il malato potrebbe trovare una forma di equilibrio imparando che, per riuscire a sopravvivere in modo personale, deve inventare una forma di comportamento che la società considererà autolesionista.
Il fatto però, anziché dargli una misura personale con la quale opporsi al mondo, lo porterà molto velocemente all’ospedalizzazione dove – se non riuscirà a guarire l’alternativa che gli verrà proposta sarà quella di scegliere fra l’essere un malato aggressivo o un mite istituzionalizzato.
25. Questo punto segnato da Goffman sulla degradazione morale del ricoverato, sembra molto importante per comprendere il procedere di una carriera che viene organizzandosi definitivamente in quello che è ormai il suo mondo: l’istituzione.
Da una parte esiste il malato dei reparti peggiori, quello che non ha nulla da perdere, al quale viene concesso – come per la prostituta – di comportarsi senza freni o controlli. Il suo apparente opporsi al sorvegliante non è, infatti, vissuto da quest’ultimo come una provocazione, ma come un comportamento abnorme che si svela dinanzi a lui come in uno spettacolo di cui si sente artefice, nella misura in cui è in suo potere concedere o ritirare la libertà di cui il malato gode. E’ infatti la libertà concessa dal sorvegliante che consente al malato di fantasmatizzarlo in modo tale da poter sopportare il livello di degradazione morale cui egli è giunto.
Dall’altra esiste il degente «privilegiato» il quale invece non può permettersi questo tipo di degradazione morale, perché altrimenti verrebbe a perdere i privilegi acquisiti. Tuttavia proprio in nome di questi privilegi che possono arbitrariamente essergli concessi, così come arbitrariamente possono venirgli rifiutati, egli si trova continuamente esposto ad un tipo di prevaricazione particolare. Sarà ancora questo meccanismo a far fantasmatizzare agli occhi del paziente il suo terapista.
26. Il terzo esempio di degradazione morale si nota, non più all’interno ma all’esterno dell’ospedale: quando il malato viene dimesso. Nel mondo esterno egli continua a portarsi appresso la sua dimensione manicomiale, controllato dalla “persona di fiducia” che ha, su di lui, lo stesso potere che aveva l’istituto.
Il malato dimesso resta uno stigmatizzato in cui l’esperienza manicomiale ha lasciato un segno indelebile, tale da fissarlo, anche nel mondo esterno, entro i limiti che l’istituto gli aveva concesso sulla parola, sulla fiducia. E’ infatti costretto a mantenersi allo stesso livello di regressione istituzionale che gli era abituale, perché soltanto questo può garantire all’istituto, alla “persona di fiducia” demandata alla sua custodia e quindi alla società, la certezza che non darà preoccupazioni, né creerà problemi.
NOTE.
NOTE A: “La libertà comunitaria come alternativa alla regressione istituzionale”
di Franco Basaglia.
(1). Confronta A. PIRELLA e D. CASAGRANDE, “John Conolly, dalla filantropia alla psichiatria sociale”, in questo volume.
(2). Confronta A. SLAVICH e L. JERVIS COMBA, “Il lavoro rende liberi?”, in questo volume.
NOTE A: Dibattito avvenuto nel corso dell’incontro tra la delegazione di infermieri e amministratori dell’O.P.P. di Colorno (Parma) e il personale sanitario, infermieri e degenti dell’O.P.P. di Gorizia il giorno 20 dicembre 1966.
(1). Questo dibattito, non preparato e trascritto pressoché fedelmente dal nastro magnetico con qualche correzione marginale, si è svolto in modo assolutamente non formale, come si può notare dalla trascrizione che qui viene riportata. La discussione non è stata rigidamente coordinata, non aveva un tema specifico, ed è risultata simile, nella sua libera dinamica, a quella delle assemblee di comunità dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia.
Da segnalare particolarmente l’insistenza con cui si cerca, da più parti, di ricercare le cause della persistenza di reparti chiusi, i quali vengono o giustificati in modo ingenuo o sentiti come un forte limite, sul piano della realtà concreta, nello sforzo di liberalizzare l’ospedale. Essi sembrano rappresentare una specie di negativo che non può essere soppresso né esorcizzato, ma inserito in una situazione dialettica come lo stesso dibattito permette di dimostrare. Tuttavia il superamento di tale negativo non può avvenire nelle parole e nel semplice confronto delle opinioni, ma attraverso la modificazione della realtà istituzionale, attraverso la progressiva presa di coscienza di ciò che accade a coloro che sono, come malati come medici, come infermieri, nell’istituzione chiamata ospedale psichiatrico.
NOTE A: “John Conolly, dalla filantropia alla psichiatria sociale” (di Agostino Pirella e Domenico Casagrande).
(1). Singolare, e rigorosa, a questo proposito, una pagina di Hegel: «La vera cura psichica si regola sul concetto che la follia non è una perdita astratta della ragione, né per quanto riguarda l’intelligenza né per quanto riguarda la volontà e la sua responsabilità, ma un semplice disordine dello spirito, una contraddizione nella ragione la quale esiste ancora, così come la malattia fisica non è una perdita astratta, cioè completa, della salute (questo sarebbe la morte), ma una contraddizione in quest’ultima. Tale cura umana, ossia amorevole e ragionevole, della follia… presuppone che il malato possa ragionare e trova in ciò un punto solido per prenderlo da questo lato» (HEGEL, “Enciclopedta delle scienze filosofiche”, paragrafo 408 nota, cit. da M. FOUCAULT, “La storia della follia”, trad. di Franco Festucci, Rizzoli, Milano 1963).
(2). Si vedano le citazioni in D. STAFFORD-CLARK, “Psichiatria d’oggi”, trad. di P. Braccialarghe, Milano 1962.
