CARTA DI TRIESTE
(bozza in lavoro del 23-06-2010)
Proposta per un codice etico/protocollo deontologico per giornalisti e operatori dell’informazione che trattano notizie concernenti cittadini con disturbo mentale e questioni legate alla salute mentale in generale
Con il presente protocollo, il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, cogliendo l’appello dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a sostenere, anche con l’informazione, la lotta ai pregiudizi, allo stigma e all’esclusione sociale di cui tuttora sono vittime le persone con disturbo mentale e le loro famiglie e che ricadono sulla società compromettendone la buona salute e la qualità della vita, invitano, in base al criterio deontologico fondamentale del «rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati» contenuto nell’articolo 2 della Legge istitutiva dell’Ordine, i giornalisti italiani a:
osservare la massima attenzione nel trattamento delle informazioni concernenti i cittadini con disturbo mentale in particolare a:
a) usare termini appropriati, non lesivi della dignità umana, o stigmatizzanti, o pregiudizievoli, per definire sia il cittadino con disturbo mentale qualora oggetto di cronaca, sia il disturbo di cui è affetto, sia il comportamento che gli si attribuisce, onde non alimentare il già forte carico di tensione e preoccupazione che il disturbo mentale comporta, o indurre forme di identificazione, sentimenti o reazioni che potrebbero risultare destabilizzanti o dannosi per la persona, i suoi familiari e la comunità nell’insieme; [vedi Allegato 1]
b) usare termini giuridici pertinenti, non approssimativi o allusivi a luoghi comuni di sorta nel caso il cittadino con disturbo mentale si fosse reso autore di un reato di qualsivoglia entità, tenendo presente che è un cittadino come gli altri, uguale di fronte alla legge; [vedi Allegato 2]
c) non interpretare il fatto in un’ottica pietistica, decolpevolizzando il cittadino per il solo motivo che soffre di un disturbo mentale né, al contrario, attribuire le cause e/o l’eventuale efferatezza del reato al disturbo mentale;
d) considerare sempre che il cittadino con disturbo mentale è un potenziale interlocutore in grado di esprimersi e raccontarsi, tenendo presente che può non conoscere le dinamiche mediatiche e non essere quindi in grado di valutare tutte le conseguenze e gli eventuali rischi dell’esposizione attraverso i media;
e) tutelare il cittadino con disturbo mentale che sceglie di parlare con i giornalisti, adoperandosi perché il cittadino non sia identificato con il suo problema di salute mentale;
f) garantire al cittadino con disturbo mentale il diritto di replica;
g) interpellare e consultare esperti in materia, sia gli operatori della salute mentale, i servizi, le associazioni e altri attori e soggetti coinvolti, sia gli operatori della giustizia, delle forze dell’ordine e dei servizi sociali, per poter fornire l’informazione in un contesto congruo e veritiero, il più possibile chiaro, approfondito e completo. Fornire laddove possibile dati attendibili e aggiornati che permettano un confronto tra l’andamento dei reati commessi da altre persone con, e senza disturbo mentale;
h) compiere lo sforzo di integrare, ogni qualvolta ciò sia possibile, la notizia con una precisa e dettagliata informazione sui servizi, strumenti, trattamenti, cure che possono essere di aiuto e sostegno nelle singole realtà locali; [vedi Allegato 3]
i) promuovere la diffusione di storie di guarigione e/o di esempi di esperienze positive improntate alla speranza e alla possibilità;
l) limitare l’uso improprio di termini relativi alla psichiatria in notizie che non riguardano questioni di salute mentale (per esempio: “una politica schizofrenica”, “una partita schizofrenica”) al fine di non incrementare il pregiudizio che un determinato disturbo mentale è sinonimo di incoerenza, inaffidabilità, imprevedibilità e simile.
A PROPOSITO DI SUICIDIO E DISTURBO MENTALE
Benché in oltre il 75% dei casi il suicidio non sia connesso al disturbo mentale, è luogo comune molto frequente associare a quest’ultimo le sue cause. In questo modo non solo si fornisce un’informazione non corretta, ma si rischia di indurre comportamenti emulativi nelle persone più fragili.
All’Allegato 4 alcune raccomandazioni utili a chi riferisce di suicidio e/o tentativi di suicidio, elaborate dagli esperti dell’OMS in collaborazione con gli Osservatori locali preposti al monitoraggio dei fenomeni autolesivi. [vedi Allegato 4]
ALCUNE DOMANDE CHE IL GIORNALISTA POTREBBE FARSI
- I termini usati sono appropriati o in qualche misura non pertinenti od offensivi per il cittadino al centro dei fatti o per altre persone che vivono analoghe esperienze di disturbo mentale?
- Il titolo, l’eventuale locandina e le immagini dell’articolo sono offensive per il cittadino al centro dei fatti o per altre persone che vivono analoghe esperienze di disturbo mentale?
- È rilevante ai fini della completezza dell’informazione riportare il nome del cittadino, e altri dati che lo identificano (dove abita, che lavoro svolge etc), anche con l’uso di immagini (fotografie, illustrazioni, caricature)?
- È rilevante ai fini della completezza dell’informazione precisare che il cittadino in questione ha un disturbo mentale?
- Se nella notizia è rilevante il peso del disturbo mentale, nell’articolo sono riportate le opinioni e i commenti di un operatore esperto della salute mentale o di un’altra persona con disturbo mentale citata nell’articolo o di una associazione di persone con disturbo mentale e loro familiari?
- Ai familiari del cittadino è stata data la possibilità di fare una dichiarazione?
- È rilevante ai fini della completezza dell’informazione interpellare amici, conoscenti, vicini di casa, passanti o altri cittadini in qualche maniera, benché marginale, coinvolti nell’accaduto?
- Nell’articolo sono state riportate informazioni utili affinché altri cittadini che si trovano in analoghe situazioni sappiano a chi rivolgersi?
- Citare l’esperienza positiva di altri cittadini con disturbo mentale può contribuire a far comprendere che le storie di vita sono differenti e che non soltanto non si può generalizzare ma che ciò può essere controproducente o addirittura dannoso?
IMPEGNI DEI SOGGETTI PROMOTORI
I soggetti promotori si impegnano inoltre di:
- prevedere negli argomenti dell’esame di stato per l’iscrizione all’Albo professionale un capitolo relativo alla salute mentale, aggiornato periodicamente alla luce delle evidenze scientifiche e delle pratiche ed esperienze messe in atto nella comunità;
- organizzare incontri di aggiornamento scambio su temi relativi alla salute mentale nell’ambito di percorsi formativi sul giornalismo, scientifico e in generale;
- promuovere l’istituzione di un osservatorio sull’informazione relativa alla salute mentale;
- istituire un premio annuale per i giornalisti che si sono distinti nel trattare notizie relative a persone con disturbo mentale o alla salute mentale in generale.
CARTA DI TRIESTE
ALLEGATI
(bozza in lavoro del 23-06-2010)
ALLEGATO 1
I 5 PREGIUDIZI LEGATI AL PROBLEMA DEL DISTURBO MENTALE
E ALLE PERSONE E ALLE FAMIGLIE CHE LO ATTRAVERSANO
La pericolosità, per cui la persona viene etichettata come violenta e aggressiva, bollata con la frase “pericolosa per se stessa e per gli altri”.
Se invece si guarda alla realtà e non ai pregiudizi, si scoprirà che nelle persone con disturbo mentale la pericolosità è meno comune di quanto si possa immaginare: numerosi dati statistici smentiscono infatti il luogo comune del “pazzo violento”. Si pensi per esempio che nel corso di un anno, soltanto lo 0,2% delle persone con un disturbo schizofrenico incorrono in una sanzione per aver commesso atti penalmente perseguibili.
Come dire che a Trieste, 250.000 abitanti, dove si stima la presenza di circa 2000 persone con schizofrenia, soltanto quattro in un anno commettono un reato. Si tratta di una percentuale evidentemente molto più bassa di quella che riguarda le persone senza disturbo mentale.
In ogni caso il gesto violento o sconsiderato di una persona con disturbo mentale non giustifica nessun giudizio negativo su tutta la popolazione delle persone con disturbo mentale. Per esempio, la disonestà di un bancario che sottrae denaro alla cassa della propria banca non ci autorizza a pensare che tutti i bancari sono ladri.
L’incomprensibilità, per cui tutto ciò che una persona con disturbo mentale produce in termini di linguaggio, di comportamenti, di presenza nello spazio relazionale viene letto attraverso lo specchio deformante del disturbo mentale. Allora i gesti e le parole sembrano perdere di significato per diventare inaccessibili.
