Basaglia ci ha parlato ancora del suo ideale: l’uomo, non il malato
La fiction “C’era una volta la città dei matti” su Rai Uno ha sicuramente indebolito le tesi dei detrattori della legge 180 e della “rivoluzione” di Franco Basaglia.
Un film sull’esperienza psichiatrica del Professor Basaglia nei manicomi di Gorizia e Trieste, dove si è sperimentato il capovolgimento dell’approccio terapeutico nei confronti della follia e dei disturbi mentali, consegnando poi i risultati positivi nella proposta di una legge che avrebbe diffuso su tutto il territorio nazionale i nuovi strumenti e presidi psichiatrici già allora considerati d’avanguardia dall’O.M.S. e dagli organismi sociosanitari dei paesi più avanzati.
Una “rivoluzione”, quella di “liberare” i pazzi trasformandoli in uomini, che è riuscita incredibilmente a tramutarsi in legge nel 1978 ma che ha dovuto aspettare vent’anni per vederne attuata la portata centrale della chiusura definitiva dei manicomi e che ancora oggi fatica ad entrare a regime con la realizzazione compiuta dei servizi alternativi in tutto il territorio nazionale.
La fiction televisiva è riuscita a farci entrare per la prima volta nel vivo dell’esperienza psichiatrica di Basaglia e ad emozionarci per l’aderenza ad una realtà umana eccezionale che la regia ha saputo riportare sullo schermo e far conoscere a tanti telespettatori.
Ci ha colpito la ricostruzione complessiva dell’evoluzione della “cura” della malattia mentale adottata con pervicacia da Basaglia, capace di portare i pazienti dalla condizione di inumana contenzione alla riscoperta del sé, e al tempo stesso la correlazione e gli sviluppi del complicato rapporto che il processo di cambiamento del mondo di sofferenza del manicomio ha avuto con la società, le sue paure e le istituzioni. Ci hanno colpito i personaggi di Margherita, Boris, Furlan e le loro storie di strenua e coraggiosa lotta per la riappropriazione dello smarrito piacere di vivere e socializzare, una volta che qualcuno dava loro l’opportunità e l’aiuto necessari.
La fiction ha evitato anche di fare del semplice trionfalismo sull’opera di Basaglia mostrando gli incidenti di percorso, le disillusioni e le amarezze che hanno accompagnato un lavoro psichiatrico che di utopico aveva solo la sfida verso il miglioramento, in quanto il riscontro della nuova “cura” era diretto e immediato, e riusciva ad aprire spiragli di comprensione e condivisione all’esterno del manicomio, tra le famiglie dei pazienti e l’ambiente sociale. La gente si convinceva sempre più che togliere dalla pura e semplice contenzione i disagiati mentali, dare loro dignità umana seguendoli comunque nel loro percorso di “liberazione”, era veramente più “terapeutico”. La morte accidentale della moglie di Furlan o le escandescenze di Boris di fronte alle ingiustizie sono di per sé fatti di vita normale, che però se “accaduti” ai matti divengono motivo di pericolo sociale, semplicemente perché le persone “normali” sono abituate al modello di chiusura manicomiale o ghettizzazione della devianza. La riconquista della normalità per altro verso, peraltro di una normalità più evoluta che non include certo la visione di uomini segregati, da parte dei “pazienti” e del loro reinserimento sociale è la rappresentazione finale del film, che termina con in sottofondo la voce di un personaggio che ribadisce: “Ci voleva un matto per liberare i matti!”.
A Trieste, nella città in cui Basaglia ha infine realizzato la migliore e più efficace esperienza che ha portato alla riforma psichiatrica in Italia e dove è morto prematuramente senza poterne seguire l’attuazione, dal 9 al 13 febbraio si è svolto il convegno “Trieste 2010: che cos’è salute mentale?” promosso dal Dipartimento di salute mentale cittadino.
L’incontro di Trieste ha visto la partecipazione di studiosi di oltre 40 Paesi per approfondire lo stato dell’evoluzione della “nuova psichiatria” basata sul modello “basagliano” (i cui prodromi sono raccolti nel testo originario “L’istituzione negata”) che ha trovato realizzazione in varie realtà del pianeta. All’incontro erano presenti i rappresentanti dell’Islanda, i cui abitanti nelle statistiche sono definiti “i più felici del mondo”, poiché anche quel Paese vuole adottare il modello Basaglia.
La città ospitante vive ora con normalità e acquiescenza il fatto di essere al centro del mondo della psichiatria e lo fa avendo superato vecchie prevenzioni e vivendo la quotidianità assieme ai matti.
di Andrea Lijoi per Pontediferro.org