(3). H. H. NEWINGTON, in «J. Ment. Sci.», 1901 (cit. da R. A. HUNTER, “The Rise and Fall of Mental Nursing”, in «The Lancet», 14 gennaio 1956).
(4). P. KOECHLIN, in «Psychothérapie institutionelle», relazione ciclostilata, 3 febbraio 1966.
(5). Si veda la citazione, con altri riferimenti in tema di psicoterapia istituzionale, in J. AYME’, P. RAPPARD e H. TORRUBIA, “Thérapeutique institutionelle”, in “Encyclopédie médico-chiturgicale, Psychiatrie”, 37930, G 10.
(6). Confronta G. JERVIS e L. SCHITTAR, “Storia e politica in psichiatria: alcune proposte di studio”, in questo volume.
(7). Si veda il volume, recentemente tradotto in italiano da G. Jervis, “Classi sociali e malattie mentali”, di A. B. HOLLINGSHEAD e F. C. REDLICH, Torìno 1965.
NOTE A: “Storia e politica in psichiatria: alcune proposte di studio” (di Giovanni Jervis e Lucio Schittar).
(1). Confronta A. PIRELLA e D. CASAGRANDE, “John Conolly, dalla filantropia alla psichiatria sociale”, in questo volume.
(2). Confronta P. HASSOE, in «Am. J. of Psychiat.», maggio 1945, p.p. 731 segg.
(3). E. MARANDON DE MONTYEL, “L’«open door» et le congrès de Nancy”, in «Ann. méd.-psychol.», novembre-dicembre 1896, p.p. 390 segg.
(4). «Ann. méd.-psychol.», gennaio-febbraio 1897.
(5). Da uno scritto ciclostilato di P. KOECHLIN, in «Psychothérapie institutionnelle», del 3 febbraio 1966.
(6). RUBIN e A. GOLDBERG, in «Arch. Gen. Psychiat.», 8 marzo 1963, p.p. 269-70.
(7). H. EY, in “Encyclopédie médico-chirurgicale, Psychiatrie”, I, 37005, A 10, p. 10.
(8). Gli studi americani sulla stratificazione sociale come substrato che “domina” la pratica psichiatrica indicano, più che dimostrarla, la importanza a questo riguardo della divisione della società in classi e non si configurano quasi mai come discorso politico. (Confronta A. B. HOLLINGSHEAD e F. C. REDLICH, “Classi sociali e malattie mentali”, Torino 1965, e le considerazioni svolte da uno di noi nella introduzione al volume).
(9). Ci riferiamo in particolare al cap. 10 del “Sistema sociale” di TALCOTT PARSONS, Milano 1965, e allo scritto dello stesso autore (dal titolo “Considerazioni teoriche intorno alla sociologia della medicina”), in «Quaderni di sociologia», luglio-settembre 1962.
(10). D. V. MARTIN, “Institutionalisation”, in «Lancet», 2, 1955, 1188-90.
(11). R. BARTON, “Institutional Neurosis”, Wright, Bristol 1959.
(12). E. GOFFMAN, “Asylums”, Anchor Books, New York 1961 (trad. it. di Franca Basaglia, “Asylums. Le istituzioni totali”, introduzione di Franco e Franca Basaglla, Einaudi, Torino 1968).
(13). R. K. FREUDENBERG, “Das Anstaltsyndrome und seine Ueberwindung”, Nervenartz 1962, 165 segg.
(14). Confronta F. BASAGLIA, “La libertà comunitaria come alternativa alla regressione istituzionale”, in questo volume.
(15). A. PIRELLA, “Sul problema della stereotipia schizofrenica come sintomo significativo e come «reazione istituzionale»”, in «Giorn. psichiat. e neuropatol.», XCIII, 4, 1965.
(16). Per il problema socio-psichiatrico del medico, confronta G. JERVIS, “Alcune considerazioni in margine allo studio della psichiatria sociale”, in «Ann. neurol. psichiat.» LIX, suppl. 3, Perugia 1965.
(17). G. JERVIS, “Ruoli e valori nel processo di comunicazione in psichiatria”, relazione tenuta il 4 novembre 1966 a Arenzano al Seminario sui problemi di comunicazione in psicoterapia (Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia).
(18). «Il Corriere della Sera», 1 febbraio 1967.
NOTE A: “Presupposti a una psicoterapia istituzionale” (di Michele Risso).
(1). EY 1955, p. 2.
(2). Il corsivo è mio.
(3). KALINOWSKY e HOCH 1961, p. 1.
(4). Le virgolette sono aggiunte da me.
(5). KALINOWSKY e HOCH 1961, p. 2.
(6). BLEULER 1911, p. 384.
(7). BLEULER 1911, Prefazione.
(8). Il corsivo è mio.
(9). Secondo Eissler, citato da Ellenberger 1955, dal trattamento di inizio di una psicosi schizofrenica alle sue prime manifestazioni dipende sovente l’evoluzione della malattia verso la guarigione o la cronicità.
(10). BASAGLIA 1966.
NOTE A: “Commento a E. Goffman, «La carriera morale del malato mentale»” (di Franca Ongaro Basaglia).
(1). Confronta E. GOFFMAN, “La carriera morale del malato mentale”, in “Asylums. Le istituzioni totali”, introduzione di Franco e Franca Basaglia, traduzione di Franca Basaglia, Einaudi, Torino 1968, p.p. 151-94.
Erving Goffman è professore di sociologia presso l’Università di California, Berkeley. Le sue pubblicazioni principali, oltre ad “Asylums” (Anchor Books, 1961) sono “The Presentation of Self in Every Day Life” (Anchor Books, 1959) e “Stigma” (Prentice-Hall, 1963).