Oggi l’uso di molteplici strumenti di analisi permette di risalire alla storia e all’unicità di quella persona, ritrovando un terreno comune su cui provare a costruire un percorso di comprensione. Così, anche i gesti più estremi e le parole più inafferrabili, se ricollocate nella storia di quella persona in quel contesto sono comprensibili.
L’inguaribilità, secondo cui una persona con disturbo mentale sarà sempre malata. Questo sembra valere in particolar modo per i disturbi mentali più severi come per esempio la schizofrenia.
Tale idea deriva dal luogo comune che “le malattie mentali sono incurabili”, benché sia dimostrato che tra tutte le malattie che possono capitare nel corso della vita, il disturbo mentale è quello che guarisce nella maggiore percentuale e con maggiore stabilità.
Eppure il pregiudizio dell’inguaribilità persiste per i disturbi mentali più severi. Difatti, fino a pochi anni fa il destino delle persone affette da tali disturbi era costituito dall’internamento in manicomio. Oggi queste persone vivono nella società come chiunque altri e le possibilità di ripresa sono sempre più evidenti.
L’inguaribilità resta forse il più dannoso dei pregiudizi, perché sta alla base del senso di impotenza e della perdita di speranza, sia per la persona che per la sua famiglia. È dunque decisivo che si sappia che la lotta a questo pregiudizio e le aspettative positive sono la medicina più potente di cui si dispone.
L’improduttività, per cui si crede che le persone affette da disturbo mentale non abbiano né capacità, né abilità, né competenze. A smentirlo basterà citare solo alcuni nomi: Abramo Lincoln, John Nash, Van Gogh, Alda Merini, Dino Campana, David Helfgott. Anche nei vecchi ospedali psichiatrici molti internati lavoravano e sostenevano con le loro attività l’istituzione, ma non erano pagati né venivano ufficialmente riconosciuti come lavoratori.
Oggi, nella vita quotidiana, attraverso norme e investimenti nel campo della formazione moltissimi giovani con disturbo mentale entrano nel mondo del lavoro. È ampiamente dimostrato che la pratica del diritto al lavoro rafforza le possibilità di ripresa.
L’irresponsabilità, secondo cui la persona con disturbo mentale non si rende conto di quello che fa ed è bollata come “incapace di intendere e di volere”.
Oggi è chiaro che il disturbo mentale non sovradetermina i comportamenti e, anche se li condiziona, lascia alle persone ampi margini di libertà e di scelta.
Le persone, seppure limitate agiscono sempre all’interno di due estremi: da un lato il grave deterioramento cognitivo, emotivo e affettivo. Dall’altro, una condizione di salute mentale totalmente integra. Tra questi due poli si muovono le persone reali, con una vasta gamma di sfumature, all’interno della quale ricorrono condizioni comportamentali, affettive ed emotive mutevoli. Perciò, tra l’assoluta “irresponsabilità” e la “normalità”, vi è una serie di gradi intermedi dove deficit cognitivi e alterazioni affettive possono causare diminuzioni e mai totale assenza della responsabilità.
Riconoscere la responsabilità non significa credere in modo acritico che le persone con disturbo mentale siano già e sempre del tutto libere e responsabili. Significa invece adoperarsi perché possano mantenere la loro individualità e la loro identità, malgrado gli innumerevoli condizionamenti affettivi e cognitivi, relazionali e sociali.
ALLEGATO 2
LA SALUTE MENTALE E LE LEGGI
Una persona che attraversa l’esperienza del disturbo mentale rischia di perdere fondamentali diritti personali e sociali. L’impegno di tutti gli attori sociali dovrebbe essere volto pertanto alla difesa e al potenziamento di tali diritti, per garantire le cure, la dignità e il rispetto di ognuno e più in generale per promuovere la salute di tutti. A questo scopo è utile conoscere le disposizioni attuali che regolamentano le cure e i trattamenti sanitari.
La prima legge nazionale sull’assistenza psichiatrica, “Disposizioni e regolamenti sui manicomi e sugli alienati”, venne promulgata nel 1904 dal governo Giolitti. Una legge che subordinava la cura alla custodia. L’internamento veniva così motivato: «Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette da qualsiasi causa d’alienazione mentale quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo».
Il ricovero coatto avveniva per ordinanza del questore, previa certificazione di un medico. Dopo un mese, se la persona non veniva dimessa, il Tribunale sanciva il ricovero definitivo (l’internamento) e l’interdizione, con la conseguente perdita dei diritti civili. L’eventuale revoca dell’internamento era vincolata a una certificazione di guarigione dell’alienato da parte del direttore del manicomio. Nessun direttore si è mai assunto la responsabilità di certificare una guarigione, al massimo dichiarando «l’alienato è parzialmente migliorato».
Queste procedure sono rimaste inalterate fino al 1968, allorché il Parlamento approvò la legge n. 431, forse più nota come legge Mariotti, che introdusse la possibilità di trasformare il ricovero coatto in volontario, previo accertamento del consenso della persona. Per la prima volta il «malato di mente» venne considerato come una persona con una malattia pari alle altre e pertanto bisognosa di cure. Sul piano operativo l’importanza di questa legge era duplice: da un lato prevedeva alcune trasformazioni all’interno dell’Ospedale Psichiatrico, avvicinandolo nelle sue forme organizzative agli ospedali generali. Dall’altro istituiva alcune attività preventive e riabilitative fuori dalle mura manicomiali. Ponendo le basi della salute mentale territoriale.
Fino a quel momento, l’assistenza psichiatrica, amministrata dalle province, ciascuna delle quali doveva dotarsi di un manicomio, si era trovata sempre al di fuori dell’organizzazione sanitaria del paese.
La svolta avvenne il 13 maggio 1978, quando fu approvata la legge n. 180, il cui titolo completo è “Norme per gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. In seguito essa venne inserita nella legge n. 833 del 23 dicembre 1978, che istituì il Servizio Sanitario Nazionale.
La legge 833 stabilisce un principio fondamentale: alla base del trattamento sanitario, deve esserci non più un giudizio di pericolosità e/o di pubblico scandalo ma prima di tutto il bisogno di cura di ogni singola persona. Il trattamento sanitario è di norma volontario e viene effettuato, come pure la prevenzione e la riabilitazione, nei presidi e nei servizi extra-ospedalieri operanti nel territorio. Si pone fine così allo statuto speciale che per oltre un secolo aveva tenuto in una condizione di subalternità il «malato di mente».
La legge 833 stabilisce di conseguenza che negli ospedali psichiatrici non doveva essere più ricoverato nessuno. Venne concessa una deroga di 3 anni al divieto di ricovero, poi rinnovata per alcuni anni per le persone ricoverate prima del maggio ‘78. Ma il principio restò saldo: gli ospedali psichiatrici dovevano essere gradualmente superati per diventare strutture a esaurimento.
Nel marzo 1999, il ministro della Sanità Rosy Bindi con un apposito decreto impose alle Regioni la definitiva chiusura dei manicomi, pena forti sanzioni economiche.
La 180 fu pensata come una legge quadro, rinviando le disposizioni attuative a un Piano sanitario nazionale. Piano che doveva stabilire tutti «i criteri e gli indirizzi ai quali deve riferirsi la legislazione regionale per l’organizzazione dei servizi fondamentali e per l’organico del personale […] le norme generali per l’erogazione delle prestazioni sanitarie, gli indici e gli standard nazionali da assumere per la ripartizione del Fondo sanitario nazionale tra le Regioni». Di fatto, questa legge per la prima volta attribuiva alle singole Regioni poteri di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari.
Purtroppo le leggi regionali vennero formulate con gravi ritardi, in modo frammentario e spesso contraddittorio rispetto alla legge nazionale. Di conseguenza il Piano sanitario nazionale si realizzò tra innumerevoli lentezze, difficoltà e resistenze. Lo stesso governo emanò il primo Progetto Obiettivo Salute Mentale soltanto nel 1994 e il secondo, quello vigente, nel 1999, penalizzando la legge 180 che non fu adeguatamente sostenuta né finanziata.
Attualmente, a fronte di una sempre maggiore regionalizzazione, cioè attribuzioni di competenze in campo sanitario ai governi regionali, la legge 180 acquista ancora più valore, in quanto stabilisce l’indirizzo generale e i margini di garanzia e di diritto che le leggi regionali devono salvaguardare.
