di Anna Poma
P: Da quando hai interpretato C’era una volta la città dei matti nel ruolo di Franco Basaglia, vieni continuamente interpellato sui temi messi in campo dal film. Lo sto facendo anch’io ora, come te lo spieghi?
G: Al recente convegno di Psichiatria democratica, ho iniziato l’intervento che mi era stato richiesto, ponendo proprio questa domanda, come mai, a più di quattro mesi dalla messa in onda del film, io sia stato e continui ad essere invitato a così tanti incontri tra l’istituzionale, l’università, il convegno scientifico; visto che qualsiasi persona minimamente ‘assennata’ capisce che non sono Basaglia ma un attore che ha fatto (forse con qualche merito) quel ruolo e che resta comunque un attore. A quegli inviti, dunque, avrei potuto rispondere tranquillamente: “ grazie, io faccio l’attore ma non sentendomi un tuttologo non posso partecipare ad ogni tipo di convegno”. Eppure sentivo che in questo caso, se mi invitavano, forse era giusto portare la testimonianza di questo strano legame, così forte, che si era creato con il ruolo che avevo interpretato e questa materia così complessa. Un legame fatto, da un lato, anche dalla soddisfazione di aver partecipato a un film che indubbiamente ha il merito di aver rimesso emozionalmente al centro della discussione un territorio che per molti è pane quotidiano, ma per molti altri era quasi completamente sconosciuto. Il fatto che questo film sia stato visto da 6 -7 milioni di persone, gran parte delle quali non conoscevano minimamente la storia di Basaglia e dei grandi cambiamenti che sono avvenuti nel campo psichiatrico e non solo, negli anni ’70, mi è sembrato un fatto molto importante. E questo forse da solo basterebbe per spiegare tante cose. Dall’altro lato, forse, c’è stata la percezione, da parte di chi ha visto il film o che mi ha sentito parlare, che questo lavoro, per me come per altri, sia andato molto oltre i confini di un’interpretazione.
P: Non era la prima volta che incontravi questa storia : anche nella Meglio Gioventù avevi incrociato la vicenda della chiusura dei manicomi e le sue conseguenze sulla vita di Giorgia, la giovane protagonista internata. E’ stata una fascinazione culturale ad agganciarti o qualcosa di diverso e di più profondo?
G : la fascinazione culturale di cui parli è qualcosa che mi porto appresso da molto tempo, anche da prima della Meglio Gioventù nel senso che la vicenda di Franco Basaglia e della rivoluzione psichiatrica in Italia è qualcosa che conoscevo, non così approfonditamente, ma da tanti anni, proprio per motivi di personale interesse storico e culturale. Ma essere sprofondato, insieme al personaggio che ero chiamato a rappresentare e a far rivivere, in quella storia mi ha agganciato invece da atre traiettorie. Dentro e fuori dal set, cioè prima, durante e dopo il lavoro. Non soltanto perché in qualche modo lo sforzo di far rivivere quello sguardo e quella capacità di ascolto, che tanto ci mancano oggi, mi hanno fatto entrare simpateticamente in quello stato d’animo; ma anche per quello che ho vissuto prima, durante e dopo la lavorazione del film. In tutto il periodo “goriziano”, passato negli ex padiglioni dell’Ospedale Psichiatrico di Imola, venendo a contatto con persone che vivevano o avevano vissuto realmente una condizione di disagio psichico, con i veri luoghi, con le vere macchine con cui si praticava l’elettroshock , con i camici veri che venivano indossati dagli infermieri un tempo, e soprattutto con gli occhi delle persone che incrociavo, che non erano occhi di comparse ma di ragazze e ragazzi, uomini e donne che stavano vivendo con entusiasmo quell’esperienza artistica ma che portavano i segni della loro storia. Oppure a Trieste, il lungo viaggio fatto soprattutto insieme a Peppe Dell’Acqua in tutte le strutture create attraverso il loro lavoro sul territorio triestino, i nuovi centri di salute mentale, le microaree, avere la possibilità di seguire Peppe nei suoi incontri con i pazienti, quando terminavo le riprese; avere avuto la possibilità di vedere con i miei occhi in cosa consista realmente questo cambiamento nella pratica quotidiana, questo mi ha cambiato totalmente la percezione dello stato delle cose.
P: Non so prima ti fosse mai successo di incrociare qualche servizio di Salute Mentale, indirettamente, magari nel racconto di altri, di persone che ti sono vicine. In ogni caso, con questa esperienza si è modificata la tua percezione delle possibilità di cura che vengono offerte oggi alle persone con sofferenza mentale?
