TRIESTE Nasce in occasione di un incontro tra operatori con alcuni giornalisti, e prende corpo sulla scia della Carta di Roma il protocollo deontologico sulla corretta informazione in tema di immigrazione. La Carta di Trieste sta seguendo lo stesso percorso, com’è emerso ieri durante il “Forum Impazzire si può”, che si conclude oggi nel teatro di San Giovanni, dalle 14.30, con la sessione per indicare le ”Buone pratiche” e con la sottoscrizione di un documento per il riconoscimento pieno e concreto del diritto ”alla guarigione” nelle prassi e nelle metodologie dei servizi.
«Abbiamo dovuto rendere conto di come talvolta vengano usate in maniera impropria certe parole – dice Roberto Natale, presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, a proposito della ”Carta di Trieste” – da qui è nata un’analisi che ha portato a questo documento». Se per la Carta di Roma lo spunto fu la strage di Erba, quando tutta la stampa italiana puntò il dito su Abdel Fami Marzouk, nell’occasione del disagio mentale non c’è stata una specifica causa scatenante, ma anni di annotazioni raccolte dagli operatori che hanno messo in luce l’uso superficiale e impreciso delle parole intorno alla questione dei problemi psichici: «È capitato di sentirci chiedere perché usiamo frequentemente l’aggettivo “schizofrenico”, anche in contesti che non hanno nulla a che vedere con il disagio mentale; per esempio quando scriviamo “partito schizofrenico”».
Effettivamente le parole sono importanti, diceva Moretti in “Palombella rossa”, è necessario quindi evitare di ridurle a semplici significanti: «Prendiamo proprio l’aggettivo “schizofrenico” – continua Natale – il giornalismo lo adopera con un preciso significato, quello di inaffidabilità, pericolosità, imprevedibilità, mentre gli operatori precisano come ciò non corrisponda alla letteratura scientifica: solo lo 0,02% delle persone schizofreniche tende a commettere atti violenti. Quindi è una terminologia che inchioda erroneamente il malato alla sua malattia».
Tra gli impegni c’è anche l’inserimento di un capitolo sulla salute mentale all’interno del programma per l’iscrizione all’Albo dei giornalisti. Certo fare un elenco di buoni propositi è abbastanza facile. La cosa più difficile, ma allo stesso tempo più importante, è fare in modo di avere gli strumenti per tradurre questi nobili intenti in comportamenti quotidiani.
La questione della formazione quindi diventa fondamentale. Ma i giornalisti saranno poi così bravi da applicare questo codice evitando la morbosità dei luoghi comuni? «È un salto culturale non facile, ma l’impegno delle rappresentanze del giornalismo italiano c’è tutto. Nelle dispense per i prossimi esami di stato è già inserito un capitolo sul corretto modo di trattare i temi dell’immigrazione. Ciò dimostra come il nostro giornalismo stia prendendo sul serio il suo impegno per una informazione più rispettosa nei confronti dei soggetti a cui si rivolge. Inoltre stiamo facendo un ulteriore passo, come ha dimostrato l’appuntamento di Trieste. Perché non si è trattato di un incontro dove noi abbiamo parlato e le persone con disagio mentale sono state ad ascoltare. Ma di un confronto paritario tra giornalisti, operatori e coloro che della nostra informazione sono oggetto e domani vorranno farci sentire che sono anche “soggetto”».
Ma attenzione, questi documenti non sono finalizzati a un trattamento di favore per gli individui con disturbi psichici. A confermarlo la ripresa dall’articolo 2 della Legge istitutiva dell’Ordine, che è un po’ il pilastro della questione: «Al giornalista è richiesto il rispetto della verità sostanziale dei fatti – osserva il presidente della Fnsi – non chiediamo un’informazione buonista, ma un’informazione che sappia inserire i fatti osservati dentro ai loro precisi contesti sociali». Quindi stop ad appellativi tipo “partito schizofrenico” o “leader catatonico”: «Perché questo evoca e riafferma un disagio nei famigliari di chi soffre di questi disturbi e nel malato stesso, destabilizza e confonde».
C’è da chiedersi se rimarrà un fatto di coscienza personale o se siano invece previste conseguenze per i giornalisti che non rispettino questo protocollo: «Come per qualsiasi articolo dei nostri codici deontologici – conclude Natale – se si commettono delle violazioni, l’Ordine può sanzionarti. La Carta di Trieste non ha intenzione di rimanere confinata nell’ambito delle prediche virtuose». Sì è vero, le parole sono davvero importanti. Bisogna vedere se non sia altrettanto importante fare attenzione alla paura di usarle.
da Il Piccolo del 24.06.2010, di MARY B. TOLUSSO