2.1 I DIRITTI DEI CITTADINI CON DISTURBO MENTALE
I diritti delle persone con disturbo mentale non sono differenti da quelli di tutti gli altri cittadini. Garantire alle persone con disturbo mentale l’accesso alla fruizione delle leggi, dei beni e dei servizi rappresenta oggi la più importante via di uscita dal rischio di stigmatizzazione, discriminazione ed emarginazione. In Italia, la legge di riforma dell’assistenza psichiatrica (180) e la conseguente chiusura del manicomio ha avviato processi efficaci per uscire dalla condizione dello statuto speciale.
Tuttavia nel momento in cui una persona viene sottoposta a un trattamento psichiatrico è opportuno prestare la massima attenzione affinché i diritti vengano rispettati. In proposito il Comitato nazionale di bioetica ha prodotto un documento di grande importanza[1] affrontando nel dettaglio le questioni della tutela della soggettività, del consenso e dei diritti delle persone con disturbo mentale.
Il Comitato sottolinea soprattutto la tutela della soggettività del malato in quanto è condizione indispensabile per la costruzione e lo sviluppo della libertà, la quale va intesa essenzialmente come processo di liberazione che ha origine da un’esigenza etica fondamentale della persona. Un concetto di libertà così inteso risulta strettamente connesso al principio di autonomia, che è riferito al rispetto assoluto della persona. Ma a evitare equivoci pericolosi va precisato che la tutela della soggettività del malato non consiste nel credere che egli sia libero (contro l’evidenza dei condizionamenti patologici di natura cognitiva e/o affettiva) bensì nell’aiutarlo a divenire libero.
Per quanto concerne la complessa questione dei limiti intrinseci al consenso informato delle persone con disturbo mentale è necessario in primo luogo chiarire la natura graduale e mutevole della capacità/incapacità di intendere e volere. Il percorso è estremamente vario e differenziato. Va innanzitutto osservato che tra l’assoluta incapacità di intendere e di volere, propria per esempio della demenza (un grave ed evidente danno al cervello), e la “normalità” vi sono una serie di gradi intermedi, dove deficit cognitivi e alterazioni affettive possono determinarne diminuzioni ma non l’assenza. Ciò non legittima comunque la rinuncia all’informazione ma comporta il criterio etico (ma anche clinico) della cautela nel vagliare caso per caso se, come, quando, fornire l’informazione e, soprattutto, una scelta puntuale delle modalità e della misura adatta alla singola persona in riferimento alla sua situazione e al suo contesto bio-psico-sociale ed esistenziale.
Alle persone affette da disturbo/disagio mentale/affettivo devono essere assicurati i diritti di tutti gli altri membri della comunità, anche indipendentemente dalla concreta possibilità di esercitarli. La particolare vulnerabilità di tali soggetti richiede infatti che sia rafforzato per essi il riconoscimento di una piena cittadinanza, il quale deve essere concretamente difeso e promosso in primo luogo attraverso il rispetto di alcuni diritti (e/o l’adempimento di alcuni doveri) fondamentali.
Nel corso degli anni sono state prodotte diverse Carte dei diritti degli utenti e degli operatori, che hanno coinvolto soggetti differenti: dallo stesso Comitato di bioetica ai sindacati, alle associazioni di familiari e utenti, alle Consulte nazionali per la salute mentale, alle Carte dei servizi di alcuni Dipartimenti Salute Mentale (DSM). Come il Decalogo che segue.
Diritti degli utenti
Alle persone con disagio o con disturbo mentale che utilizzano i servizi di un DSM devono essere garantiti tutti i diritti costituzionali e in particolare:
- diritto di libera espressione;
- diritto al rispetto delle proprie convinzioni morali, religiose e politiche;
- diritto al rispetto delle proprie scelte sessuali;
- diritto a comunicare con chiunque in qualsiasi momento;
- diritto di vedere riconosciute e rafforzate le proprie abilità e non solo di vedere evidenziate le proprie incapacità;
- diritto di essere informati su qualsiasi trattamento e di essere coinvolti nelle decisioni terapeutiche;
- diritto a non subire azioni (in particolare qualsiasi mezzo di contenzione fisica) che ledano l’integrità fisica e la dignità personale;
- diritto di scelta dell’equipe curante;
- diritto di associarsi;
- diritto di decidere che ogni atto di cura del corpo sia fatto da operatori oppure da operatrici dello stesso sesso.
2.2 Il TRATTAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO (TSO)
Prima della Legge 180, quando l’Ospedale Psichiatrico era l’unica possibilità di trattamento, di frequente le persone subivano per lunghi periodi di tempo l’internamento coatto. L’intento era quello di dare loro protezione e tutela, ma al contrario, causavano gravi danni derivanti dalla lunga istituzionalizzazione.
Oggi l’approccio al disturbo mentale grave è completamente cambiato. Esistono ormai trattamenti che riducono i sintomi, permettono comportamenti adeguati e ristabiliscono la relazione. I servizi territoriali possono garantire assistenza e continuità terapeutica a tutte le persone, quale che sia la loro condizione economica. Accade a volte che una persona non stia bene, rompa le sue normali relazioni, cambi le sue consuete abitudini, ed essendo affetta da un disturbo mentale grave non si renda conto di avere bisogno di cure. In questo caso bisognerà ricorrere al TSO. È un diritto della persona, della famiglia, che i servizi si attivino in tal senso. Quando perciò si dice che non lo si può fare «perché la persona si rifiuta», si viola le legge.
In Italia la legge che istituisce il TSO prevede che la persona resti comunque un cittadino che conserva i diritti fondamentali previsti dalla Costituzione. Quando una persona viene ricoverata contro la propria volontà, ciò deve avvenire al solo fine di sottoporla a dei trattamenti sanitari urgenti, e non per altri motivi come ad esempio ordine pubblico, controllo sociale o difesa di interessi di terzi. Il TSO non giustifica trattamenti contenitivi, come porte chiuse e contenzione meccanica né altre forme di coartazione della libertà o di offesa alla dignità della persona. Il TSO pretende una intensa, finalizzata e costante negoziazione con la persona.
Il TSO viene proposto da un medico, deve essere convalidato da uno psichiatra del servizio pubblico[2] e accolto dal sindaco che dispone l’ordinanza di ricovero, comunicando e trasmettendo al giudice tutelare del Tribunale competente il provvedimento entro 48 ore. Il giudice nel prenderne atto dovrà vigilare sulla corretta esecuzione del trattamento a garanzia dei diritti dalla persona in quanto a questa vengono temporaneamente limitate le libertà personali. Il TSO non può durare più di 7 giorni, fatto salvo che il medico non rinnovi la richiesta al sindaco. E allora il trattamento può durare di 7 giorni in 7 giorni per tutto il tempo necessario. Non è dunque vero quando si dice che una persona non può essere trattenuta più di 7 giorni. Anche in questo caso si sta violando la legge.
La richiesta deve contenere precise motivazioni. L’obiettivo è di rendere il TSO una misura di carattere terapeutico, prevalentemente transitorio e sottoposto a controllo.
Purtroppo in ognuna delle 20 Regioni e talvolta all’interno della stessa Regione le modalità di esecuzione hanno assunto caratteristiche differenti determinando disuguaglianze inspiegabili tra i cittadini italiani. In proposito la conferenza stato-regione e l’assemblea dei presidenti delle Regioni ha adottato di recente una Linea di indirizzo sull’attuazione del TSO: “Raccomandazioni in merito all’applicazione di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale” http://www.regioni.it/upload/odg_conreg_080409.pdf.
Esiste l’istituto dell’Accertamento sanitario obbligatorio (ASO) che permette di effettuare una visita medica a una persona non conosciuta e che rifiuta ostinatamente di essere visitata. Per richiedere un ASO basta la firma di un solo medico, convalidata dal sindaco. Sia l’ASO che il TSO devono venire effettuati nei tempi più brevi e nei modi più adeguati possibili, cioè mettendo in atto tutte quelle strategie volte a ottenere il consenso della persona previste dalla legge.
Le disposizioni di legge insomma offrono alle persone con disturbo mentale e alle loro famiglie tutti gli strumenti per impedire che conflitti di competenze tra amministrazioni, irrigidimenti burocratici o servizi riluttanti e autoreferenziali impediscano l’attivazione della presa in carico e delle cure.