G: Ho avuto una visione concreta del famoso “si può fare”, nel vedere con i miei occhi che non soltanto quello che c’era prima era profondamente sbagliato e disumano, ma che quello che c’è adesso e che viene realizzato con molta fatica e con molta pazienza, cercando di rosicchiare tutti gli spazi possibili di attività, è un lavoro non soltanto ricco di senso e di potenzialità e quindi giusto, ma possibile. Nelle interviste ricordo spesso la risposta di Franca Ongaro, a pochi anni dall’entrata in vigore della 180, a Enzo Biagi che le chiedeva provocatoriamente, facendo un po’ l’avvocato del diavolo- non so quanto credendoci,ma in quel momento recitando questa parte- : ‘ma signora, lei se la sente di dire che questa legge funziona nel nostro paese paese? E poi : come mai siamo gli unici al mondo ad essersi dotati di questa legge? Noi siamo gli unici intelligenti e in tutto il resto del mondo ci sono dei cretini?’ E lei con molta semplicità gli rispondeva “vede, il fatto che questa legge funzioni per ora in pochissimi Comuni o in pochissime Province e Regioni e meno o affatto nel resto del paese, non credo possa significare che esista una follia diversa in alcuni Comuni, Province o Regioni rispetto ad altri. Significa semplicemente che laddove questa legge viene applicata correttamente e con coraggio questa legge funziona. Nei luoghi in cui non funziona è semplicemente perché non c’è la voglia, il coraggio e l’onestà di applicarla”: E ora, dopo circa 15 anni da quella risposta, credo che siano sotto gli occhi di tutti i motivi per i quali ancora oggi, su una grande parte del territorio, questa legge non funziona. Senza arrivare agli esempi di Poggiolini o Tarantini, insomma, è sotto gli occhi di tutti come siano stati spesi, spesso, i soldi nella sanità pubblica negli ultimi decenni . Essere entrato in un csm e anche negli spdc e venendo da Roma, e non da un piccolo paese di una provincia sperduta, e aver la sensazione di entrare in strutture da paese Scandinavo (realizzate per altro in assoluta economia ma spendendo bene i soldi), questo ha cambiato davvero la mia percezione dello stato delle cose. Vedere luoghi che già da un punto di vista estetico, prima ancora che dal punto di vista delle persone che ci lavorano dentro, sono dei luoghi in cui si va davvero per stare meglio e non per stare peggio, non per essere condannati ad uno stato di ulteriore disagio come succede spesso in alcune strutture psichiatriche, ma anche in molti ospedali pubblici dove vieni ricoverato magari per un appendicite e speri di rimanerci meno giorni possibile perché solo il fatto di stare li dentro ti fa ammalare. Ed è chiaro a tutti che per una persona che ha un problema di disagio mentale, e non un problema di appendicite o una frattura del piede, questo può avere una portata ancora più devastante perché se tu hai già un equilibrio psichico fragile entrare in un luogo sordido, sporco, in cui per giunta vieni trattato male, non sei curato ma sei punito, tutto questo significa ammalarsi ulteriormente di quelle strutture. Da questa esperienza ho capito forse più in profondità, ma anche molto concretamente, il senso di quello che andavo leggendo nei testi di Basaglia e negli altri testi che avevo letto in fase di preparazione.
E’ cambiato più questo che la l’idea in sé del disagio mentale in quanto tale o del mio rapporto con ‘l’altro da me’, della diffidenza o della paura che si può provare venendovi a contatto perché credo che tutto sommato fosse abbastanza ben direzionato già da prima. Si tratta di un territorio molto complesso, in cui non ci sono formule né bacchette magiche, né ci deve essere l’idea che basti pensarla in un certo modo per essere dalla parte del giusta e avere la strada spianata. Se vieni in contatto con una persona- specie se è a te cara, un tuo familiare, un tuo amico – che ha dei gravi problemi di disagio mentale, gravi forme patologiche intendo – tutto il tuo equilibrio è compromesso insieme a quello della persona che hai davanti, perché sei continuamente messo in discussione nel tuo presunto equilibrio. Come diceva Basaglia, parlando di ‘rapporto biodinamico’, non è soltanto il paziente ad essere messo in discussione dal terapeuta, ma è il terapeuta ad esser messo in discussione dal paziente. E’ ciò che si istaura in qualsiasi relazione autentica con un altro da te da cui sei costantemente messo in discussione, che sia una persona con un disagio mentale, o una delle tante persone che manifestano davanti ai tuoi occhi uno stato di disperazione in cui si trovano rispetto alla tua posizione. Ho capito un po’ meglio in cosa, tutta l’esperienza basagliana, sia andata molto oltre i confini della psichiatria e della medicina. Il senso profondo di quel discorso riguarda l’alterità e la diversità e ci allerta sul fatto che quando si costruiscono muri dietro cui nascondere le nostre paure e le nostre diffidenze, giorno dopo giorno si creano nuove mostruosità: basti dare un’occhiata (se te la fanno dare) alle strutture che vanno comunemente sotto il nome di ospizi per anziani o di centri di permanenza temporanea per i clandestini.
