Recensione di Kenka Lekovich: Quando qualche mese fa nella direzione del Dipartimento di Salute Mentale a San Giovanni, Trieste, mi si materializzò davanti una ragazza in nerofucsia di un pink punk postdatato ma – direbbe certamente lei – maledettamente naturale, non ho avuto dubbi. Era Alice. Alice Banfi. La piccola furia conosciuta dentro le pagine tenute insieme da due similborchie, battute a carattere corpo 18 del suo non-ancora-libro che allora si chiamava “Chiusi da porte di vetro. Breve biografia remota”, mi stava davanti. La psicofarmaco docile Alice di carta, che ti taglia i polpastrelli per la furia con cui ti costringe a leggerla. L’antieroina di un fumetto uscito da “Frigidaire” stranamente senza figure – basta il testo a disegnarle, più aerografo dell’aerografo. La “matta” del villaggio globale schedata nel suo libro bianco della vergogna sotto la voce “disturbo della personalità borderline”, riconoscibile dalle lentiggini di piercing su tutto il viso, i capelli blu sparati dritti in testa taglio “Zot” e le bolle di sapone che porta sempre nella borsetta per difendersi da quelli più pericolosi, a sé e agli altri, di lei.
E che per essere fedeli alla linea (della loro diagnosi) si affettano braccia e gambe con le loro migliori e uniche amiche lamette, e per tornare interi, salami perfetti, vengono legati da donne e uomini “di ghiaccio” in camici bianchi, a evitare che il ghiaccio si sporchi. Di sangue e di vita, malata da morire. Di “cure”, che rischiano di uccidere, come ha rischiato di essere uccisa la vita di Alice. Nata, neanche a farlo apposta, nell’anno in cui il villaggio globale sigillava le porte di piombo del suo manicomio globale, per riciclarle infedele in porte di vetro anti Tutto. E che Alice, che ora avevo davanti in scarsi 40 chili di carne elettrica distribuita lungo 157 cm di altezza, ha mandato all’aria. Malgrado Tutto. È questa piccola parola, la parola “malgrado”, il tunnel nel quale Alice spara la sua storia che ora si chiama “Tanto scappo lo stesso. Romanzo di una matta” (Stampa Alternativa, Viterbo giugno 2008) alla stessa velocità con cui vengono sparati iprotoni nell’anello della Macchina del Tempo. Lo scontro tra le due Alici, la “matta”e la “normale”, nel tunnel Diagnosi e Cura di Milano non è poi così lontano da quei due fasci di protoni che collidono alla velocità della luce nel tunnel della Macchina del Tempo di Ginevra, per riprodurre nell’impatto qualcosa di molto vicino all’origine dell’Universo. Con la speranza non poco folle che quel “qualcosa” possa sdoganare misteri più grandi e più vecchi dell’Universo cucco. Del tipo: materia oscura, antimateria, Buchi Neri, supersimmetrie dette Susy, pappette Quark, “la particella di Dio” persino. Tutto questo fotografato da “Rivelatori” che spareranno le istantanee in tempo reale nei computer di 8000 mila scienziati del mondo. Uno dei fantastici 4 si chiama, accidenti al caso, Alice! Ed è proprio quello che la nostra, di Alice, fa fare al suo romanzo “Tanto scappo lo stesso” (da comprare più veloci della luce), e con scienza infinitamente meno sofisticata, con l’elementare, nudo sguardo di una scrittura che per soli 10 euro contro i chissà quanti gigamiliardi spesi a Ginevra, fa toccare con mano, di più, ti ci scaraventa dentro, altro che Buchi Neri! Quelli dai quali Alice e non sa nemmeno lei come, è riuscita a scappare. E non per abbandonarli in mezzo alla strada, ma trasportando con sé, leggera, giocosa, dolce, ironica, tutta la pesantezza, la serietà, la durezza, la vergogna di ciò che quei Buchi rappresentano e sono.
Soprattutto, di ciò che fanno. Di come fagocitano le persone, se le mangiano vive, divorano testualmente, per risputarle informi, sfigurate nel corpo e nello spirito, irriconoscibili, derubate e denudate di tutto. Anche un rifiuto nella discarica ha più dignità di chi è così sfigato da finire, per dolore vero e nero o per smacco del destino, nel tunnel non della malattia mentale, ma dei luoghi e delle persone, dei medici, che da quel tunnel devono portarti fuori. Aiutarti a uscirne sulle tue gambe, con la tua testa, anche quando matta più di un cavallo, sulle spalle.