Esistono infine situazioni in cui una persona può manifestare un evidente stato di sofferenza tanto profondo da impedirle la possibilità di esprimere la propria adesione al trattamento e altrettanto grave da richiedere cure urgenti e non rinviabili, dove neppure l’ordinanza del sindaco si può attendere. Si configura in questo caso una condizione, non infrequente, che è prevista e regolamentata dall’articolo 54 del Codice Penale[3], definita stato di necessità. In pratica il medico ha l’obbligo di intervenire quando la mancanza di adeguate e immediate terapie o comunque qualsiasi ingiustificato ritardo può cagionare danni irreversibili alla salute della persona se non addirittura la morte, anche se non c’è un consenso palese o addirittura se si manifesta un ostinato rifiuto alle cure. Questa misura che riguarda tutte le condizioni patologiche che possano richiedere un intervento urgente, come ad esempio traumi conseguenti a incidenti stradali, si applica anche alle persone che si trovano in uno stato di alterazione della coscienza o comunque delle capacità di giudizio in conseguenza di un disturbo mentale.
2.3 I CITTADINI CON DISTURBO MENTALE DI FRONTE ALLA LEGGE
Se una persona con disturbo mentale è accusata di aver commesso un delitto, è soggetta come tutti gli altri cittadini alle indagini, al processo e alle eventuali sanzioni previste dal Codice Penale. Tuttavia in quasi tutto il mondo si ritiene che gran parte dei reati commessi dalle persone con disturbo mentale sono influenzati da questa condizione e di conseguenza possono determinare particolari percorsi processuali.
In Italia, come quasi dappertutto, chiunque commetta un reato è responsabile e dunque punibile se è in possesso della propria capacità di intendere e di volere. Ma nel caso di disturbo mentale, cioè di infermità di mente, come recita il Codice, questa capacità può risultare parzialmente o totalmente assente.
Molto in breve, in caso di reato, se vi sia sospetto di malattia mentale, il giudice ordina una perizia psichiatrica e avvia un percorso che si può così sintetizzare:
àreato apparentemente incongruoàsospetto di malattia mentaleàperizia psichiatricaàinfermità di menteàincapacità di intendere e di volereànon imputabilitààproscioglimento[4]àpericolosità socialeàOspedale Psichiatrico Giudiziario.
Oppure:
àreato (apparentemente incongruo)àsospetto di malattia mentaleàperizia psichiatricaàseminfermità mentaleàparziale capacità di intendere e di volere àimputabilitààprocessoàeventuale condannaàcarcere.
Il Codice Penale definisce negli articoli 88 e 89 la questione dell’imputabilità in rapporto all’infermità mentale. Ogni volta che un cittadino affetto da un disturbo mentale è accusato di aver commesso un reato si può procedere a perizia psichiatrica e il perito deve rispondere alle domande del giudice che in genere vengono così formulate:
«Dica il perito se al momento in cui commise i fatti, l’imputato si trovasse in stato di infermità mentale tale da escludere o da scemare grandemente le sue capacità di intendere e di volere; quale sia la sua attuale condizione mentale; se sia persona socialmente pericolosa».
Il perito dovrebbe riferirsi non a principi astratti, ma a quella persona, a quel contesto, esprimendo il proprio parere rispetto a quel disturbo mentale, prescindendo dalle precedenti diagnosi, dalle cure fatte o ancora in corso.
L’esito della perizia può essere:
- assenza di infermità mentale. In questo caso la persona viene sottoposta a giudizio e il processo avrà il suo normale corso;
- presenza di infermità mentale. In questo caso si possono verificare due condizioni tra loro alternative:
- l’infermità è tale da escludere totalmente la capacità di intendere e di volere (vizio totale di mente/incapacità totale);
- oppure l’infermità è tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere (vizio parziale di mente o seminfermità/capacità ridotta).
Nel caso della totale incapacità, il giudice stabilisce che la persona non è imputabile e dunque la proscioglie perché non è possibile riconoscere la responsabilità personale, dunque non c’è stata una colpa soggettiva. E la malattia diventa il vero colpevole. Il Codice dunque stabilisce che il disturbo mentale ha condizionato e sovradeterminato il comportamento della persona e gli atti criminosi conseguenti.
In questo caso, se la perizia riconosce la pericolosità sociale, viene attivata la misura di sicurezza e la persona viene inviata all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) per due, cinque o dieci anni, in rapporto alla gravità, efferatezza e risonanza sociale del reato.
Diverso è il caso della seminfermità mentale: la capacità di intendere e di volere, per quanto ridotta, sussiste. La persona perciò è imputabile e viene sottoposta al processo. In caso di condanna vi sarà la diminuzione di un terzo della pena. Se riconosciuta anche socialmente pericolosa la persona verrà inviata in OPG solo dopo aver scontato la pena detentiva in carcere.
In Italia esistono 6 OPG, comunemente chiamati manicomi criminali. Montelupo Fiorentino che contiene circa 210 persone, mentre la sua capienza massima è di 188. Aversa, in provincia di Caserta, che ne contiene 170 sulle 150 previste. Napoli con 150 su 150. Reggio Emilia con circa 240 su una capienza di 190. Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, con circa 190 su 194 posti. L’unico ad avere anche un reparto femminile è quello di Castiglione delle Stiviere, Mantova, che contiene circa 170 persone, 86 delle quali sono donne.
In totale, alla fine del 2008, gli OPG avevano circa 1100 internati.
Queste istituzioni sono rimaste sostanzialmente estranee e impermeabili alla cultura psichiatrica riformata, e il meccanismo di internamento non è stato influenzato dalla legge 180. Molti giuristi, psichiatri, politici, opinionisti e cittadini attivi nelle associazioni riconoscono che la persistenza dell’OPG e delle stesse procedure per accedervi sono incostituzionali.
Alcune sentenze della Corte Costituzionale tendono a stabilire che la pericolosità sociale non può essere definita una volta per tutte, come se fosse un attributo naturale di quella persona e di quella malattia. Deve essere invece relativizzata, ovvero messa in relazione ai contesti, alla presenza di opportunità di cure e di emancipazione relative alla disponibilità di risorse e di servizi. Deve dunque essere vista come una condizione transitoria. E di conseguenza anche le misure di sicurezza vanno di volta in volta riviste e aggiornate. Vale a dire che le persone benché prosciolte, se non riconosciute socialmente pericolose, possono venire dimesse prima del tempo o non essere ricoverate affatto in OPG.
Ancora più recentemente altre due sentenze della Corte Costituzionale (n. 253/2003 e n. 367/2004) hanno dichiarato incostituzionale l’internamento in OPG rilevando che il ricovero in questo istituto costituisce una pesante disuguaglianza di trattamento rispetto a quanto la riforma sanitaria prevede.
I giudici rilevano che l’internamento è dannoso per tutti e che le cure psichiatriche devono svolgersi in ambito territoriale. Di conseguenza anche per le persone prosciolte e ritenute socialmente pericolose, bisogna prevedere un programma terapeutico e l’esecuzione della misura di sicurezza in ambito territoriale. Queste sentenze richiamano a un’assunzione di responsabilità dei Dipartimenti di Salute Mentale. Essi devono articolare un programma terapeutico riabilitativo, anche persistendo alcune limitazioni della libertà dovute alla misura di sicurezza. Questo significa che, già da oggi, un oculato uso di risorse e opportunità legislative può evitare il ricorso all’internamento in OPG.
In ogni caso bisogna porre molta attenzione perché le indagini giudiziarie vengano svolte con la massima oculatezza e si faccia di tutto affinché la persona venga portata in giudizio, evitando frettolosi proscioglimenti e dannosi invii in OPG, sia in corso di perizia, sia in attesa di giudizio.
In questo senso si è espresso il nuovo Codice di Procedura Penale (CPP), disponendo che le persone sospettate di reato, affette da disturbo mentale e soggette a custodia cautelare e che non possono avvalersi della libertà provvisoria e andare a giudizio «a piede libero», restino nel carcere del Tribunale competente per territorio. L’eventuale perizia deve svolgersi in carcere e non in OPG. Questa attenzione del nuovo CPP vuole evitare l’uso routinario e superficiale del manicomio giudiziario, un uso dannoso per la persona oltre che lesivo del suo diritto alla difesa. Tende invece a dare alle persone inferme di mente la possibilità di essere portate in giudizio, godendo in tal modo del diritto alla difesa come qualsiasi altro cittadino.
Se nel corso della custodia cautelare, nel carcere o agli arresti domiciliari, si manifesta una crisi o un bisogno di cure urgenti queste devono essere prestate dal locale Dipartimento di Salute Mentale e, se del caso, la persona deve essere ricoverata nel Servizio Psichiatrico Ospedaliero di Diagnosi e Cura, eventualmente piantonato. Oppure condotta agli arresti domiciliari presso un servizio territoriale aperto 24 ore. Mai inviata automaticamente all’OPG.
Tutti i detenuti e quindi anche quelli che soffrono di disturbi mentali, hanno dunque la possibilità di ricevere cure psichiatriche e psicologiche, oltre che mediche, sia dal personale del carcere che dai servizi territoriali di salute mentale.
