Come comunicare i casi di disagio: una proposta dal meeting di San Giovanni.
In un sala troppo piccola, ieri in tanti si sono dati appuntamento per raccontare cos’è la salute mentale, stavolta nel mondo della comunicazione e dei media. Nel Parco di San Giovanni, in occasione del meeting triestino sulla promozione della salute mentale, si è svolto un curioso confronto ad armi pari curato da Massimo Cirri tra operatori dell’informazione e utenti dei servizi di salute mentale. L’obiettivo era quello di superare gli stereotipi che spesso caratterizzano il linguaggio dei media nei confronti di chi vive in prima persona problemi di salute mentale. Termini come “psicolabile”, “squilibrato” sono spesso usati per descrivere situazioni e fatti di cronaca. E se le parole sono trappole, nel mondo dell’informazione capita che le parole creino gabbie dentro le quali si mettono fatti e persone. Per il direttore del Dipartimento di Salute mentale Peppe Dell’Acqua «con l’approvazione della legge 180, trentanni fa, le persone hanno iniziato a parlare della propria sofferenza. Sono nate reti e associazioni di familiari per ascoltare queste voci. I tempi sono maturi perché ci si possa rivolgere ai media per una corretta informazione». Oggi per molti operatori dell’informazione le notizie di cronaca che riguardano persone con problemi di salute mentale sono «frullate, urlate e banalizzate – dice Iva Testa del Gr Rai. Io ho avuto problemi di depressione e sul lavoro temevo il pregiudizio». «I giovani cronisti hanno difficoltà a leggere la realtà di una persona attraverso i suoi occhi», ha spiegato invece Santo Della Volpe del Tg3. «Se ti facessi secco – ha detto Alice Banfi Massimo Cirri, storico conduttore di Caterpillar – come titolerebbero i giornali: depressa uccide psicologo giornalista?» Bisogna però anche sottolineare che le nuove generazioni di cronisti non hanno avuto l’opportunità di vivere in presa diretta la rivoluzione basagliana e quindi hanno meno conoscenze sulla salute mentale. A spiegarlo è stato Maurizio Cattaruzza, capocronista del Piccolo. «Sono favorevole a un’ipotesi di lavoro che coinvolga sia gli operatori dell’informazione che i servizi psichiatrici. La superficialità è dannosa ancora di più quando in ballo ci sono le persone». A chiedere uno sforzo comune sono state le associazioni di famigliari, per alimentare la conoscenza, per arrivare a un coordinamento, a un gruppo di lavoro che possa produrre materiali da far conoscere ai media. E magari anche una «carta per un giornalismo della speranza». Ad accogliere questa proposta, Beppe Giulietti di Articolo 21. «Questa può essere un’occasione per pensare di fare una Carta di Trieste, sulla scia di quelle di Treviso (a tutela dei minori) e di quella recente di Roma. Trieste rappresenta un modello di buone pratiche per la salute mentale. Si tratta di portare avanti un lavoro condiviso – ha spiegato Giulietti – che vede coinvolte sia le associazioni di famigliari, gli operatori dell’informazione, gli utenti dei servizi. Un patto tra giornalisti e persone che soffrono problemi di salute mentale, sull’uso corretto delle parole, sulle modalità di comunicazione del disagio». La proposta ha ottenuto il consenso del Presidente nazionale della stampa italiana Roberto Natale
(da Il Piccolo del 12.02.2010)