Come ha fatto Alice, ma ahimé, da sola o quasi. Oltre alla sua mamma, cui lei dedica il libro, ogni santo giorno lì, a proteggere la figlia con la sua calma, la dolcezza, l’abbraccio che mai giudica e sempre comprende ovvero “con sé prende”; oltre alla mamma che quando tutto va “di merda” sa dire che tutto andrà superbene, Alice “la paziente” ha come sua sola cura e salvezza, la cura che lei stessa sa e vuole, a costo della propria vita e libertà, donare agli altri “pazienti” imbottigliati con lei nel tunnel di vetro. Una piccola Giovanna D’Arco a lieto fine, che nel liberarsi e liberarsi, slegarsi e slegarsi, scappare e scappare, fuori e fuori e poi fuori, dieci, cento, mille volte, tutte le volte che la rinchiudono di nuovo, legano di nuovo, mettono dentro di nuovo, libera, slega, fa scappare anche gli Altri. I suoi compagni di contenzione, cui è vincolata dalle stesse cinghie che strangolano ogni se pur fioco filo di luce nel tunnel bianco della paura, altrimenti detto Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Italia, anno di grazia 2004.
E allora fuori Margherita, fuori Lena, fuori Piero. Fuori Rosalia, Francesca, Luigi, Maria Paola, Giò, Klara, il Conchiglia, Ibrahim, il cinese Matteo Su, il francese Simon, la signora De Frollo. Fuori tutti. E quelli che non è riuscita a liberare, come Marta, l’amica del cuore che portava i capelli rossi a caschetto alla Valentina di Crepax, se li porta ugualmente con sé. Fuori da quel tunnel, dentro, nel suo piccolo enorme libro, dove essi sono molto più che amichevoli, affettuose presenze, felicissimi e disperati ricordi. Ma voci, vive, di persone vive che nessuno più dovrà uccidere perché così si fa, perché se uno è matto è matto, perché non si può-non si sa-non si vuole fare nient’altro.
Voci che sanno bene come tutto questo non ha alcun senso e che “l’amplificatore” Alice dirotta in un’ultima domanda possibile, la domanda finale. Per chiedere a quegli infermieri che lei avrebbe voluto abbracciare anche quando la trascinavano per metri sul cemento a schiena nuda, la lasciavano svegliarsi legata al letto nella propria pipì, le praticavano, quando non aveva fame, il “trattamento del cucchiaione in gola”; per chiedere a quei dottori e dottoresse “di ghiaccio”, a quegli psichiatri laureati per curare la vita che si ammala e soffre e che si comportano da “laureati in agraria” o magari in niente, luminari in annientamento delle persone, per chiedere a tutti loro ma anche a tutti noi: “COSA STAVATE FACENDO”? Con tutta la folle speranza che questa domanda così follemente normale non abbia mai più da coniugarsi al presente. Guai al futuro.
Scrive Peppe Dell’Acqua nella densa prefazione-denuncia al libro, ricordando le sue notti di giovane psichiatra nei reparti del manicomio di Trieste aperti da Basaglia, a vegliare perché nessun malato venga contenuto, isolato, ingabbiato: “Durante quelle notti un amico milanese, giovane psichiatra, anche lui a Trieste per incontrare Basaglia, colto, intelligente e di una irrefrenabile ironia, raccontava del reparto di un manicomio lombardo che aveva frequentato da studente. In questo reparto erano ricoverati sessanta uomini. Era in uso la contenzione ‘democratica’, diceva, senza discriminazioni. Gli infermieri avevano il compito di legare tutti dopo cena, in preparazione della notte. Per avere la notte tranquilla. Avevano addestrato due internati che, solleciti, procedevano a legare tutti. Alla fine uno legava l’altro e l’ultimo stava perfino imparando a legarsi da solo![…] Ridevamo e coglievamo con orgoglio il senso di una scelta. Pratiche e storie di altri tempi ci sembravano. Di una psichiatria ormai obsoleta. Era il 1972!
Queste pratiche e queste psichiatrie sono tornate. O meglio non hanno mai lasciato il campo. E così dai reparti degli ospedali psichiatrici quei trattamenti si sono riprodotti nei Servizi psichiatrici di Diagnosi e Cura, il luogo che Alice attraversa e racconta”.