Il decreto ministeriale 230/99 e in particolare il Progetto tutela salute mentale in ambito penitenziario dispone, nell’ottica dell’equità e del diritto alla cura, che i Dipartimenti di Salute Mentale operino anche all’interno delle carceri, con gli stessi obiettivi e con le stesse modalità utilizzate per tutti i cittadini di quel territorio.
Nel corso degli ultimi anni sono state presentate alcune proposte di legge per l’abolizione degli OPG. Un’ipotesi è la loro regionalizzazione, col passaggio dall’amministrazione penitenziaria a quella sanitaria. In tal modo i 6 OPG verrebbero progressivamente chiusi. Una seconda ipotesi prevede l’abrogazione degli articoli 88 e 89 del Codice Penale e porta in giudizio tutti i cittadini accusati di aver commesso un reato, ancorché affetti da disturbi mentali. Verrebbero sottoposti a normale processo ed eventualmente condannati e la successiva erogazione ed espiazione della pena verrebbe modulata in rapporto alle condizioni di salute mentale di ognuno. A questo punto potrebbero essere attuati particolari programmi terapeutici e riabilitativi sia all’interno del carcere che in corso di misure alternative alla detenzione quali la semilibertà, gli arresti domiciliari, l’ospitalità presso comunità terapeutiche o Centri di Salute Mentale. Col vantaggio che i cittadini, anche se «folli», riacquistano in pieno i loro diritti, compreso quello, apparentemente paradossale, di essere condannati, di poter espiare la pena, intaccando la pesantezza dello stigma che vuole «il folle» sempre incapace e irresponsabile.
2.4 I CITTADINI CON DISTURBO MENTALE E IL CODICE CIVILE
Oggi in Italia tutte le persone affette da disturbo mentale godono dei diritti garantiti dalla Costituzione. E anzi il pieno riconoscimento del diritto di cittadinanza è alla base di ogni programma di cura, riabilitazione, reintegrazione sociale.
Fino alla fine degli anni ‘70 e all’arrivo della legge 180, le persone che subivano il ricovero coatto in Ospedale Psichiatrico per più di 30 giorni venivano sottoposte d’ufficio al procedimento di interdizione che portava al decreto di ricovero definitivo. Di conseguenza veniva nominato un tutore. L’interdizione comportava e comporta la perdita dei diritti civili: non poter fare testamento, non poter contrarre matrimonio, non poter donare, non poter votare, non poter compiere atti di ordinaria o straordinaria amministrazione dei propri beni. Le persone affette da disturbo mentale venivano sottoposte, frequentemente con rigidi automatismi, a questi procedimenti d’interdizione, quando ricoverate in un Ospedale Psichiatrico ma anche soprattutto su richiesta di familiari interessati.
L’entrata in vigore della legge 180 ha eliminato alcuni di questi automatismi, come ad esempio la perdita del diritto di voto in corso di TSO, ma non ha cancellato le norme del Codice Civile che regolamentano l’istituto dell’interdizione e dell’inabilitazione. Ancora oggi, infatti, il Codice Civile prevede che per le persone che si ritrovino in una condizione di abituale infermità mentale, che le rende incapaci di provvedere ai propri interessi, può essere richiesto un provvedimento di interdizione, con la nomina di un tutore (art. 414 CC)[5].
Analogamente, per le persone la cui infermità non è talmente grave da impedire totalmente di provvedere ai propri interessi può essere richiesta l’inabilitazione, con la nomina di un curatore (art. 415 CC)[6].
Interdizione e inabilitazione vengono richieste al Tribunale, alla Procura della Repubblica, da un familiare, da un qualsiasi cittadino o anche da un operatore dei servizi pubblici. Il Procuratore nomina un giudice che istruirà il procedimento di interdizione. Può nominare un consulente tecnico, il perito, che dovrà accertare il grado di infermità della persona.
L’eventuale interdizione comporta dunque la perdita di molti diritti civili e la nomina di un tutore: l’interdetto non può compiere atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. L’inabilitazione invece comporta una perdita solo parziale di diritti civili e la nomina di un curatore: l’inabilitato non può compiere atti di straordinaria amministrazione, mentre può amministrare i propri beni in via ordinaria.
In estrema sintesi: mentre la persona interdetta non può amministrare nulla del proprio patrimonio, la persona inabilitata resta titolare del patrimonio e può disporre dell’eventuale stipendio o pensione, può comprare o vendere piccoli beni.
Alla luce delle attuali conoscenze, appare un pregiudizio gravissimo dare per scontato che le persone affette da un disturbo mentale, e anche da schizofrenia, siano per questo automaticamente incapaci e quindi da interdire oppure inabilitare. È sempre utile invece cercare strade e soluzioni che non sottraggano alle persone competenze e responsabilità, ma che al contrario le mantengano o gliele restituiscano. Molte volte infatti a un disturbo mentale, anche caratterizzato da sintomi evidenti, non corrisponde necessariamente una condizione di incapacità a curare i propri interessi.
E dunque già da diversi anni si è resa evidente la necessità di un progetto di riforma complessiva delle norme riguardanti interdizione e inabilitazione, che vengono considerate dai più eccessivamente severe e penalizzanti. Nel gennaio del 2004 è stata approvata dai due rami del Parlamento la legge (Legge 6 del 9-01-2004) che raccoglie, dopo vari anni di dibattito, i suggerimenti e le proposte provenienti sia dall’ambiente psichiatrico che da quello giuridico. La legge istituisce l’Amministratore di Sostegno e si integra con gli articoli del Codice Civile relativi a interdizione e inabilità. Questi dovranno essere utilizzati solo in casi estremi.
La legge, all’art.1 recita:
«La presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente».
In questa prospettiva la persona conserva una piena autonomia e l’Amministratore di Sostegno deve occuparsi soltanto di alcuni atti della vita civile e di alcuni aspetti di tipo patrimoniale su precisa e circostanziata indicazione del giudice.
Rispetto al passato il cambiamento, al di là delle formule giuridiche, è netto: lo scopo fondamentale degli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione era (ed è) la difesa del patrimonio, principalmente a tutela degli eredi aventi diritto. Il tutore o il curatore devono amministrare il patrimonio per conservarlo. L’attenzione alle condizioni di vita della persona tutelata finisce per essere subordinata alla conservazione del patrimonio.
L’Amministratore di Sostegno invece deve garantire un uso appropriato del patrimonio e ha come scopo fondamentale il benessere della persona. Più che un semplice amministratore patrimoniale è una figura che deve avere un rapporto paritario con la persona e aiutarla sulla base delle sue reali necessità.
(Per la visione completa della legge, approfondimenti e commenti consultare il sito www.forumsalutementale.it)
ALLEGATO 3
I SERVIZI DI SALUTE MENTALE
Il Dipartimento di Salute Mentale (DSM) è il cardine dell’organizzazione territoriale prevista dal Progetto Obiettivo Salute Mentale [vedi Allegato 2], ossia il modello organizzativo più adatto a garantire l’unitarietà degli interventi e la continuità terapeutica. Esso è la struttura operativa che permette ai principi della legge 180 di trasformarsi in realtà, passando dalla vecchia psichiatria di contenimento e di custodia nei manicomi a quella di prevenzione, cura e riabilitazione nel territorio.
Il DSM deve rispondere al bisogno di salute mentale dell’intera popolazione del territorio di competenza, definito per legge e incardinato, come tutti i servizi che si occupano della salute, in un’Azienda Sanitaria Locale (ASL). Il DSM è costituito da un insieme di strutture e di servizi tra loro integrati ed è commisurato alle specificità del territorio e alle sue risorse. Non deve essere un apparato burocratico che si realizza mantenendo in vita se stesso e la propria struttura. Tutt’altro: deve tendere a essere un utensile nelle mani del cittadino, uno strumento che deve portare alla concreta realizzazione di percorsi terapeutici concepiti per ogni singola persona. A ognuna di esse, deve poter offrire risposte personalizzate.
Il DSM deve operare per rimuovere qualsiasi forma di stigma, di discriminazione e di esclusione delle persone affette da disagio o da disturbo mentale. Di conseguenza, uno dei suoi compiti principali è quello di promuovere i pieni e completi diritti di cittadinanza per le persone con disturbo mentale.