P: Non sono in molti ad aver recepito questo messaggio. La mia impressione è che la partita sia ancora aperta e vada giocata soprattutto su un piano culturale. Anche perché la chiusura su questi temi non è solo della gente comune ma di molti intellettuali che faticano a farsi interpellare da queste questioni , sono molto sbrigativi e apparentemente infastiditi quando gli si chiede di fermarsi a rifletterci. Gli stessi che si spendono con generosità per i diritti dei soggetti deboli, quando c’è di mezzo la salute mentale si ritraggono, “no qua lascio il campo perché sono i tecnici che sanno come vanno le cose, sono loro che hanno la competenza per parlarne”
G: Credo che paradossalmente e in controtendenza rispetto a quello che succede normalmente, per cui spesso si ha la sensazione che il sentire comune sia più avanti delle leggi che ne regolano la comunità, in questo caso la sensazione attuale è quella di avere una legge molto più avanzata rispetto alla sensibilità diffusa. Ed è un problema. Il motivo mi sembra semplice: veniamo da alcuni decenni in cui le politiche di questo paese sono state sempre più spesso gestite e direzionate facendo leva sui temi della paura, della chiusura, della diffidenza, sul pensare innanzitutto a come difendersi dall’altro . E se questo è stato il laboratorio con cui sono state costruite sistematicamente le paure di questo paese, è ovvio che oggi questo paese viva sulla paura. Aver paura dell’altro significa aver paura di perdere quello che si ha; ed è una paura che attraversa trasversalmente tutto il tessuto sociale, sia i ceti più abbienti che quelli più disagiati. Questo è il motivo, secondo me, per cui questa legge, entrata in vigore nel 78, oggi si ritrovi ad essere uno strumento culturale molto più avanzato rispetto a questo paese. Per quel che riguarda la posizione degli intellettuali, immagino che la reazione di ritrosia a cui fai riferimento possa dipendere da motivi diversi a seconda dei casi. L’idea che questa sia una materia per specialisti che ti porta a dire “io non voglio entrarci più di tanto” , non credo nasconda solo il tentativo di cavarsela per tagliare la corda e chiudere il discorso. Credo che da parte di alcuni ci sia la percezione che questo sia un territorio estremamente complesso. Penso che molte persone siano realmente convinte che tutto quello che c’era ‘prima’ fosse profondamente sbagliato e disumano ma che una volta chiusi i lager- anche passando per delle forzature ideologiche di cui a volte lo stesso Basaglia si serviva da esperto comunicatore- ci sia ritrovati non a un punto di arrivo, ma a un punto di partenza. Ora, effettivamente, c’è una parte di verità nel pensare che esistano delle competenze e che su questi temi non ci si può improvvisare. Chi non è uno scienziato, per fare un esempio, può davvero dibattere disinvoltamente di neuroscienze e dell’effettiva incidenza che le recenti scoperte hanno o non hanno effettivamente determinato sulle cure ? E non credo sia un caso se anche all’interno dal territorio basagliano originario, si siano venute a delineare, negli anni, tante posizioni diverse e che tuttora vigano molti distinguo. In alcuni casi si può avere la sensazione che provenendo da un’area culturalmente di sinistra, ci sia quasi una indomabile propensione a frammentarsi e a dividersi in mille segmenti. D’altra parte invece credo che chiunque si ponga sul serio queste questioni, sa che la materia è complessa e che il terreno delle terapie richiede coraggio e pazienza. Non credo che molti oggi se la sentano più di affermare con la stessa decisione di un tempo che tutto l’orizzonte della malattia psichica si esaurisca nella sua dimensione sociale come pure in qualche modo l’aveva impostato Basaglia in molti suoi interventi, pur restando il tema sociale un punto fondante e nevralgico del discorso. In quel momento era profondamente necessario, e per molti versi lo è tuttora, rimettere al centro il problema dei meccanismi sociali e soprattutto parlare di cosa significasse ribaltare e negare l’ordine del Potere e dell’Istituzione. In definiva io credo che di fronte a una materia che è anche nella sua pratica estremamente complessa, ci sia sicuramente chi in maniera sbrigativa non voglia più farsi carico di affrontare il discorso, anche per pavidità, ma che ci siano anche tante persone che onestamente ne vorrebbero sapere di più o che si sentono inadeguate rispetto ai propri strumenti cognitivi.
