Giocando di fantasia, la stessa che ci è mancata in Sudafrica, azzardiamo un paragone tra i mondiali di calcio (per quel che riguardano l’Italia) e il convegno “Impazzire si può”. Terminati entrambi guarda caso lo stesso giorno, giovedì 24 giugno, benché in maniera sostanzialmente diversa. Potremmo dire che a Trieste abbiamo vinto ciò che a Johannesburg abbiamo perso: la possibilità di giocare avanti e chissà, magari anche vincere alla fine.
Forzando ancora un po’ il Balotelli che è in noi, potremmo aggiungere che molto di ciò che non abbiamo visto nello stadio di Ellis Park a Johannesburg, lo abbiamo visto – benché sotto riflettori incomparabilmente più sommessi – nel teatrino di San Giovanni a Trieste.
Abbiamo visto il gioco di squadra, molti esempi di giochi di squadra dove il tutti per uno e l’uno per tutti non è parso uno slogan, ma un modo di agire, di stare nelle cose. Che valorizza ed esalta i talenti dei singoli, permettendo loro di esprimersi al meglio. E qui non intendiamo soltanto le numerose associazioni per la salute mentale che abbiamo visto profilarsi in quattro giorni di convegno, ma tutte quelle forme di condivisone e di complicità tra contesti i più eterogenei, i tanti modi di essere «individui relazionati» che hanno rimarcato l’importanza di allearsi per uno scopo comune. Come può esserlo ad esempio un codice etico per giornalisti, quello che ha preso forma nella Carta di Trieste e la cui stesura finale sarà il prodotto del lavoro di diversi corpi professionali e sociali uniti da una sola intenzione. Quella di non nuocere con le parole, imparando a usare il linguaggio come uno strumento al servizio dell’umanità e della creazione di valore.
Abbiamo visto il coraggio. O meglio, la sua forma più umana (l’unica che in fin dei conti interessa), quella che non nega la paura, ma si fa strada con tutta la paura, nonostante la paura. Pensiamo alle tante esperienze raccontate in prima persona, con negli occhi e nelle gambe la tremarella di un Marchetti ai suoi primi mondiali, a tutte le palle perse e recuperate di quei match sull’erba scorticata sotto casa, i falli subiti e fatti, i cartellini gialli e i rossi, i gol e gli autogol. I rigori alla Roby Baggio ai supplementari contro il Brasile, Los Angeles 1994. E, nonostante tutto, ancora in gara.
Abbiamo visto la tenacia. La determinazione di giocare la partita dal primo al novantesimo minuto, con tutto il vigore che si ha in corpo, senza risparmiarsi. Anche se si è fischiati dallo stadio intero. Pensiamo a quei familiari, a quelle mamme cui tocca quasi sempre il ruolo del Cannavaro a vita, che non si sono stancate di lottare per i diritti tuttora negati e calpestati, di prendere la parola anche se nessuno gliela dà, scendere in campo senza il permesso del CT. Per dirci che indignarsi bisogna. Che una politica incapace di mettere a disposizione di ogni figlio e di ogni persona un «catalogo di opportunità», va spedita a casa per direttissima. Quale che sia il colore della maglia che indossa.
Abbiamo visto il senso della possibilità. Quello autentico, che non confonde la realtà con l’illusione o la presunzione (di vincere ossia di guarire), ma che a partire dalla realtà non smette di rincorrere un risultato ogni volta migliore. Sia pure di poco. Pensiamo al vivace botta e risposta (quasi un talk show) sulla guarigione, la “recovery” anglosassone che magari non avrà ancora il suo corrispettivo nel lessico degli italiani, ma nella concretezza delle loro vite sembra averlo eccome, molto più che altrove. Grazie proprio alla Legge 180 e a chi in Italia ha fatto e sta facendo il diavolo a quattro perché i suoi principi vengano messi in pratica.
Abbiamo visto il senso della responsabilità. Nei confronti di se stessi e della comunità. Quella consapevolezza di avere la partita nelle proprie mani e che nessuno può disputarla al posto di un altro. Citiamo qui le parole che hanno aperto il convegno, pronunciate dalla rappresentante di un’associazione della Toscana: «Emanciparsi non è così semplice. Ma l’unico modo per ridurre lo stigma è la visibilità. Il percorso di autodeterminazione è fondamentale. Ciascuno qui deve capire che è il suo disagio, il suo problema, e crescere con il suo dolore. Alla fine è questo che premia. Riprendersi la vita in mano è troppo bello».
Abbiamo dunque visto la bellezza, l’emozione dello stare in campo. Del continuare a giocare quando il gioco si fa così impossibile che persino la Corea è un piacevole ricordo.
Abbiamo visto il rispetto. Di se stessi e dell’altro. Durante i lavori, gli interventi, il microfono aperto, le pause. Al punto che se ne sarebbe potuto fare un decalogo di condotta civile da distribuire non solo ai calciatori, francesi in testa, ma agli stessi nostri connazionali nonché inquilini di Montecitorio.
Abbiamo visto la libertà. In espressioni molteplici, ma ci piace evocarne una, propriamente, squisitamente artistica. A firma del fantasista Mr. Frank che ci ha incantati con un video di 5 minuti, realizzato all’interno di un laboratorio di inclusione sociale. Protagonista, il famoso e sciagurato triestino «vecio tram de Opcina», il più sdarrangato di tutti. Gran collezionista di deragliamenti e tuttavia «ancora in rodaggio». Quasi la controfigura del suo autore, che si esibisce anche in un “doppiaggio” prestando al tram voci onomatopeiche prodotte da corde vocali umane. E che con la medesima umanità, nel presentarci la sua creatura, ci ha invitati a un minuto di raccoglimento in ricordo di un vecchio tranviere passato a miglior vita.
Abbiamo visto infine che si può essere tifosi coinvolti e appassionati, con tanto di vuvuzelas, e allo stesso tempo capaci di stare al proprio posto. Sapendo pronunciare parole come quelle dette da un grande tifoso noto a tutti come “il Basaglia televisivo”. Il quale, alla domanda se avesse mai avuto paura di impazzire, ha risposto: «Ho un certo pudore a parlarne. Ma non della cosa in sé, quanto nel senso che, dopo questa esperienza, non riesco più a rispondere a cuor leggero a una domanda così».
Confermando l’ultima delle nostre immagini e che ci rimane impressa nella memoria dopo questi quattro giorni triestini: la serietà. La sofferenza della malattia mentale è una cosa seria. E il solo modo per trattarla con serietà è recuperarne il senso. In termini sia individuali che sociali. Perché «il mondo della follia» forse più di tanti altri può stimolare la produzione di soggettività. Nutrimento che oggi scarseggia assai e che ci farebbe un gran bene. Più che la Nutella agli azzurri, come ha scritto poco seriamente un blogger.
di Korallina
Trieste, 28 giugno 2010