Per sviluppare questi obiettivi, ogni DSM dovrebbe svolgere molteplici attività:
• educazione sanitaria;
• conoscenza dei bisogni e dei problemi di quel territorio;
• interventi nei luoghi e sui gruppi a rischio;
• integrazione con gli altri servizi socio-sanitari;
• interventi ambulatoriali;
• interventi a domicilio e nella comunità;
• programmi per l’integrazione sociale;
• risposta alla domanda urgente 24 ore su 24;
• sostegno al ricovero nell’Ospedale Generale;
• ospitalità 24 ore su 24 con assistenza intensiva;
• residenzialità e semi-residenzialità terapeutica e riabilitativa;
• programmi per evitare il ricorso all’istituzionalizzazione;
• lavoro con i familiari;
• programmi specifici di formazione e inserimento lavorativo;
• interventi per la tutela della salute mentale in ambito penitenziario.
Per poter garantire che ogni servizio per la salute mentale operante nell’ASL contribuisca al funzionamento complessivo di questi progetti, il DSM deve assicurare unitarietà di indirizzo. Un saldo coordinamento operativo, sia all’interno della struttura dipartimentale sia tra questa e i Distretti sanitari, gli ospedali e i servizi sociali di base serve a evitare frammentarietà e difformità nei comportamenti.
Ogni Regione, sulla base dei suoi piani sanitari, deve proporre un regolamento tipo per il DSM per ogni ASL. E, su tali indicazioni, ogni DSM deve elaborare un regolamento dettagliato che dichiari l’assetto organizzativo, le modalità operative e l’impegno a offrire percorsi terapeutici per ogni singola persona.
Lo scopo finale di un’organizzazione di servizi di salute mentale deve essere quello di creare le condizioni necessarie per includere la persona nella vita collettiva, che esiste soprattutto fuori dai servizi: programmi terapeutici e riabilitativi, risorse economiche e relazionali, opportunità lavorative e abitative.
Ogni DSM deve essere costituito da 3 unità operative: il Centro di Salute Mentale, il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, le Strutture Residenziali e Semiresidenziali. Le cooperative sociali possono essere accreditate dal DSM e contribuire allo sviluppo dei programmi terapeutico riabilitativi.
Il Centro di Salute Mentale (CSM)
L’attività del CSM, rivolta soprattutto alla diagnosi, alla cura e alla riabilitazione, si occupa delle persone adulte di un dato territorio. In una parola deve garantire la presa in carico della persona con disturbo mentale: la molteplicità dei suoi problemi, il sostegno alla sua famiglia, la conoscenza e la mediazione dei conflitti che nel contesto della sua vita accadono. I CSM costituiscono dunque il nucleo centrale del DSM e hanno una sede operativa. Per funzionare bene un CSM deve intervenire su aree relativamente piccole, con una popolazione compresa tra i 50.000 e gli 80.000 abitanti, ed essere facilmente accessibile e raggiungibile.
Nel CSM i cittadini con problemi più o meno gravi devono trovare operatori che accolgono e valutano la loro domanda e, se del caso, attivano immediatamente una concreta risposta. Qui si svolgono colloqui terapeutici con le persone e con i familiari, interventi farmacologici, si programma l’attivazione delle risorse sociali e da qui partono gli operatori per le visite domiciliari e le consulenze esterne.
Il CSM dovrebbe essere aperto almeno 12 ore al giorno per 6 giorni la settimana. Al meglio, come accade in alcune Regioni, sono aperti 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e ospitano le persone anche di notte.
Ogni CSM deve garantire le seguenti attività:
Visita ambulatoriale
Corrisponde alla prima visita o a visite successive. Può essere una semplice consultazione o anche la verifica dell’andamento del programma terapeutico. Durante la visita ambulatoriale si scambiano notizie e pareri con la persona e/o con i suoi familiari, si realizza il sostegno psicoterapeutico, si effettuano controlli sul trattamento farmacologico, si danno consigli o si interviene in situazioni di crisi. È in questa sede che si preparano certificati medici e relazioni sanitarie specialistiche.
Visita domiciliare
Programmata o svolta in urgenza, la visita domiciliare consente la conoscenza delle condizioni di vita della persona e della sua famiglia. In certi casi serve a mediare i conflitti nelle relazioni di vicinato, specie nell’intervento in situazioni di crisi. Per le persone che hanno difficoltà a recarsi al servizio, viene utilizzata per somministrare la terapia farmacologica e portare sostegno, o accompagnare a/da casa, in ospedale, negli uffici pubblici, a corsi di formazione e al lavoro.
Ospitalità diurna/Day Hospital
L’ospitalità per alcune ore, o per l’intera giornata, deve essere disponibile per offrire una condizione di temporanea protezione o tutela, specie negli stati di crisi o di tensione, per favorire il distanziamento dal proprio gruppo di convivenza e alleggerirne il carico. L’ospitalità è inoltre indispensabile per seguire terapie farmacologiche e per il sostegno psicoterapeutico, per stimolare la partecipazione ad attività individuali e di gruppo, a programmi di orientamento, a percorsi di informazione e formazione. La sede dell’ospitalità diurna può essere anche il CSM.
Ospitalità notturna
Laddove il CSM è aperto 24 ore su 24, per periodi di tempo variabili da una notte a più settimane bisogna prevedere per le persone prese in carico anche l’ospitalità notturna presso il Centro. Invece quasi dovunque accade che tale ospitalità diventi un ricovero nel servizio ospedaliero o in una clinica privata. Non dovrebbe essere così, se non in casi eccezionali.
Lavoro terapeutico individuale
L’equipe del CSM deve poter offrire incontri programmati, orientati all’ascolto e all’approfondimento dei problemi e delle condizioni di vita della persona. La dimensione individuale del colloquio facilita il confronto nell’acquisizione di nuovi punti di vista, consente forme di apprendimento e di rassicurazione, stimola maggiore consapevolezza, aiuta a intravedere vie d’uscita e a costruire nuovi equilibri.
Lavoro terapeutico con la famiglia
Altrettanta attenzione deve essere riservata alla famiglia. Incontri programmati per verificare e discutere le dinamiche e i conflitti interni, allo scopo di favorire una maggiore conoscenza e partecipazione ai problemi, e per stimolare possibili cambiamenti e costruire alleanze, sulla base di una consapevole adesione al programma terapeutico.
Attività di gruppo
Ogni CSM deve programmare molteplici incontri, in cui il confronto e lo scambio di informazioni su problemi comuni rafforza la capacità di conoscersi reciprocamente, organizzando la partecipazione e il tempo libero, costruendo e ampliando la rete sociale.
Il lavoro di gruppo tra operatori e utenti, spesso con la partecipazione di volontari, ha soprattutto lo scopo di attivare una rete sociale che vada al di là della famiglia, in cui possono essere coinvolte figure significative, come amici, colleghi di lavoro, vicini di casa o altri che svolgono un ruolo importante nel processo terapeutico e di reintegrazione sociale.
Incontri di gruppo vengono proposti anche ai familiari, per migliorare le loro conoscenze intorno al disturbo mentale, accrescere nel confronto reciproco la capacità di fronteggiare i problemi e gli stati di crisi, arricchendo la rete di relazioni su cui si basa il mutuo aiuto.
Interventi di abilitazione e prevenzione
Si tratta di iniziative, dirette e indirette, che favoriscono percorsi di accesso all’informazione e alla cultura, alla formazione e all’inserimento lavorativo. Essenziali strumenti di queste attività sono le cooperative sociali, i laboratori espressivi, la scuola, le attività sportive e ricreative, i gruppi di aggregazione giovanile e di autoaiuto, le associazioni.
Sostegni per l’accesso ai diritti e alle opportunità sociali
Sono interventi e programmi a favore di quelle persone e delle loro famiglie che a causa del disturbo mentale incorrono in condizioni di svantaggio. Prevedono l’erogazione da parte delle ASL e dei Comuni di assegni economici di integrazione sociale, di formazione al lavoro, di sostegno alle attività riabilitative. Oppure, in via indiretta, inviando o accompagnando le persone presso enti e istituzioni con medesime finalità. Come ad esempio l’Azienda Territoriale Edilizia Residenziale, il Tribunale, le Fondazioni, l’Istituto Nazionale Previdenza Sociale, l’Ufficio di collocamento.
Tali programmi possono inoltre prevedere, in accordo con la persona, la gestione e l’amministrazione del patrimonio.
Sostegni all’abitare
Programmi terapeutico-riabilitativi svolti a domicilio o in condizioni di residenzialità, come gruppi appartamento, comunità alloggio, comunità terapeutiche, gruppi di convivenza, mirati a sostenere le capacità di vita quotidiana, per preservare o riapprendere abilità sociali e interpersonali, di vita in gruppo. I programmi comportano differenti gradi di assistenza e di protezione, in rapporto ai bisogni delle persone.