P: il problema secondo me riguarda il fatto che in nome delle competenze continuano a perpetrarsi sistematiche violazioni dei diritti sulle persone con sofferenza mentale – e questo ha a che fare anche con la cura, con la guarigione o non guarigione etc- in un clima di indifferenza generalizzata. Per questo penso che risocializzare questi temi e questi saperi, che non hanno soltanto risvolti tecnici, sia assolutamente necessario. Un’operazione come quella fatta dal film è fondamentale proprio perché ci mette nelle condizioni di pensare ci sono questi nessi e riguardano la vita di ciascuno di noi.
G: sono assolutamente d’accordo e credo che sia questo sia uno dei meriti ascrivibili a questo racconto di finzione di cui Peppe Dell’Acqua, raccogliendo in qualche modo la lezione del ‘grande comunicatore’ Basaglia , ha intuito quanto avrebbe potuto incidere positivamente su questo dibattito, vincendo la paura, che pure c’era ed era legittima, che questo film potesse aggiungere altro danno al danno se fosse stato fatto male, sia dal punto di vista dell’approccio – rischiando di mistificare o di distorcere, di piegare la verità della storia in una certa direzione- ma anche, e non è meno importante, da un punto di vista artistico, nel caso in cui fosse stato un brutto film. C’era la responsabilità non soltanto di dover essere fino in fondo onesti nel raccontare correttamente questa storia ma anche di fare un film ‘bello’ e importante. Poteva essere un film respingente, fastidioso, noioso , invece è stato, credo, un film capace di restituire quel clima di meravigliosa apertura attraverso un gesto estetico all’altezza del contenuto . Inoltre tra i meriti più grandi di questo film c’è quello di aver capito fin dalla scrittura, che sarebbe stato profondamente sbagliato raccontare solo la storia di un’intelligenza straordinaria, di una persona che fa il suo ingresso nella storia con la bacchetta magica risolvendo tutti i nostri problemi. Ma che compito del film doveva essere quello di raccontare la storia di un esperienza collettiva, di tanti uomini e di tante donne che avevano in qualche modo messo in campo le condizioni perché tutto questo avvenisse. Il merito di essere sfuggito allo stereotipo della biografia, di aver favorito l’idea che questa storia sia stata una grande storia corale, la storia di una grande trasformazione sociale.
P: l’ultima era una domanda che al Festival dei Matti Alice Banfi ha rivolto ad alcuni relatori: Elio, Cirri, Carlo Antonelli. Hai mai avuto paura di impazzire?
G: Ho un certo pudore a parlarne. Ma non della cosa in sé, quanto nel senso che, dopo quest’esperienza, non riesco più a rispondere a cuor leggero a una domanda così. Potrei dirti : ‘ogni giorno’, nel senso che sono convinto che se non avessi fatto le scelte che ho fatto ad un certo punto della mia vita , compresa quella determinante di scegliere di fare un lavoro che mi consente una forma totale di libertà di espressione, nel mettere a servizio del mio lavoro anche un certo tipo di fratture e microfratture della personalità , con le mie personali ‘storture’ forse a qualche problema sarei andato incontro. Però ho paura a risponderti perché poi ho troppo rispetto per il dolore mentale vero, per la sofferenza vera per poter giocare con queste cose. Io cerco ogni giorno di incanalare e combattere le mie zone più buie all’interno di un percorso espressivo, però ho troppo rispetto per la sofferenza e per chi si è perso davvero e non è in grado di gestire più ‘creativamente’ il proprio disagio , per dirti , ‘si, potevo impazzire…’ . Ecco lo so che tu non me lo poni in quel senso però, come dire, è una domanda che può capitare in un’intervista per Vanity Fair in cui l’attore di turno risponde “si,io ogni giorno potrei impazzire perché ho i miei demoni”. Ecco questa roba qui è insopportabile, perché non si può confondere la creatività o le proprie nevrosi con il disagio psichico. Da cui, oggi, anche grazie a Basaglia e alla sua storia, si può e si deve far di tutto per uscire.