Attività di consulenza
Interventi presso servizi sanitari o reparti ospedalieri ove siano ricoverate persone già in cura al servizio di salute mentale. Ma anche consulenze per persone ricoverate in ospedale, non note al servizio, al fine di svolgere approfondimenti diagnostici, consigliare terapie specifiche, avviare l’eventuale presa in carico. La consulenza deve essere attiva anche con il carcere, per persone detenute che presentano problemi e disturbi mentali. Il lavoro con il medico di medicina generale è parte integrante dell’attività di consulenza.
Telefono
Segnalazioni, consigli, appuntamenti, verifiche. Anche in caso di urgenze.
Alla luce delle esperienze fatte fino a oggi, ascoltando le persone che hanno usufruito di questi servizi, si può affermare che un CSM orientato alla guarigione deve essere capace di farsi carico del benessere, incluso quello materiale di base, delle persone con disturbi mentali rilevanti, coltivare attivamente gli interessi delle persone, fornire una gamma di servizi e di programmi per dare risposte alle esigenze abitative, formative e lavorative di ogni singolo individuo, offrire sostegno alle famiglie, agli amici e ai componenti della comunità, sostenere le persone a vivere nelle relazioni e ad avere un ruolo sociale nella collettività e nel territorio.
Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC)
L’attività dell’SPDC si integra con tutte le articolazioni del DSM e deve essere strettamente legata e subordinata a quella del CSM territoriale. Infatti, l’SPDC è collocato all’interno dell’Ospedale Generale, ma per il suo buon funzionamento deve essere collegato amministrativamente, funzionalmente ed operativamente al DSM. Va precisato che non si tratta di una divisione ospedaliera né di un reparto psichiatrico di alta sorveglianza, ma di un servizio strategicamente funzionante all’interno del sistema dei servizi di salute territoriale.
L’SPDC è il luogo dove vengono in genere attuati trattamenti sanitari volontari e obbligatori in condizioni di ricovero. Esplica attività di consulenza alle altre divisioni ospedaliere e risponde alle situazioni di emergenza. L’equipe terapeutica dell’SPDC effettua la valutazione specialistica, presta le prime cure e, se del caso, avvia un programma terapeutico coinvolgendo il CSM cui fa riferimento la persona. Quando non sono possibili altre forme di intervento l’SPDC ricovera la persona. Ciò accade più spesso se i CSM non dispongono di risorse e programmi territoriali adeguati.
Il numero dei posti letto per legge non deve superare le 16 unità e comunque il numero globale dei posti letto disponibili per la risposta all’emergenza e alla crisi deve essere proporzionato alla popolazione nella misura di circa un posto ogni 10.000 abitanti. Ogni SPDC deve essere dotato di spazi adeguati per garantire il rispetto della privacy e dei diritti, che devono essere riconosciuti non solo a qualsiasi ricoverato ma anche alle persone in TSO. Pertanto le porte dell’SPDC devono essere aperte e per nessuna ragione si deve ricorrere alla contenzione.
L’SPDC deve prestare la massima attenzione alla durata del ricovero, affinché non produca danno alla persona.
In casi del tutto particolari, i ricoveri possono essere concordati con l’autorità giudiziaria: ad esempio, nei confronti di detenuti con patologie psichiatriche oppure di persone che, imputate per aver commesso un reato in condizioni di sofferenza psichica, sono in attesa delle decisioni del giudice.
L’SPDC per le funzioni che svolge, per le pressioni che subisce se non adeguatamente inserito nella rete dei servizi, per l’inerzia delle risposte ripetitive che è costretto a dare, per la scarsa attenzione che in molte Regioni è stata posta allo sviluppo della rete territoriale, per la demotivazione che in questo clima subiscono gli operatori è oggettivamente esposto al rischio di reintrodurre una dimensione manicomiale.
Le strutture residenziali e semiresidenziali (SR)
Rispondono al bisogno abitativo delle persone per periodi più o meno lunghi, talvolta per tutta la vita.
Si parla di Comunità terapeutica o di strutture ad alta intensità terapeutico/riabilitativa quando gli operatori sono presenti 24 ore su 24 e quando sono particolarmente attivi programmi individuali abilitativi ed emancipativi.
Si parla di Gruppi appartamento quando gli operatori a sostegno sono presenti per 12 ore della giornata. In questo caso le persone residenti hanno un discreto livello di abilità e di autonomia e dunque sono attivi programmi individuali rivolti sopratutto all’integrazione sociale e a garantire una possibilità abitativa dignitosa.
Si parla di Casa alloggio o di Nucleo di convivenza quando più persone sono stimolate a vivere insieme e a condividere l’appartamento e le spese di gestione. La presenza degli operatori è quindi ridotta ad alcune ore del giorno oppure in occasione di particolari eventi o necessità. Lo scopo è quello di garantire un’integrazione delle persone con la struttura sociale circostante assicurando loro un abitare dignitoso.
Queste strutture non dovrebbero essere luoghi sostitutivi del manicomio, luoghi di abbandono passivo e cronico, ma rappresentare un’alternativa dinamica al rischio dell’istituzionalizzazione.
Le esperienze fatte finora permettono di fornire un’indicazione realistica del fabbisogno di posti residenziali per le persone con disturbi mentali. Il Progetto Obiettivo indica sufficienti 2 posti ogni 10.000 abitanti ma ciò che più importa è come sono organizzati, utilizzati e intergrati con il territorio circostante questi servizi.
Le Strutture semiresidenziali, come i Centri diurni ospitano le persone durante il giorno e prevedono programmi terapeutico-riabilitativi individuali e di gruppo. Possono avere sede nella stessa struttura che ospita il CSM e prestano particolare attenzione ai percorsi di formazione al lavoro, di socializzazione e di recupero delle abilità nella cura di sé, nelle attività della vita quotidiana e nelle relazioni interpersonali individuali e nell’inserimento lavorativo.
ALLEGATO 4
IL SUICIDIO
Ogni 40 secondi una persona nel mondo si toglie la vita. Oltre 1 milione di persone nel mondo muoiono per suicidio ogni anno. In molti paesi industrializzati il suicidio è la seconda/terza causa di morte tra gli adolescenti e i giovani (15-24 anni).
Ogni 4 secondi una persona al mondo tenta di togliersi la vita. È scientificamente provato che ogni suicidio colpisce emotivamente e in maniera molto profonda almeno altre 6 persone. Se si verifica in una comunità organizzata (scuola, posto di lavoro etc.) può avere un effetto su centinaia di persone.
Il tasso europeo dei suicidi è particolarmente elevato in alcune aree del Nord e dell’Est (tra i 25 e i 35 suicidi per ogni 100.mila abitanti, fino a picchi oltre i 50 in alcune zone geografiche e momenti storici particolari). Nettamente inferiore, il tasso dei paesi mediterranei (sotto i 10 suicidi per ogni 100.mila abitanti). Il tasso italiano è quello dei paesi dell’area mediterranea (8).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), le Nazioni Unite e molte altre agenzie internazionali preposte alla promozione della salute identificano il suicidio come una questione di salute pubblica prioritaria, che può essere ampiamente prevenuta.
Pur essendo tra le prime 10 cause di morte nel mondo per persone di tutte le età, il suicidio è una delle cause di morte che più di ogni altra può essere prevenuta. Prevenire il suicidio comporta innanzitutto la costruzione di strategie e percorsi di speranza, attraverso il coinvolgimento della comunità nella sua interezza: istituzioni, famiglia e singoli individui.
A partire dal 1996 l’ONU e l’OMS hanno consigliato alle nazioni di attuare programmi di prevenzione del suicidio con strategie mirate ad ampio raggio. Nella lunga e articolata lista delle strategie consigliate si legge:
«INCORAGGIARE UN’INFORMAZIONE RESPONSABILE DA PARTE DEI MEDIA».
Numerosi studi e ricerche dimostrano infatti la correlazione tra notizie riportate da Tv e giornali (ma anche Internet) inerenti il suicidio e l’aumento di questo fenomeno nel periodo immediatamente successivo e soprattutto tra le persone giovani.
Gli esperti ritengono che non siano le notizie sui suicidi di per sé a colpire le persone già vulnerabili e per certi versi più “predisposte”, bensì alcune modalità di riportare le notizie. La questione non è dare o non dare la notizia di un suicidio, bensì come darla. Il ruolo dei Mass Media nella prevenzione del suicidio sembra essere quindi non meno determinante di altri fattori sociali, quali la famiglia, la scuola, le strutture sanitarie e la comunità nel suo insieme.
Ricerca ed esperienza sono giunte alla conclusione che sia possibile ipotizzare un “giornalismo della prevenzione”, e hanno tracciato alcune linee guida in questo senso. Numerosi studi e ricerche dimostrano infatti la correlazione tra notizie riportate da Tv e giornali (ma anche Internet) inerenti il suicidio e l’aumento di questo fenomeno nel periodo immediatamente successivo e soprattutto tra le persone giovani.
Quale tipo di informazione può aiutare.
- Un’informazione che insista nel trattare il suicidio come “l’illusione di una soluzione definitiva” di difficoltà, se pur complesse, comunque passeggere e che incoraggi la ricerca di altre, fattibili e mai estreme soluzioni.
- Un’informazione “preventiva” sul fenomeno del suicidio in generale, che esponga dati statistici, risultati di ricerche, spiegando i fattori di rischio e le modalità di affrontamento e di prevenzione, trattando il fenomeno come un problema di salute pubblica.
- Un’informazione particolarmente attenta, nella forma come nei contenuti, ai sentimenti e alla condizione dei familiari e degli intimi della persona che ha compiuto il suicidio.
- Un’informazione che metta in guardia i cittadini sui fattori o segnali di rischio.
- Un’informazione costante e iterata sulle istituzioni e i servizi che possono essere di aiuto e sostegno.
Quale tipo di informazione può danneggiare.
1. Un’informazione dell’episodio del suicidio con:
• descrizioni dettagliate del fatto;
• la pubblicazione di fotografie o, nel caso della televisione, le riprese del fatto;
• la pubblicazione di nome, cognome e indirizzo della persona che ha compiuto il suicidio o di altri elementi di identificazione, comprese le iniziali anagrafiche;
• la pubblicazione della notizia in prima pagina, con tanto di locandina o come notizia in apertura di un telegiornale;
• la descrizione particolareggiata del luogo, del tempo, delle modalità (metodo) e dei moventi ipotizzati.
2. Un’informazione che rappresenti il suicidio come un atto di difesa della propria dignità da parte di chi lo compie o addirittura come un gesto eroico o romantico.
3. Un’informazione di stampo sensazionalistico o scandalistico al fine di attirare un maggior numero possibile di lettori o di pubblico.
4. Un’informazione che descriva il suicidio come unica soluzione possibile per quella persona.
5. Un’informazione che insista sulla ricerca dei “colpevoli” ovvero di coloro o di quelle circostanze che avrebbero spinto la persona a compiere il gesto.
6. Un’informazione che esprima giudizi o analisi affrettate e non pertinenti.
I Mass Media hanno inoltre il potere di influenzare positivamente:
- la comprensione del problema del suicidio attraverso una corretta e consapevole informazione;
- le opinioni distorte della comunità e dei singoli rispetto al fenomeno del suicidio (pregiudizi, miti, credenze false e nocive);
- la diffusione di modalità costruttive di risoluzione delle difficoltà e dei momenti di crisi che potrebbero portare al suicidio;
- la diffusione della conoscenza delle forme e delle fonti di aiuto: chi e che cosa potrebbe aiutare. (Servizi di salute mentale sul territorio, programmi pubblici dedicati, numeri di telefono e ogni altra informazione del caso).
I Mass Media hanno inoltre il potere di:
- rafforzare nelle persone la sensazione di non avere via di uscita e la convinzione semplicistica e fatalistica che – per esempio – “Trieste è una città di suicidi”;
- rafforzare i sensi di colpa e di vergogna nelle persone che si trovano a vivere momenti di particolare difficoltà o crisi;
- enfatizzare una determinata visione della vita e del mondo che può indurre le persone a rassegnarsi a un certo tipo di soluzione.
Alcune domande che il giornalista può farsi:
- Quello che ho scritto va al di là di quello che serve veramente? (Tutto ciò che è inutile è dannoso).
- Sto calpestando la dignità di una persona, che sia viva o meno?
- Se qui davanti alla scrivania ci fossero i familiari di quella persona, scriverei allo stesso modo? (Si sostiene che nel 99% dei casi la notizia cambia e nel 100% dei casi cambia il titolo).
- Ho dimenticato qualcosa? Ho consultato gli esperti, chi potrebbe saperne di più?
GLOSSARIO
(in costruzione)
I cittadini con disturbo mentale hanno espresso il volere di essere chiamati anzitutto persone, persone con un problema di salute, e giammai con questo identificati. Non «la depressa» ma «una donna con depressione/che soffre di depressione»; non «lo schizofrenico» ma «un uomo con schizofrenia/affetto da schizofrenia»; non «lo psicopatico» ma «un uomo con problemi/disturbi psicologici/psichiatrici»; non «i malati di mente» ma «persone con un disturbo mentale/con l’esperienza del disturbo mentale».
Ma più delle parole in sé, ciò che conta è il contesto in cui le si dice o scrive e l’intenzione con cui lo si fa, il senso che vi si attribuisce.
A partire da qui La Carta di Trieste intende promuovere un dialogo tra le persone con l’esperienza del disturbo mentale, i giornalisti e gli operatori della salute mentale, che faccia riflettere sulle “Parole che fanno bene” e sulle “Parole che fanno male”. E provare a costruire insieme una sorta di Glossario ragionato che possa servire da guida a orientarsi nel complesso mondo della informazione e comunicazione intorno alla salute mentale.
Un modo di procedere potrebbe essere quello di individuare le “Parole che fanno bene” e le “Parole che fanno male” e i rispettivi contesti di vita e di senso, prendendo spunto dall’elenco proposto di seguito.
Parole che fanno bene/parole che fanno male
Che avvicinano/che allontanano
Che riscaldano/che raggelano
Che rispettano/che calpestano
Che rassicurano/che inquietano
Che divertono/che annoiano
Che uniscono/che separano
Che accomunano/che isolano
Che valorizzano/che sviliscono
Che apprezzano/che disprezzano
Che aggiungono/che sottraggono
Che curano/che ammalano
Che guariscono/che feriscono
Che accolgono/che abbandonano
Che aprono/che chiudono
Che rivitalizzano/che uccidono
Che svegliano/che addormentano
Che liberano/che imprigionano
Che incoraggiano/che scoraggiano
Che rinvigoriscono/che indeboliscono
Che danno speranza/che affliggono
Che lodano/che fanno vergognare
Che arricchiscono/che impoveriscono
Che amano/che disamano
Che diversificano/che omologano
Che comprendono/che giudicano
Che assolvono/che condannano
Che dicono la verità/che mentono
Che garantiscono/che tradiscono
Che raddrizzano/che distorcono
Che creano/che distruggono
Che salvano/che rovinano
Che proteggono/che mettono in pericolo
Che conciliano/che fomentano
Che disarmano/che armano
Che addolciscono/che amareggiano
Che scherzano/che offendono
Che rabboniscono/che incattiviscono
Che abbelliscono/che imbruttiscono
Che ragionano/che sragionano
Che spiegano/che stravolgono
Che meravigliano/che deludono
Che stupiscono/che lasciano perplessi
Che rallegrano/che rattristano
Che danno felicità/che danno infelicità
Che spronano/che commiserano
Che infondono fiducia/che rendono sfiduciati
Che fortificano/che logorano
Che includono/che escludono
Che profumano/che puzzano
Che suonano/che stonano
Che stimolano/che stufano
Che ravvivano/che stancano
Che emancipano/che emarginano
Che riempiono/che esauriscono
Che ricuciono/che lacerano
Che mettono in gioco/che fissano
[1]Governo Italiano. Comitato nazionale della bioetica. Parere del comitato su psichiatria e salute mentale. 24 novembre 2000. http://www.governo.it/bioetica/testi/241100.html
[2]In molte Regioni è accaduto e ancora purtroppo accade che il TSO venga richiesto e poi convalidato a due medici entrambi non psichiatri. Questo fatto ha destato l’attenzione di una commissione del Parlamento europeo sui diritti dei malati che ha prodotto una raccomandazione al governo italiano affinché sempre il TSO sia sottoscritto da almeno uno psichiatra.
[3]Art. 54 Cod. Penale. «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia, ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo».
[4]Proscioglimento: è la sentenza emessa in fase istruttoria o dibattimentale in cui si dichiara di non doversi procedere nei confronti dell’imputato. Nel nostro caso questa sentenza è giustificata dall’infermità mentale riconosciuta e dalla conseguente incapacità.
[5]Art. 414 Cod. Civile. «Il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovino in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, devono essere interdetti».
[6]Art. 415 Cod. Civile. «Il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo all’interdizione, può essere inabilitato […]».